(vecchio racconto natalizio, scritto per i miei alunni e qui riciclato)
Un ingombrante Natale.
Sta venendo questo “Natale”.
Non è un signore.
Natale, qui, è una festa. Tutti dovrebbero essere felici, ma io no.
La maestra mi ha detto di raccontare che cosa provo, nella profondità del cuore. Poi mi ha raccomandato di non vagabondare nelle mie parole, come sempre faccio. Ma pure, per dire che cosa provo nella profondità del mio cuore, devo prima spiegare con diligenza come sono arrivata qui.
Giustappunto, io credo di dover partire dall’inizio di questa storia, che poi finisce a Natale.
Io mi chiamo Varša.
Il mio problema più grosso è che penso in un modo e parlo in un altro.
Non sono matta. È solo che sono venuta qui dalla Tunisia, alquanti mesi fa, diciamo aprile, e la mamma ha detto che dovevo andare a scuola subito, per non perdere tempo. Invece il tempo l’ho perso lo stesso, e due volte: uno, perché sono stata seduta in un banco (piccolo) per due mesi, e invece potevo giocare a casa mia con il cane, ma niente da fare; due, perché tanto sono risultata ugualmente bocciata. Una delle maestre, alla fine della scuola, mi ha fatto alzare dal mio banco e mi ha chiamato nel corridoio e mi ha parlato e parlato, e io non ci ho capito quasi niente. Una cosa ho capito: che io sono brava, bravissima, e ho imparato alquante cose in quelle scarse settimane che ero qui in Italia, e allora era meglio se stavo in quinta classe, dove ero già.
Rimanere in quinta classe invece di dirigersi alla scuola dei più grandi qui si dice giustappunto “bocciata”. Io non volevo, perché Martina, Alessia, e anche Eva, andavano alla scuola di fronte, quella dei grandi, che chiamano La Media, e questo si dice “promosse”. Io ero brava, diceva quella maestra, ma non abbastanza, e rimanevo bocciata. Così imparavo meglio l’italiano.
Ho pensato cose: uno, che volevo rimanere con Martina, Alessia, Eva, e anche con Hassan, che fa disperare le maestre ma è intelligente e fa ridere; due, che ero capitata in un paese di matti, dove se una era brava rimaneva bocciata, e se una era cattiva, come Camilla che mi ha detto alquante cose brutte, ecco, lei restava promossa; tre, che volevo afferrare l’aereo e respingermi in Tunisia che è meglio di qui, dove non c’è il mare, e non c’è il monte, e c’è il sole, e basta; quattro: che io l’italiano lo sapevo già benissimo. Nella mia testa. Magari, con un po’ di pazienza, lo avrei saputo anche sulla mia bocca.
Ecco, anche se ho vagabondato dal discorso, volevo spiegare che io penso come nella Tunisia, e devo parlare come nel Casalpusterlengo, che è il nome del posto dove sono capitata alquanti mesi fa, e ci devo rimanere, chissà chi lo sa quanto, come dice sempre la maestra della matematica che ho adesso.
Adesso sono in quinta elementare. La mia seconda quinta.
Ho delle maestre nuove, e nemmeno un maestro.
In Tunisia avevo un maestro. Quando Soufien disperava il maestro, il maestro prendeva un pezzo un po’ lungo della gomma nera della automobile e lo pestava forte, e lui gridava poco e stava molto molto buono. Me, non mi ha mai picchiato. Io stavo buona da prima.
In Tunisia eravamo tantissimi e potevamo a giocare a spintoni. I banchi erano di legno, non come qui, che non si può scriverci sopra niente, altrimenti la signora Teresa, che si chiama La Bidella, ti grida e ti crollano le orecchie. Qui i banchi sono lisci lisci, come la faccia della maestra.
In Tunisia c’era la nonna, con la faccia piena di segni. Mi ha insegnato a non guardare le persone negli occhi, solo gli animali si guardano negli occhi. Ma la maestra dice, invece: “Quando parli alle persone le devi guardare negli occhi”, e mi ha messo nel banco con Mattia per guardarlo negli occhi, ma lui non si gira mai, come faccio?
Comunque.
Adesso la maestra di italiano dice che devo pensare italiano e parlare italiano. Io dico: sì, maestra, ma ragiono che ci vorrebbe un mago. Però sto imparando, e ogni giorno acquisto una parola nuova e per acquistare guardo sul vocabolario, e poi la scrivo sempre. La maestra di italiano dice che devo scrivere in italiano. Pensare italiano, parlare italiano, scrivere italiano.
Questo è il mio problema più ingombrante.
Il secondo problema alquanto ingombrante è Casalpusterlengo.
