Carlo I d’Austria con il figlio Otto,principe ereditario.
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Testo, rielaborato, della conferenza tenuta presso il Centro Culturale Amici de il Timone «Beato Carlo d’Asburgo», parrocchia di San Paolo Apostolo, Parma, 21 settembre 2007.
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Questo articolo ha come tema una figura storica del secolo scorso. Si tratta di una figura di uomo, di un monarca, addirittura di imperatore, e di un imperatore nella cui figura si può riconoscere quella dell’ultimo imperatore sacro e romano: Carlo d’Austria (1887-1922), di cui, per inciso, in questo 2007 ricorre il 120° anniversario della nascita.
Questo sovrano, tuttavia, non è solo un personaggio della storia civile. Egli è stato proclamato «beato» da Papa Giovanni Paolo II (1978-2005) nel 2004. È quindi una figura speciale anche per la Chiesa, perché essa ha riconosciuto in lui, e pubblicamente, un uomo e un cristiano esemplare, un figlio devoto della Chiesa, che ha vissuto eroicamente il suo cristianesimo ed è stato artefice, dopo la sua morte, di un fatto che non spiega umanamente, di un fatto appartenente a quella categoria di fatti che i cristiani chiamano «miracolo». Parliamo dunque di ciò che per i cristiani è un «santo», almeno un santo in attesa di canonizzazione, cioè di iscrizione ufficiale «all’albo» di coloro che la Chiesa certifica come felicemente approdati in seno alla Trinità.
In breve, il nostro soggetto è un imperatore santo, il quale ha avuto un rilievo specifico nella storia. E ci si accorge subito che si tratta di un genere che da un po’ di tempo — anzi, da un bel po’ di tempo — mancava nelle cronache spirituali di santa Romana Chiesa.
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Alla luce di questa triplice dimensione in cui s’inquadra del personaggio s’intuisce che molti sarebbero gli aspetti da considerare, se volessimo affrontarne uno studio esauriente. Bisognerebbe in primo luogo capire che cos’è stato l’impero cristiano e quale relazione ebbero con esso gli Asburgo, poi chi fu Carlo, cioè descrivere che cosa fece, sia come persona privata sia come sovrano, quindi spiegare per quali motivi la Chiesa ha ritenuto di dichiararne — anche se in via ancora non definitiva — la santità e che cosa essa si sia prefissa di trasmettere, d’insegnare, e d’insegnare agli uomini del nostro tempo, attraverso questa sanzione solenne.
Cercherò di trattare un po’ tutti questi aspetti, anche se, come comprensibile, non in maniera certo esauriente e conclusiva, attingendo quasi esclusivamente alla letteratura su Carlo in italiano, ben consapevole che la maggior parte degli studi su di lui, soprattutto quelli più scientifici e recenti, si trova tuttora solo in lingua straniera.
I. Gli Asburgo
Inizio dalle «radici» di Carlo, ossia dalla sua famiglia, da quegli Asburgo, cioè che furono gli ultimi eredi in Occidente della suprema magistratura della Cristianità e furono visti sempre come l’emblema dell’idea imperiale cristiana medesima.
Per capire quale sia stato storicamente il ruolo della casata nella genesi e nello sviluppo dell’Europa moderna sono estremamente illuminanti alcune righe dello storico e letterato svizzero Gonzague de Reynold (1880-1970).
In un suo volume dedicato alle origini della Germania (1), che pubblica nel 1939, alla vigilia del secondo conflitto mondiale, egli descrive come nel X secolo, da Habsheim, nell’attuale Alsazia, cioè nel nord-est della Francia odierna, il nucleo originario della famiglia si trasferisca nell’Aargau — o Argovia —, nel sud dell’allora monarchia franca, probabilmente a causa di un matrimonio, e nel 1020 vi eriga la dimora patrizia, appunto quell’Habsburg, il castello di Habs, dal nome che trae origine da Haben, ossia averi, patrimonio. «Asburgo» significa dunque «casa del patrimonio». Feudatari di medio rango dell’Impero, gli Asburgo si sforzeranno un po’ alla volta nei secoli — e con successo — di estendere il loro dominio territoriale e il loro patrimonio di diritti in una zona politicamente cruciale, perché posta al crocevia delle linee di comunicazione nord-sud ed est-ovest dell’Europa di allora.
In questa sua costante affermazione, l’ormai media potenza tedesco-meridionale dei signori di Habsburg si scontrerà però con i montanari dei primi cantoni «svizzeri», che a dispetto dell’origine «svizzera» degli Asburgo, ingaggeranno contro di loro e contro l’Impero una dura lotta per mantenere le loro autonomie e i loro privilegi.
