Ci sono film che non si dimenticano mai. Restano incastonati nella memoria come qualcosa di prezioso e da difendere dallo scorrere inevitabile del tempo, e altri invece che diventano uno sbiadito ricordo, fin quando poi non si cancellano via completamente, come se non li avessimo mai visti. Il nuovo lungometraggio di Roberto Faenza, “Un giorno questo dolore ti sarà utile”, recentemente uscito nelle sale e ampiamente pubblicizzato su tutti i media, come se ci trovassimo di fronte a un nuovo capolavoro italiano supportato dal marchio di garanzia americano, entra ampiamente nella seconda categoria descritta. La pellicola è la trasposizione dell’omonimo romanzo di Peter Cameron, il cui titolo a dire il vero prometteva molto bene, forse per quella frase che sa di monito a sperare che un giorno, presto o tardi, il dolore provato passi e ci renda più consapevoli di noi stessi, o almeno credere che possa essere così. Una sofferenza acuta, straziante, che lacera ma che serve a crescere e reinventarsi, ancora una volta. Dal titolo ci si aspettava questo appunto, come dimostrano inoltre le primissime scene, dove un bel giovane di diciassette anni, inspiegabilmente, è sul punto di farla finita. Dietro quell’insensato gesto, si crea subito nello spettatore una viscerale empatia nei confronti di un ragazzo di cui non si sa nulla, ma che solo dallo sguardo trasmette tutta la sofferenza di una vita che sta troppo stretta. Purtroppo però dalla sequenza successiva le cose cambiano e il film vira verso scopi sconosciuti, quasi al limite del banale.
Così impariamo a conoscere meglio lui, James Sveck (Toby Regbo), il ragazzino che ci aveva immediatamente intenerito e che dopo 30 minuti di girato, diventa assolutamente insopportabile con quella prosopopea di chi ha la presunzione di avere un problema, quando la verità è che non si ha alcun dramma esistenziale alle spalle, ma si è noiosamente e piattamente uguali agli altri. In una grande e affollata New York, con ritmi lenti e ripetitivi, si staglia la normale storia di un ragazzino disincantato e disinteressato alla gente che lo circonda, che osserva le vicende della sua strampalata famiglia dal buco della serratura, senza mai farsi troppo inglobare da quel mondo al quale sente di non appartenere.
Un film che racconta della solitudine, della difficoltà a relazionarsi con gli altri e dell’impossibilità di sentirsi “normali” in mezzo a tanta “anormalità”. Purtroppo però l’opera non riesce a mirare al cuore di chi guarda, non crea nessuna forma di empatia, non emoziona. Questo dolore tanto declamato, diventa solo fastidio nei confronti di un ragazzo come tanti che con lucido distacco analizza se stesso, arrivando da sé a una conclusione che già dall’inizio era ben chiara e palese. Un lungometraggio che non vuole arrivare da nessuna parte, un percorso di formazione che tale non è, perché non c’è alcuna strada da percorrere.
Neanche i ruoli collaterali che dovrebbero essere un “aiuto” al giovane protagonista – come quello della nonna esiliata in campagna o dell’imprevedibile life coach – riescono a incidere in modo notevole ed essenziale sulla crescita del personaggio che pare essere già ben consapevole di ciò che è e che solo alla fine riesce ad affermare di essere, con buona pace di chi gli sta accanto e dello spettatore. Spiace dirlo, ma la buona riuscita di una pellicola non dipende soltanto dal cast che viene usato.
Gli attori in effetti ci sono, e in genere nel ruolo che ricoprono sono piuttosto credibili, a partire da Marcia Gay Harden, la svampita madre di James che cerca rifugio nella filosofia orientale o il suo ex marito mollato dopo 24 ore di matrimonio, interpretato da Stephen Lang che nonostante la piccola parte, dimostra senza alcun dubbio molta più umanità del protagonista. L’idea di portare al cinema un nuovo e rinnovato giovane Holden dei nostri tempi – come lo stesso Faenza ha più volte affermato – oltre ad essere un’impresa assai ambiziosa, risulta quanto mai fallimentare alla luce di una trasposizione che risulta noiosa, senza sentimento e con poca verità. Se un giorno questo dolore sarà utile, si spera che film come questo non lo siano affatto.