Non il nome. Il nome è quello e mi sono abituata. Quando nella mia Tunisia dicevo: vado in Casalpusterlengo, tutti ridevano, perciò alla fine io ero contenta di farli ridere. Sul nome, niente da dire.
È il posto. Il luogo, insomma. È cosa che mi causa alquante preoccupazioni. La maestra di italiano dice che, se mi turbano i crucci, devo scrivere e forse, potrebbe anche essere, magari, succederebbe che scomparissero. Mah.
In ogni modo, ho questo quaderno, e provo a estendere le mie preoccupazioni, che però non hanno l’idea di uscire dalla mia testa e dal mio cuore, per ora, nemmeno adesso che arriverebbe questo Natale.
Così, anche se ho vagabondato ancora dal testo, volevo dire che quello che mi sbatte contro e mi abbatte è codesto luogo che ora non ha più nemmeno il sole. Niente mare, niente montagne, e ora più nemmanco il sole. La mamma non dice niente, ma adesso è diventata alquanto nervosa e agitata. Ieri sera ha fatto cadere un bicchiere d’acqua, che è costruito di vetro, si è rotto e acqua dappertutto e vetri uguale. E la mamma ha strillato, in arabo, che era colpa mia, e avevo detto un qualche cosa e lei si era girata e aveva inciampato col braccio nel bicchiere ed era, la colpa, la mia. Così, pagamento, non c’è il sole e lei mi affligge con le colpe sue proprie e me lo spiega in arabo, pagamento.
Adesso faccio un allontanamento dai miei ingombranti problemi per spiegare una parola.
“E pagamento!” lo dice sempre la signora Teresa, detta La Bidella, anche quando non tira fuori i soldi. Allora io ho cortesemente richiesto il perché e il percome, come dice sempre la maestra di inglese. Il percome del “pagamento” era che: quando un individuo o persona o anche un bambino ha una cosa che già si rappresenta piuttosto brutta (come essere lontano da un posto come la Tunisia), e gli accade un’altra cosa piuttosto dispiacente (come essere vicino a un posto senza sole), e in addizione gli capita che gli danno anche la colpa di qualsiasi accaduto che lui non ha accaduto (come rompere un bicchiere che ha rotto un altro), allora la signora Teresa direbbe: “E, pagament!, g’han dai anca la culpa!”, che si dice più giustamente: e, pagamento, gli hanno dato anche la colpa.
E nel mio proprio caso risulterebbe: non c’è il sole, mi avete portato voi in questo posto, e, pagamento, anche la colpa del bicchiere.
Qui finisco l’allontanamento e torno al problema che adesso si rappresenta il più enorme di tutti
gli altri.
Esso si chiama Natale.
Io non capisco, e qui c’è il bambino che si chiama Mattia, quello del mio banco, che dice che sono scema se non capisco. Mattia è molto molto cattivo. Ma anche se è molto cattivo io vedo che nella scuola è bravo.
Questo significa che non sono così scema e capisco le cose nascoste.
Mattia mi chiama scimmia. Mi chiama scimmia quando la maestra non lo sente. La mamma un giorno mi ha detto di rimandargli che lui le scimmie non sa nemmeno come sono fatte, che non ne ha nemmeno mai vista una, di stare zitto, ignorante. E lui mi ha risposto che una l’aveva vista.
Ero io.
Giustappunto.
Adesso Mattia cerco di non vederlo e non sentirlo, ma è alquanto e piuttosto difficile. Il papà mi ha detto: “Cerca di essere brava, qui si devono fare tanti sacrifici”, e io credevo che bisognava sacrificare tanti montoni per poter andare a scuola. Poi ho capito che era una cosa diversa, e fare tanti sacrifici vuol dire che in un paese ricco non si può vivere da poveri, così devo fare anch’io i “sacrifici”.
Il primo “sacrificio” che ho fatto è la storia del vocabolario, che ho già detto, inutile ripetere, se no la maestra sgrida che sono ripetente.
(Tra le parentesi, ho scoperto che questa parola del ripetere vuole anche dire bocciata, e io così non imparerò mai l’italiano, credo).
Comunque.
Con il sacrificio del vocabolario, secondo me, ma anche secondo la mamma e il papà, io sto diventando più infinitamente brava di Mattia, che non sa nemmeno cosa vuole dire “giustappunto”, e io lo so, e lo uso, per fargli mostrare che sono più brava di lui.
Giustappunto credo di avere ancora vagabondato dal Natale.
