Anno: 2012
Distribuzione: 01 distribution
Durata: 98′
Genere: Drammatico
Nazionalità: Italia, USA
Regia: Roberto Faenza
Sono lontanissimi, ormai, i tempi in cui parole come ‘ribellione’, ‘politicamente scorretto’, ‘trasgressione’ avevano ragione di essere. Bei tempi quelli del Faenza di Copkiller – L’assassino dei poliziotti, impegnato a dirigere le facce sporche di Harvey Keitel e Johnny Rotten. Ora, nell’attuale società occidentale, dobbiamo accontentarci di essere ‘normali’. Camminiamo l’uno di fianco all’altro nelle nostre grandi, organizzate metropoli, ignorando le unicità di ogni singolo individuo. Persino la nostra. Se abbiamo fame mangiamo, se vogliamo comunicare accendiamo il computer, se abbiamo un problema corriamo a farci psicanalizzare (anzi, nella moderna NYC è di gran voga il life coach…), se abbiamo paura fuggiamo. Non ci facciamo mancare niente, dunque. Perchè lottare? Per cosa? E per andare dove? Questi, e molti altri, gli eterni quesiti a cui l’umanità intelligente si sottopone da sempre. Mentre, l’altra parte di umanità canalizza e (pre)tende di far risolvere tali scomode e fastidiose questioni al tempo. A quel periodo di tempo comunemente denominato ‘adolescenza’.
Peter Cameron, però, l’autore del libro da cui è tratto il film, s’immerge in queste tematiche, pur non essendo affatto un ragazzo. E crea una metafora di nome James, un pretesto per discutere, seppur con leggerezza, di filosofia, società, sessualità e guardare il tutto attraverso gli occhi di un diciassettenne. Enorme privilegio, quello di potersi ancora permettere di sperare, sognare, sbagliare…perchè nella realtà, ci è concesso solo fino a una certa età, a quanto pare. I genitori di James (da lodare la raffinata caratterizzazione del personaggio della madre da parte dell’attrice premio Oscar Marcia Gay Harden), che dovrebbero rappresentare le figure autoritarie e di riferimento per eccellenza, sono di pessimo esempio, ma non a tal punto da scatenare le vecchie, sane ribellioni. Sono innocui. Non c’è cattiveria nei loro fallimenti, nei loro maldestri modi di vivere. Essi sono i veri figli, gli adolescenti degli anni ’70 che, in fondo, non sono mai cresciuti e si sono portati dietro tutte quelle sensazioni di angoscia, incompiutezza, rabbia derivate da situazioni (forse) mai risolte, ma che, quasi per ironia della sorte, li hanno indotti a costruirsi una casa, una famiglia, un lavoro ‘normali’. Fino ad arrivare ad incarnare quelle idee contro cui si scagliavano in gioventù. Non c’è più una linea di confine definita tra bene e male, adulto e bambino, essere e apparire. Ce la siamo meritata questa visione del nostro mondo capovolta?
Probabilmente il passaggio da libro a film, come quello da adolescenza a età adulta, è forzato: una fioca utopia, un tentativo di voler mettere punti e virgole a tutti i costi, senza rischiare licenze poetiche o umane ombreggiature. La lettura è comunque consigliata. La visione del film da evitare. A condizione che non si abbiano aspettative sulla parola ‘dolore’ contenuta nel titolo. Non c’è da temere, purtroppo, non c’è niente di pericoloso: è cinema filtrato, imbavagliato e adagiato su una nuvoletta rosa. É un inganno. Niente a che vedere con i veri sentimenti: persino la musica suona fasulla nel provare ad infondere tristezza davanti a qualcosa che, nel profondo, non scuote affatto. Altro che Sex Pistols. Non serve mettere su un prodotto il marchio made in USA per determinarne la qualità e lo spessore di forma e contenuti. E Salvatores insegna, col suo silenzioso e straziante Come Dio comanda, che davvero (rac)comanderei alla nuova generazione di adolescenti del futuro.
Giovanna Ferrigno