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Un ministro di origini africane, questione di metodo

Creato il 09 maggio 2013 da Exodus, Di Luca Lovisolo @LucaLovisolo

Italia_ParlamentoIn Italia è stata nominata ministro una persona di origini africane. Questo fatto ha suscitato reazioni contrarie, diffuse rapidamente anche attraverso le reti sociali. La questione merita di essere trattata qui, poiché  tocca vari aspetti di internazionalità e diritto. Il Ministro italiano in questione non ha bisogno delle mie difese. Si tratta piuttosto di affermare alcune questioni di metodo.

L’argomento va sottratto alle espressioni istintive e persino offensive che provengono da molte parti, anche da media italiani riconosciuti. Partiamo da alcune delle affermazioni che si sono diffuse intorno alla nomina della signora Cécile Kyenge Kashetu a Ministro dell’integrazione del nuovo Governo italiano.

«La nomina di un ministro di colore è un fatto storico.» Questa affermazione, ripetuta per giorni anche dai più seguiti organi d’informazione italiani, è priva di causa. Poiché non vi deve essere discriminazione tra persone che hanno diverso colore della pelle, la nomina di un ministro di pelle nera non è diversa dalla nomina di un ministro di pelle bianca, pertanto non è un fatto storico e non è neppure una notizia. Storico semmai è che sia diventata ministro una persona che ha vissuto una storia d’immigrazione e integrazione. Questo è un fatto che indica un mutamento storico, non il colore della pelle. La differenza non è solo lessicale.

«La signora Kyenge non sarebbe ‘completamente italiana’» poiché nata in Congo. La signora Kyenge ha ottenuto la cittadinanza italiana secondo le leggi della Repubblica in materia di naturalizzazione. Chi adempie i criteri di naturalizzazione stabiliti dalle leggi di uno Stato ne diventa cittadino e ne acquisisce pienamente diritti e doveri. Si può non essere d’accordo sui presupposti stabiliti per l’acquisizione della cittadinanza:  la critica allora deve essere rivolta ai criteri oggettivi della legge, non soggettivamente a una persona. Non risulta peraltro che in Italia ottenere la cittadinanza sia più facile che in altri Paesi europei. Ciò premesso, il fatto che un cittadino naturalizzato mantenga anche la cittadinanza del proprio Paese d’origine e tracce della sua cultura diventa un di più, non una diminutio.

«Il ministro Kyenge vuole concedere agli immigrati lo ius soli, che è un diritto alla cittadinanza senza doveri.» Questo è il tema sul quale si affollano le opinioni più colorite. Sembra essere diffusa la convinzione che ius soli significhi per forza cittadinanza automatica a chi nasce sul territorio di uno Stato o vi risiede. Non è così. Gli Stati europei che adottano lo ius soli lo mitigano con vari altri requisiti, ad esempio un periodo minimo di residenza dei genitori nel Paese. Per esprimere una critica bisogna sapere in quali forme il Ministro intende proporre lo ius soli in Italia, analizzando il suo progetto.

Ciò non è possibile, poiché il progetto ancora non c’è. E’ sacrosanto che a ogni diritto corrisponda un dovere. Vi sono però diritti che tutti abbiamo per il solo fatto di essere nati esseri umani, diritti conquistati in secoli di lotte dalla Rivoluzione francese in poi: il diritto alla vita, all’integrità fisica, alla non discriminazione razziale e tutti quelli elencati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali. Da alcuni di questi diritti sono discriminati coloro che nascono e crescono per decenni in un Paese ma non ne hanno il passaporto. Per questo il problema della cittadinanza dei figli degli immigrati esiste e regolarlo è anche nell’interesse del Paese ospitante. Persino la Svizzera, che in materia di cittadinanza non è certo tenera, prevede facilitazioni per i figli nati sul territorio da stranieri residenti.

I diritti fondamentali devono essere e sono riconosciuti dallo Stato a tutti, persino a chi delinque, cioè a chi omette il più elementare dovere giuridico di rispettare la legge. Chi delinque è condannato alla pena prevista per i fatti che ha commesso, ma i diritti e le libertà fondamentali dell’Uomo restano fermi e indipendenti da ogni negoziato con i doveri. Questa è una conquista, non una debolezza della nostra civiltà. Questo principio resta valido anche nei rapporti con i migranti, che certamente comportano sfide e problemi anche gravi, ma che non si lasciano risolvere con proclami e fantasie.

Essere cittadina naturalizzata non rende il ministro Cécile Kyenge infallibile o esente da critiche: come si è detto, la questione è di metodo. Alle persone – anche ai ministri – si guarda per le loro condotte e le critiche si esprimono nel merito degli atti, qualunque colore abbia chi li compie o li propone.

Nelle valutazioni espresse con riferimenti alla razza o all’origine non ci si può appellare alla libertà d’opinione e d’espressione, così come non si può uccidere appellandosi alla libertà di autodeterminazione e non si può truffare in nome della libertà di iniziativa economica. Sul tema non è il caso di richiamare i buoni sentimenti, la comprensione verso la diversità o altri argomenti condivisibili, ma che restano nella sfera morale o di costume. Come si vede, vi sono elementi oggettivi sufficienti per inquadrare la questione prima di aver bisogno di chiamare in causa la tolleranza, lo spirito d’accoglienza o peggio le opinioni di partito.

Si può scegliere di ignorare ciò che si è scritto e detto in Italia sulla nomina di un ministro di origini africane, liquidandolo come opinioni di minoranze insignificanti. Alcune delle spressioni citate sopra, però, sono comparse anche su giornali a larga diffusione e con firme non sconosciute. Da decenni, in Europa, si sta disinvestendo dalla cultura e dalla scuola, perché, secondo alcuni, costano e non danno da mangiare. Ciò che si è letto in Italia in questi giorni sul nuovo ministro (idee analoghe si sentono anche altrove) conferma che questo disinvestimento comincia ad avere conseguenze, che rischiano di costare molto di più di quel che si sperava di risparmiare.

| ©2013 >Luca Lovisolo


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