Ma ora ci torno: io non capisco questa cosa del Natale che si canta, si suona il piffero, e poi si sta tutti a casa da scuola. Cioè, stare a casa da scuola ho capito, e meno male un po’ di respiro. Ma il resto faccio alquanto fatica.
La prima volta che ho sentito parlare dei canti e del piffero, che qui tutti sanno come si suona, l’ho detto alla mamma, di comprarmelo.
La mamma è venuta a scuola, insieme a Najiad.
Najiad è una signora alquanto grassetta che sta in questa Italia da tanti, tanti anni, e parla italiano meglio di me e della mamma, anche se meglio della mamma è facile, perché la mamma non lo parla niente. Infatti, questo Casalpusterlengo non le piace e vuole tornare subito in Tunisia, e quindi non c’è la fatica di parlare italiano, per lei. Per me sì, e questo è un grande mistero.
Comunque.
Najiad ha parlato al posto della mamma. Le maestre, ma soprattutto un maestro che era venuto solo per le canzoni, hanno saputo che è meglio che io non suoni e che non canti. “Capisco, capisco”, ha detto il maestro della musica, che si chiama Dario, ha i capelli un po’ grigi e ha fatto una faccia lunga e ha guardato le altre maestre. E le altre maestre hanno alzato gli occhi e guardato il sopra, e dato che il sopra (che si chiama Il Soffitto) era il solito di tutti i giorni, bianco e un po’ sporco e con una ragnatela nell’angolo, ho ben capito che loro parlavano con il silenzio degli occhi e dicevano a Dario:
“Eh, maestro Dario, che cosa vuoi rimediare. Lascia stare, lo sai come vanno codeste faccende.”
Col piffero, ho pensato io.
E qui mi va di fare un’altra trasgressione, in quanto questa cosa del piffero è una parola che dice sempre Mattia e vuol dire: no, che non lo sai come vanno. Oppure: no, che questa cosa non la
faccio. Oppure: un bel niente.
All’inizio io pensavo che il niente, il niente come si fa a vedere se è bello o brutto?, ma qui si dice così, e lo dico anch’io, quando voglio dire di no. Un bel niente. Oppure dico: col piffero. Così imparo l’italiano. Ma siccome la maestra Antonella continua a dirmi: stai sulla strada giusta, stai sulla strada giusta, devo tornare alla strada giusta, ed ecco che rientro al Natale.
Anche se prima devo dire che sto facendo alquanta fatica a raccontare questa storia.
Allora: resta il fatto che questo Natale è una festa.
E va bene.
Addiziona il fatto che noi questa festa non la facciamo.
E qui, anche se vagabondo di nuovo, lo devo dire, che noi, io la mamma e il papà, siamo musulmani, e anche Najiad è musulmana, benché lei metta i pantaloni e certe volte va in giro persino senza velo. Non adesso che fa freddo, ma quando fa caldo, sì, spergiuro che l’ho vista senza niente in testa.
Essere musulmani, nella mia Tunisia, voleva dire che ero come gli altri, e io nemmanco mi accorgevo che essere musulmani voleva dire qualcosa.
Ma qui in Casalpusterlengo è diverso. Qui vuol dire qualcosa.
Qualcosa di diverso, che è ancora più brutto.
Allora un giorno sono andata a casa, e ho domandato alla mamma che cosa siamo. Lei risponde: siamo musulmani. E questo, ho capito. Allora chiedo alla mamma se è perché sono musulmana che io mi devo vestire in modo stravagante. Lei risponde: non è stravagante, è giusto.
Allora spiego: Camilla dice sempre che io sono vestita stramba, con tutto questo velo intorno e addosso, e la gonna lunga fino in terra che nemmeno ho potuto fare la gara del lancio della pallina o della corsa.
La mamma dice che non è vero. E mi guarda in modo stravagante, molto, e un po’ anche arrabbiato, e io capisco che è meglio se finisce qui.
Poi, è arrivato il giorno che il Presidente della scuola è venuto in classe e ha spiegato la festa di Natale, e il cuore e il Pacinterra e i canti col piffero. La maestra Piera Angela, della matematica, che ha due nomi ma è una sola, per fortuna, ha fatto così, tac, con la testa, e il Presidente ha voltato gli occhi e mi ha visto e ha fatto un piccolo salto, e si è messo a battere il piede, e ha
detto a Piera Angela:
”Qualche problema?”
Io non ho sentito che cosa la maestra spiegava, perché parlava con parole alquanto sussurranti, ma siccome non sono scema, anche se Mattia dice di sì, ho compreso in me che ero io il problema. Come quella volta con il maestro Dario e le altre maestre che hanno voltato gli occhi al soffitto, se vi ricordate. Tutti a voltare gli occhi da qualche parte, con me.