Ma l’impasse svizzera non arresterà l’ascesa della dinastia, la traiettoria farà un balzo — e un salto di qualità — con l’elezione al titolo di Sacro Romano Imperatore di Rodolfo, conte d’Asburgo e conte di Kyburg, nonché landgravio di Thurgau e conte di Löwenstein (1218-1291), nel 1273. Con la vittoria militare su Re Ottokar II di Boemia (1230-1278), nel 1278 Rodolfo I d’Asburgo conquista il diritto ereditario sulla Ostmark, la marca orientale — nome che verrà risuscitato dai nazionalsocialisti dopo l’annessione dell’Österreich, il regno dell’est, al Terzo Reich nel 1938 —, ossia sull’Austria, e il perno della dinastia si sposta così dal Reno al Danubio.
La conquista della dignità imperiale non sarà un passaggio privo di conseguenze. De Reynold sottolinea il paradosso di un impero territorialmente sempre più grande, che raggiungerà un’estensione addirittura pluri-continentale nell’età di Carlo V (1500-1558) e che, al contrario, avrà un peso costantemente debole fra gli elettori germanici. Anche quando, nel secolo XV, inizierà, pressoché ininterrotta fino al secolo XIX, la catena degl’imperatori di casa asburgica, essi dovranno fare sempre i conti con i regni e i principati dell’area germanica sui quali la loro egemonia sarà sempre instabile.
«Sappiamo — scrive ancora de Reynold degli Asburgo — in che maniera il loro impero si è formato: attraverso eredità disperse e disparate. Ma un’eredità la si guarda come una proprietà acquisita non come una parte di sé stessi. Dopo il loro sradicamento dalla Svizzera, gli Asburgo non riuscirono a radicarsi da nessuna parte. Erano tedeschi, fiamminghi, spagnoli o lorenesi? Questo spiega la loro impotenza nazionale: non sono mai riusciti a farsi sostenere da un popolo perché essi stessi non appartenevano ad alcun popolo, ma un po’ a tutti. Alla fine, non finirono per essere altro che i primi borghesi di Vienna, il che non bastava» (2).
E questa duplice caratteristica accompagnerà la vita dell’impero fino al 1870, quando sorgerà l’altro impero germanico, il Reich prussiano creato da Otto di Bismarck (1815-1898), che porrà fine al primato di Vienna.
L’impero asburgico sarà egemone anche nel resto dell’Europa fino all’incirca al 1600. Solo i sovrani francesi, accerchiati dai domini asburgici — a nord nelle Fiandre, a ovest in Spagna, a est in Germania e in Austria —, cercheranno nella prima età moderna di resistere e di contrastare la preponderanza della dinastia imperiale.
L’impero verrà ridimensionato e ricollocato in un più duraturo quadro geo-politico solo dopo la Guerra dei Trent’anni (1618-1648), scatenata per ragioni religiose da un Asburgo, Ferdinando II (1578-1637), arciduca d’Austria e re di Boemia e d’Ungheria. Il terribile conflitto si chiuderà con enormi devastazioni, in particolare nell’area germanica, e con un fatale insuccesso per gli Asburgo. Dopo i Trattati «di Westfalia» del 1648 nascerà un ordine europeo rinnovato: la Francia romperà l’accerchiamento e si avvierà a sua volta verso l’egemonia continentale; gli Asburgo saranno espulsi dal tormentato contesto degli Stati germanici, nel quale nascerà l’astro della Prussia; l’asse del potere imperiale si sposterà ancor di più, e questa volta per sempre, verso l’area danubiana e i Balcani, dove l’antagonista non sarà più l’antica monarchia franca, ma l’Impero ottomano.
A queste debolezze, tuttavia, fa storicamente da contrappeso una forza morale inesauribile, alimentata dall’idea imperiale e dall’auto-attribuzione da parte della dinastia del primato nel ruolo di sostegno e di espansione della cristianità. Carlo V, rielaborando l’ideale di monarchia universalis nei tempi successivi alla Riforma — ispirato in ciò dal politologo «italiano» e Cancelliere imperiale cardinale Mercurino Arborio da Gattinara (1465-1530) (3) —, fu ben consapevole di questa forza della sua casata. Ma lo scisma politico post-luterano e la costante ostilità della Francia ne vanificarono il disegno.
Per questo il definitivo riflusso verso quadrante geo-politico balcanico, che si rivelò alla lunga più consono alla natura e alle capacità della dinastia, fu contemporaneamente un fallimento e una garanzia di durata nel tempo.
Scrive ancora magistralmente lo storico svizzero: «La sfortuna degli Asburgo è di essere venuti troppo tardi e troppo presto. Troppo tardi per il Sacro Impero e troppo presto per una Società delle Nazioni europee. La loro comparsa è coincisa con la formazione dei grandi Stati moderni e il risveglio delle nazionalità. Essi appartengono così a un periodo di transizione fra il mondo feudale e il mondo moderno. Hanno dovuto vivere su un compromesso fra l’assolutismo e il liberalismo. L’estensione stessa del loro impero ha creato loro difficoltà ovunque e ha impedito loro di condurre a termine la loro politica» (4).
