E’ così che cominciano, no? Certe barzellette che forse adesso non si raccontano più. Forse è meglio o forse no, ma sta di fatto che nei punti morti, mentre si aspetta che arrivi il cameriere per ordinare, semplicemente si dà un’occhiata ai social network dallo smartphone. Le barzellette, nel ciclismo, si raccontano sui pullman, nelle docce, o la sera in albergo. In gara, in una volata, non c’è tempo per ridere, bisogna avere le gambe, la percezione giusta dei metri, dell’arrivo, di chi ti sta col fiato sul collo. E l’incredibile capacità di estraniarsi dal resto, dal mondo che per un attimo va via, sparisce. Il ciclista, il niente, il traguardo.
Un inglese con gli occhi dalle ciglia lunghe e la figlia bella come una bambola, uno slovacco dal sorriso furbo e lo sguardo altrove e un tedesco con il ciuffo biondo alla Elvis e gli occhi tra il grigio e l’azzurro.
Mark Cavendish, Peter Sagan e Marcel Kittel conoscono la velocità come un uomo conosce ogni lembo di pelle della sua amante e forse la possiedono in modi totalmente diversi. Mark è un fuoriclasse, ha dominato gli ultimi anni con le sue volate e con lui i pronostici erano diventati facili e scontati. Quindici vittorie nel 2012 e diciotto l’anno scorso. Peter è un ragazzo con la vittoria cucita addosso: per lui tutto è facile, naturale. Ha le gambe per il pavè e per il rettilineo, un concentrato di forza e velocità che prima stupisce e poi abitua. Ci si abitua a sentire il suo nome prima di tutti gli altri, a sentire dallo speaker che Sagan parte dopo l’ultima curva e saluta tutti, nessuno lo riprende più. L’anno scorso il suo palmarés segna ventidue vittorie e la seconda ascesa al gradino più alto del Tour de France con la maglia verde della classifica a punti. Il più veloce.
Marcel. Marcel, invece, è un discorso a parte. Penso a lui tra la folla di Parigi, alle figure in bicicletta tra l’ultima luce del tramonto che si confonde con quella giallognola delle lampade elettriche, dei fari delle moto e delle macchine al seguito. Quella vittoria ha detto al mondo che lui poteva essere più forte persino di Cavendish, re incontrastato degli Champs Elysees. Quella quarta vittoria al Tour significava che il ragazzo che aveva cominciato a gareggiare in mountain bike era davvero cresciuto, stava diventando quello che aveva sempre sognato. Significava che aveva trovato la sua vera identità. Perché l’identità, sulla bicicletta, è fondamentale. E non parlo delle etichette, passista, velocista, scalatore, ma quelle che si scoprono dentro, sulla strada, mentre si cade o mentre si vince. Quelle che ci sono state affibbiate dal destino e sono solo per noi. Noi e nessun altro. Marcel dalle spalle ampie e possenti era diventato professionista nel 2011 e a ventitré anni forse non sapeva ancora che cosa sarebbe stato. Lo dicevano un uomo da cronometro ma a quella che allora era la Skil – Shimano si sono accorti che il ragazzo era veloce e poteva esserlo ancora di più. Sempre più sprint e sempre più vittorie: una roccia veloce che negli ultimi duecento metri sa spingere come pochi altri.
Oggi il tedesco dagli occhi grigio-azzurri è l’uomo del momento. Ha cominciato la stagione vincendo la People Choice Classic in Australia e ha continuato mangiandosi quattro tappe su quattro del Dubai Tour la scorsa settimana. Il suo sorriso e il suo sguardo nascosto dai Rayban fanno, da giorni, il giro dei social network e con certi filtri di Instagram, tra tutta quella sabbia, assomiglia un po’ a quei divi hollywoodiani sulle leggendarie High Roads americane. Il ciuffo biondo al vento ma sempre perfetto, i denti bianchi sulla pelle abbronzata e il motore di una Harley Davidson nelle gambe. Un sex appeal che da qualche tempo detta legge nel ciclismo.
A Dubai tutti si aspettavano un Cavendish senza freni e un Sagan senza sconti ma tra i due ha vinto un James Dean su due ruote e gli altri sono rimasti indietro. Niente scuse nelle volate, basta un centimetro per essere il numero due. La linea bianca è una vetta ed è di chi la tocca per primo.
Sì, Marcel hai trovato te stesso e la gente finalmente vede chi sei. Sì, sei il re. Oggi lo sei davvero. Anche se nel ciclismo la corona te la devi tenere stretta, con le unghie, con i denti. Con le gambe. Sì, soprattutto con le gambe. Devono girare sempre.
Sempre, a tutta.
Tutto per quella corona che non è d’oro ma di sudore. Tutto per non perdere l’istinto dello scatto finale o del colpo di reni. Tutto per continuare a essere il primo. Per non perdere mai quell’abbandono finale che è come un sogno, un dormiveglia onirico, prima del traguardo. Prima della vittoria. Il silenzio, prima di riprendere ad ascoltare la vita.
No, Marcel, non perdere mai questo segreto. E’ solo tuo, non perderlo mai.