A casa, ho gentilmente chiesto alla mamma se non potevamo cambiare il musulmano in qualcosa di altro. E lei mi ha quasi trapassata con lo sguardo che sembrava una spada, come ci aveva letto la maestra Antonella da un libro di draghi, e mi ha poco gentilmente avvisato che la nostra è la vera religione.
Allora io, che certe volte sono davvero un po’ scema, e questa volta devo offrire ragione a Mattia, sono andata avanti e dicevo che i miei compagni di classe dicono che la loro è la vera religione, e così come la mettiamo?
Allora la mamma ha deciso che la mettevamo che andavo a letto senza mangiare, e meglio che stavo silenziosa con il papà, perché nel caso esprimevo la domanda al papà, erano davvero guai.
Insomma, anche gironzolando tra le maestre, i pifferi, il sole, e Mattia, e persino il Presidente della scuola, ecco, credo che adesso si capisca che questo Natale per me è un veramente ingombrante problema.
Molto più enorme di scrivere nell’italiano della maestra, perché mi racconto chiaramente, mi sembra, e uso belle parole del vocabolario, più di Mattia.
Molto più enorme del sole che non c’è più, e al posto suo c’è questa La Nebbia che sembra di essere in un catino pieno di cotone grigio e non si vede dopo il vostro naso. Cioè, si vede, ma poco dopo non si vede più e allora, per esagerare, si dice del naso.
Molto più enorme della Camilla che, quando esce dalla scuola dei grandi e mi vede che esco dalla scuola dei piccoli, mi fa delle boccacce con la lingua e strabuzza i due occhi di qua e di là.
Molto più enorme delle tabelline che la Piera Angela, due in una, vuole studiate a memoria, e, tic tuc tac, sapere di corsa che cosa fa sei per nove (cinquantaquattro, comunque).
Molto enorme, soprattutto da quando si è addizionata una cosa grave. Un’altra.
Non bastavano i vestiti lunghi, che non suono il piffero, che non posso fare la corsa e il lancio della pallina, che nella mensa mangio certe volte altre cose, che arriva il Natale e io non posso cambiare l’Islam con il Tuscendidallestelle, che ancora non sono completamente brava nell’italiano (anche se imparo le parole nuove ogni benedetto giorno).
Non bastavano.
Pagamento, è arrivato lo spettacolino.
È una parola che vuole dire che i canti, e il piffero, e anche un ballo, si devono fare davanti a tutti i genitori che arrivano lì, un giorno, nella stanza più grande che abbiamo nella scuola, con le maestre e il Presidente che guardano e sorridono e fanno di sì con la testa, e qualche mamma piange e qualche papà ride e fa anche lui di sì con la testa.
Io queste cose non le potevo sapere ma la Camilla me le ha dette. Giustappunto mi ha aspettato fuori dalla scuola, e mentre andavo al pulmino giallo me le ha raccontate. Proprio mentre pensavo che forse la Camilla era una simpatica amica, lei mi ha guardato dritto negli occhi e mi ha detto: “Ti posso fare una domanda?” e non ho fatto in tempo a dire di sì, o magari di no, che lei continuava: “Ma tu non fai niente, vero? E la tua mamma non viene, vero? E nemmeno il tuo papà, vero?”
Che poi alla fine sono tre domande, ma io non credo che lei volesse nemmanco una risposta, perché si è messa a ridere ed è andata subito via, con le sue amiche della Media.
Qui mi sta venendo un po’ da sospirare, e meno male che nelle pagine di scrittura non ci stanno anche i sospiri, altrimenti stiamo freschi!
Se posso, vorrei spiegare che non è che stiamo freschi perché è inverno e inverno qui vuol dire freddo, ma è una cosa che vuole significare che sarebbe un bel guaio, se si sentissero anche tutti i miei sospiri che ci sto mettendo dentro a questa storia! Si dice, giustappunto: stiamo freschi! Oppure anche: stiamo fritti!, e si capisce che siamo in un paese strano che per dire la stessa cosa
ti fa stare o fresco o caldo fritto.
Ma insomma!
La maestra Antonella dice che devo solo imparare! Non devo farmi venire anche le preoccupazioni per il fresco e il fritto, altrimenti stiamo freschi!
E io imparo!
Adesso, faccio l’esempio, sto imparando il punto esclamativo, e la maestra dice che l’ho imparato bene! Ma stare anche un po’ calma, col punto esclamativo! E magari parlare del Natale, e smetterla di viaggiare in altre cose da raccontare! Magari le riporto un’altra volta!