«[Gli Asburgo] hanno incarnato il principio più opposto al nazionalismo, cioè alla frammentazione europea, alla scomparsa dell’Europa. Questo nazionalismo, Metternich [(5)] l’aveva svelato sotto il mantello del giacobinismo e nei carri di Napoleone; ne aveva previsto in anticipo e denunciato le devastazioni. Si comprende quindi come il solo nome di Asburgo provochi l’odio feroce del nazionalsocialismo. Esso rappresenta l’altra Germania, quella che il nazionalsocialismo sta finendo [nel 1939, NdR] di distruggere come la Rivoluzione francese ha distrutto la Francia borbonica» (6).
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Agl’inizi del XX secolo, tuttavia, dell’Impero sacro e romano restava ben poco: anzi, l’Impero si era formalmente auto-soppresso nel 1806 sotto le pressioni di Napoleone I (1769-1821) — che paradossalmente diverrà genero dell’imperatore Francesco II (1768-1835) nel 1810, sposandone in seconde nozze la figlia Maria Luigia (1791-1847) —, il quale vedeva in esso l’ostacolo maggiore al suo disegno di costruire un nuovo impero europeo ispirato ai postulati della Rivoluzione francese, ostili all’organicità sociale e alla tradizione, una costruzione che costerà milioni di vittime ai popoli europei assoggettati o «satellizzati», ma che si rivelerà effimera.
L’Impero asburgico, da allora in poi, diventa solo una grande monarchia pluri-nazionale centro-europea, la cui ultima versione, l’Impero di Austria-Ungheria, nato nel 1867 dopo l’Ausgleich, l’equiparazione giuridica all’Austria della Corona ungherese, conservava ancora in certa misura, nella sua struttura e amministrazione, e, soprattutto, nella cultura di chi la governava e di chi ne era suddito, l’antico ideale politico imperiale, ordinatore e civilizzatore delle nazioni più giovani.
II. Carlo I
1. La vita
Carlo sarà l’ultimo esponente regnante di questa grande tradizione politica plurisecolare e, più in generale, l’ultima espressione dell’ideale di un’autorità temporale universale posta al servizio del Vangelo. Per inciso, vale la pena di segnalare una coincidenza: l’impero sacro e romano si era aperto con un Carlo, Carlo Magno (742 o 747-814), si era riproposto in età moderna con un secondo Carlo, Carlo V, e si chiude con un terzo Carlo, Carlo d’Austria.
Carlo nasce nel 1887 nel castello di Persenbeug, sulle rive del Danubio, nell’Austria Inferiore. È il figlio primogenito dell’arciduca Otto Franz di Asburgo-Lorena (1865-1906) e della principessa Maria Josefa (1867-1944), figlia di Re Giorgio I Federico Augusto di Sassonia-Wettin (1832-1904); avrà un solo fratello, Massimiliano Eugenio (1895-1952). Il padre Otto è figlio dell’arciduca Carlo Lodovico (1833-1896), fratello di Francesco Giuseppe (1830-1916), che è, dunque, il prozio di Carlo.
Il piccolo Asburgo è destinato a ricevere la tipica educazione di Stato, quella che veniva riservata ai principi del sangue, una educazione, che tuttavia, da quando, nel Settecento, era nato l’attrito fra l’Impero e la Chiesa, non era esente da tratti di laicismo (7) e a un certo spirito critico nei confronti di Roma.
La madre è molto religiosa e ben attenta alla vita spirituale del figlio. Josefa riesce tuttavia a ottenere dal padre — che godeva fama, non del tutto infondata, di persona «leggera» — che Carlo sia educato, almeno nei primi anni, religiosamente. Così egli viene affidato a istitutori e a catechisti di fiducia della madre, che avvieranno il piccolo arciduca alla vita di fede e di preghiera, abituandolo fin da piccolissimo alle rinunce e ai sacrifici per amore di Dio. Per questo Carlo vivrà con particolare intensità i sacramenti della penitenza, dell’eucaristia e della cresima, che da poco erano stati resi accessibili anche ai fanciulli grazie ai decreti di Papa san Pio X (1903-1914).
Sotto l’influsso dei gesuiti viennesi, che frequenta durante gli anni del liceo, Carlo inizia ad acquisire familiarità con le forme di spiritualità più genuinamente ignaziane: l’orazione mentale e la meditazione, l’esame di coscienza e i ritiri, come pure le devozioni al Sacro Cuore, al Cristo eucaristico e alla Vergine, che lo accompagneranno e lo sosterranno per tutta la sua breve esistenza.
