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Un giorno devi andare

Creato il 11 aprile 2013 da Eraserhead
Un giorno devi andareIl vento fa il suogiro (2005), L’uomo che verrà (2009) e oggi Un giorno devi andare (2013). Il cinema di Giorgio Diritti si conferma serbatoio di alterità, conca radunante storie che hanno la peculiarità di non appartenerci e al contempo di far parte di noi, delle nostre radici, della nostra realtà. Dalle valli occitane fino all’Amazzonia passando per la provincia bolognese, Diritti si è posto paletti che hanno dato forma ad un’espressione ormai già definibile come autoriale: recitazione in dialetto, e, nel caso di quest’opera, in portoghese, presenza di attori non professionisti, esaltazione di un ambiente che sia nel suo essere montano, o rurale o esotico non perde mai una cifra da protagonista, sguardo puntato sulle comunità, sulle minoranze, su delle miniature sociali che presentano, e subitaneamente rimandano, a problematiche odierne, urgenti ed irrisolte.

Un giorno devi andare si tripartisce in un percorso che ha in Augusta il suo baricentro, Diritti è abile nel mimetizzare il film che nel suo arco temporale abbraccia tre diverse modalità con cui la protagonista tenta di ricercare quel senso smarrito nel mondo civile. La prima parte depista facendoci credere che il lungometraggio non sia altro che un depliant illustrativo delle azioni caritatevoli compiute dai missionari cattolici, in questo scenario di coatta evangelizzazione vediamo il primo passo verso una sorta di indipendenza: se Augusta vuole trovarsi deve farlo da sola, deve abbandonare il barcone e inoltrarsi nei budelli di Manaus per accantonare la dottrina e seguire l’unica religione perseguibile in un posto del genere: quella della fratellanza. Diritti è piuttosto bravo a gestire la sua eroina, il tragitto di Jasmine Trinca infatti non sembra destinato a trovare pace e lo spettatore ringrazia poiché ha l’opportunità di assistere ad una terza ed ultima porzione dove il formato panoramico riempie lo schermo e dona immagini da ricordare, non solo: si lambisce una certa ambiguità, tra la pazzia e non, tra il sogno e non, nell’eremo sulla spiaggia Augusta sembra finalmente ritrovare se stessa, salvo poi essere smentiti da quella piroga che placidamente prende il largo.
La molteplicità argomentativa è un punto a favore del film, la narrazione tocca tematiche che, come in un cortocircuito, si scontrano senza far rumore: la fede è un motivo che torna continuamente sotto spoglie diverse e in un pingpong oceanico tra il Brasile e l’Italia (riuscito il dibattito fra il Sud America dove la fertilità esplode e l’Europa che si sostanzia in un’asetticità raggelante), a bilanciare una tale dimensione spirituale c’è la tremenda povertà della favela dove le preghiere non salvano le baracche che crollano nel fiume e dove una promessa di lavoro recide altre promesse, forse, anche, sentimentali. Ma questi e altri aspetti non possono che essere l’appendice alla ragione portante della pellicola; il regista ce lo indica dal principio con quella sovrapposizione tra la luna e un’ecografia, la maternità è il cuore vibrante declinato in rivoli impreziosenti: a monte il rapporto tra la mamma di Augusta e la nonna malata è freddo e problematico, in Amazzonia un bimbo viene venduto per qualche soldo e quella piccola (e vuota) bara bianca diventa il funerale di un’altra creatura, mai nata. Apprezzabile, allora, la svolta conclusiva in cui Augusta si abbandona nel ventre della Natura, uno slancio simbolico che partorisce un miraggio materno, momento verticale del film che Diritti lascia sospeso, tappa non ultima né definitiva, ma di mezzo: un giorno devi andare, e andare, e andare ancora.
(una canoa tra le canne di bambù: e il viaggio continua...)

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