GENERE: COMMEDIA
RATING: * * +
TRAMA:
Palestina, striscia di Gaza: Jaffar è un poveruomo che conduce la propria grama esistenza gettando quotidianamente le reti da pesca in mare nella speranza di catturare qualche pesce da vendere al mercato. Speranza vana dal momento che i palestinesi hanno il divieto di spingersi oltre 4 km dalla costa. Il risultato è che ogni giorno la pesca si riduce alla conta dei rifiuti trovati impigliati nelle reti. Ma una mattina l’incredibile scoperta: sollevando faticosamente la rete a bordo della sua piccola imbarcazione Jaffar vi trova impigliato un maiale! Sorpreso e atterrito, il povero pescatore non sa che fare. Il porco è un essere immondo di cui deve assolutamente sbarazzarsi. Ma quella che inizialmente sembrava una maledizione di Allah tra mille peripezie si trasformerà nella sua “sacrilega” fortuna …
(Regia: Sylvain Estibal – anno 2014)
COMMENTO:
La mia ricerca etnografica sull’umorismo continua. Dopo aver curiosato su come ridono i croati con Padre vostro e gli scandinavi con In ordine di sparizione, questa è la volta dei palestinesi (o almeno così credevo prima di scoprire che sceneggiatura e regia sono in realtà di un giornalista francese!).
Alla domanda “Cosa cavolo abbia da ridere un popolo in guerra da 60 anni” risponde il primo tempo del film, dove i timidi tentativi di strappare un sorriso sono travolti dalla situazione di profonda miseria, degrado ed ignoranza in cui vivono i palestinesi.
Jaffar è un povero pescatore senza alcuna sovrastruttura ideologica, né politica né religiosa, una operazione di purificazione tramite la quale Sylvain Estibal fa emergere esclusivamente e volutamente la profonda umanità del personaggio, un uomo che conduce la sua grama esistenza nel’unico tentativo di sopravvivere, imperativo categorico di qualsiasi essere vivente, ma senza alcuna aggressività o violenza, semplicemente gettando le reti in un mare inquinato e depauperato di ogni forma di vita e accettando quello che l’universo di volta in volta gli fa trovare: scarpe vecchie, copertoni, qualche sardina. Un uomo mite e semplice che ama profondamente la vita nonostante la sua durezza, con i sogni e le aspirazioni di un qualsiasi altro uomo che abbia avuto la fortuna di nascere in un paese più ricco, compreso il desiderio di ricoprire di regali ed affetto la povera moglie non appena riesce faticosamente ad guadagnare due soldi. Una saggezza antica e profonda quella di Jaffar che malgrado la sua ignoranza sente inconsciamente di appartenere alla categoria delle “persone” piuttosto che ad una nazione, un partito o una religione, tanto da assestare un sonoro ceffone a quel ragazzino palestinese che lo vedeva come eroe quando la propaganda di Hamas lo aveva proposto come martire kamikaze da imitare.
Cinematograficamente parlando si tratta di un’opera elementare ed ingenua, ma strategicamente è l’arma più potente che un popolo possa utilizzare per sostenere la propria causa o raggiungere i propri obiettivi (come ben sanno gli analisti e gli esperti statunitensi che dal dopoguerra ad oggi, martellando sistematicamente le menti del pianeta con i loro prodotti hollywoodiani, diffondono un preciso modello culturale che sta americanizzando il mondo. Valori, aspirazioni, sogni, abitudini, bisogni, consumi, tutte le nazioni stanno lentamente perdendo le proprie specificità per convergere verso il modello proposto da questa propaganda infernale, una vera e propria macchina di controllo di massa messa in piedi dalla potenza economica dominante).
Da questo punto di vista Un insolito naufrago nell’inquieto mare d’oriente è un bellissimo regalo alla causa palestinese, tanto che in un primo momento ho pensato che Sylvain Estibal fosse uno di loro. Il film infatti è una vera e propria intifada non violenta, un’opera intelligente che mostra al mondo le allucinanti condizioni di vita del popolo palestinese completamente schiacciato dalla straordinaria superiorità militare, politica ed israeliana. Un popolo quello israeliano che sembra non aver imparato niente dalla sofferenza patita nel corso della propria storia, tanto da esercitarla a sua volta su un altro popolo. Pochi centimetri di un muro od una semplice recinzione metallica dividono condizioni di vita abissali per possibilità e prospettive. Ogni cosa a Gaza è la squallida caricatura di una vita normale: apri le tende di casa è scopri che dietro non c’è un elegante infisso o porta-finestra, ma un muro sventrato da un colpo di cannone; la mattina fai colazione con una tazza di té bollente ma per poter afferrare il bicchiere non c’è un manico bensì una pinza da idraulico. Il controllo militare è capillare, prepotente, invadente, tanto da istallare un posto di guardia israeliano proprio sul tetto della povera casa di Jaffar e sua moglie, costretti persino a cedere ai soldati della postazione il proprio bagno! Altro che privacy o diritto di proprietà, queste prepotenze schiacciano le esigenze di intimità e dignità più elementari, per non parlare del divieto di pescare oltre i primi 4 km dalla costa che di fatto impediscono ai pescatori palestinesi di sopravvivere. Uno spaccato di vita proposto con il pretesto di una commedia ma che diffonde informazioni, scuote le coscienze, suscita tra gli spettatori discussioni animate, stupore e indignazione, una miscela assai più esplosiva ed efficace di mille razzi lanciati da Hamas e che riporta alla mente una verità inconfutabile “Non può esserci pace senza giustizia”!
Ma l’umorismo è una delle manifestazioni più raffinate dell’intelligenza umana e consiste nel saper ridere anche delle proprie disgrazie. Geniale la trovata del povero maiale vietnamita caduto nella rete di Jaffar: un ironico artifizio con cui Sylvain Estibal distrugge con leggerezza simboli politici e tabù religiosi attraverso i quali il potere condiziona le menti degli uomini, dividendoli in gruppi contrapposti per creare confitti e poterli controllare.
I limiti del film tuttavia emergono palesemente quando, raggiunto il culmine tragicomico della storia, l’autore deve trovare un finale; Sylvain Estibal arranca maldestramente con le immagini di una sparuta comitiva di persone di diverse razze e religioni, che cercano di fuggire dalla guerra e dalle logiche della contrapposizione a bordo di una barca a remi. La parola “fine” è un semplicistico ed ingenuo messaggio di pace affidato a due giovani ballerini mutilati che manifestano tutta la loro energia e voglia di vivere con le acrobazie di una frenetica street-dance eseguita sulle stampelle, simbolo della follia della guerra.