E io obbedisco, come quel signore con la barba e un cappellino strano e una mantella colorata addosso, che mi ha fatto vedere la maestra Antonella. Ha preso il libro e mi ha fatto vedere questo Giuseppe, che ha detto “obbedisco” al suo Re, e chissà se è vero. La maestra ha spiegato che anche noi dobbiamo obbedire, per quanto io, di Re, a scuola non ne vedo. Magari a un Re obbedisco meglio. E poi voglio dire un’altra cosa: se uno guarda bene, se uno attentamente guarda Giuseppe, magari, sì, ha anche detto “obbedisco”, ma se uno va mooolto vicino a questa foto di pagina 63, e sta lì a fissarla, a fissarla, ecco che dopo si vede che in fondo agli occhi questo Giuseppe era agitato, come me, e anche birbante, come Mattia, e non lo so se davvero lui voleva obbedire.
Ma insomma.
Se lo ha fatto lui, allora forse posso farlo anch’io, e tornare a parlare di questo Natale e dello spettacolino.
Le maestre hanno deciso di preparare tutto, per intanto. A me hanno detto di aspettare, che poi si sistemavano le cose. Io non so proprio rappresentarmi come sistemare le cose, ma vedo che la maestra Piera Angela ogni tanto mi guarda e poi fa così con le sopracciglia e guarda il soffitto e poi ancora me e poi sospira. Non so se in Casalpusterlengo questo vuol dire sistemare le cose.
Vedremo.
Intanto imparo le tabelline dalla Piera e le poesie dalla Antonella, e adesso le guardo negli occhi, anche se mi viene un po’ male, a pensare che non sono mica delle capre, che si possono guardare negli occhi.
Intanto, mi hanno messo a fare gli anelli di carta colorata, uno dentro l’altro. Alla fine sembra una catena, ma non quella della prigione, è una catena tutta colorata, io credo che se in prigione avessero queste catene sarebbero più contenti. Sono contenta io, però, perché la maestra ha fatto vedere le mie catene all’altra classe, da tanto erano venute belle. Quando l’ho detto alla mamma, non era più stravagante ma si è messa a ridere e ha detto tre volte “catena” per imparare l’italiano anche lei. Forse queste catene stanno cominciando a sistemare le cose, ho pensato.
Infatti, dopo le catene c’è stata la sorpresa della poesia.
La maestra ci legge una poesia e poi la scrive alla lavagna e noi giù a copiare che sui campi e sulle strade silenziosa e lieve volteggiando, la neve cade. Allora io ho alzato la mano, ho guardato la maestra negli occhi e ho detto che sapevo un’altra poesia, e lei ha detto: “Ah, sì?”, e Mattia ha sbuffato e ha detto qualcosa sulle scimmie che le poesie non le sanno. Ha parlato piano
e ho sentito soltanto io, ma comunque.
La maestra mi ha fatto dire la poesia, che parla del mondo vivo che si è svegliato e del venticello che odora di gelsomino, e io l’ho detta in arabo, e poi in italiano, e tutti hanno battuto forte le mani. Erano tutti contenti perché la mia poesia parlava del profumo dei fiori e del flauto che canta dolci canzoni.
E qui c’è stata la sorpresa di Mattia, che ha chiesto alla maestra di portare la poesia nello
spettacolino.
Ma insomma!!! Proprio Mattia!!! e ci metto soltanto tre punti esclamativi da quando la maestra Antonella mi ha spiegato che soltanto tre se ne possono mettere, altrimenti io ne mettevo dieci!
La maestra ha detto che era un’ottima idea. Non quella dei punti esclamativi, intendo, quella della poesia, se io volevo.
Io ho voluto.
Così adesso sono qui, che ho finito di recitare la mia poesia, quella che dice:
fra lo sciame degli uccelli,
e della vostra allegria,
ascoltate il mormorio dei ruscelli,
aspirate il profumo dei fiori,
guardate la valle coperta di nebbia,
brucate l’erba della terra e dei freschi pascoli,
ascoltate il mio flauto,
che canta dolci canzoni.
Sì, proprio quella che finisce così:
torneremo pieni di sogni e di speranze.
Lo spettacolino è finito, con le mie gonne lunghe, e le catene colorate, e la mia poesia, nella stanza più grande che abbiamo nella scuola, con le maestre e il Presidente che guardavano e sorridevano e facevano di sì con la testa, e la mia mamma piangeva e il mio papà rideva e faceva di sì con la testa, pure lui.
Io non lo so se davvero torneremo nella mia Tunisia, ma certo è che adesso siamo qui, pieni di sogni e di speranze, e questo Natale è venuto, ed è stato fantastico.
Giustappunto.