L’adolescenza di Carlo non è esteriormente diversa da quella degli altri rampolli della nutrita famiglia imperiale o della nobiltà di corte: solo è un po’ più riservato e serio dei coetanei. Ma il giovane non si isola affatto, partecipando di buon grado ai ritrovi e ai passatempi dell’aristocrazia del tempo: feste, balli, cacce, cavalcate, gite in comitiva.
A diciotto anni inizia contemporaneamente la carriera delle armi e gli studi universitari, che segue privatamente presso l’università di Praga, dove è di stanza il reggimento di cavalleria cui è stato assegnato.
Carlo I d’Austria e l’Imperatrice Zita
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Nel 1911, dopo un fidanzamento-lampo, sposa la diciannovenne principessa italo-francese Zita di Borbone-Parma (1892-1989), figlia di secondo letto dell’ultimo Duca di Parma Roberto I (1848-1907), che era stato esiliato ancora fanciullo dai plebisciti unitari del 1859.
I giovani si preparano alle nozze frequentando ciascuno un breve corso di esercizi spirituali. Abbracceranno il nuovo stato di vita in maniera genuinamente cristiana e anche non poco anti-conformistica, visto il romanticismo deteriore che già all’epoca imperversava in materia di relazioni affettive. Carlo e Zita vedranno anzi nello stato coniugale un mezzo privilegiato di santificazione. Alla coppia nasceranno ben otto figli: Carlo li educherà tutti — tranne l’ultimo, che nascerà postumo — compatibilmente con il suo ruolo pubblico, ma sempre con premura e piena coscienza dell’importanza della presenza del padre nel formare la personalità, quindi nel determinare il destino eterno e terreno dei figli.
Nell’attentato di Sarajevo, in Bosnia, del 28 giugno 1914 muore l’erede al trono asburgico Francesco Ferdinando d’Austria-Este (1863-1914), figlio, anch’egli, come il padre di Carlo, dell’arciduca Carlo Lodovico, e quindi zio di Carlo e anche suo tutore legale, dopo la morte di Otto nel 1906. L’assassinio segna una brusca svolta nella vita di Carlo. Finiscono per lui gli anni della gioventù «dorata» e il giovane arciduca, che viene a trovarsi primo in linea successoria, deve prepararsi a succedere all’imperatore Francesco Giuseppe, ormai al tramonto della vita.
Poche settimane dopo Sarajevo, scoppia un nuovo conflitto fra le potenze europee, che da ennesimo conflitto continentale diventerà a poco a poco uno scontro globale.
Carlo è scettico su una guerra che gli sembra stare più a cuore all’imperatore tedesco Guglielmo II di Hohenzollern (1859-1941) che non agli Asburgo. Tuttavia combatte con valore dapprima sul vasto fronte orientale — dove si muovono masse di milioni di combattenti — contro gli eserciti russi e rumeni. Poi, nel marzo del 1916, dopo le sconfitte russe, viene assegnato al fronte italiano, dove gli viene affidato il comando del XIV Corpo d’Armata alpino Edelweiß (stella alpina).
Alla morte di Francesco Giuseppe, il 21 novembre, nella reggia di Schönbrunn il giovane Carlo viene proclamato dalla Corte successore nell’impero. E i testimoni raccontano che accoglie l’investitura in ginocchio, con il rosario fra le mani.
Nella «duplice monarchia» egli sarà Carlo I, imperatore d’Austria, e Karol IV, re apostolico di Ungheria.
La sua ascesa al trono avviene nel pieno del conflitto ed è accompagnata dalla simpatia della gente, che ne ammira la figura giovane e affascinante, ma vi è anche chi lo considera troppo inesperto e un uomo di eccessiva austerità morale. Carlo, tuttavia, sia come sovrano, sia in veste di comandante supremo delle armate imperial-regie, saprà farsi valere, anzi, il suo stile piacerà e la sua politica aprirà nuovi e inediti scenari — purtroppo vanificati dalla sconfitta — alla vecchia monarchia danubiana. Nonostante il quadro di fondo di una guerra-monstre, sfuggita di mano a tutti i suoi artefici, e, quindi, in uno stato di grave emergenza — ed è questo un dato che va tenuto costantemente presente nel giudicare le azioni di Carlo —, le sue iniziative politiche sul fronte interno non sono poche.
Fa approvare una riforma in senso federalistico degli antichi Stati, un atto quanto mai indispensabile per depotenziare la grave minaccia rappresentata dal nazionalismo moderno. Il provvedimento arriverà purtroppo tardi e l’ideologia dello Stato-nazione, che già aveva iniziato a corrodere — con successo, almeno se pensiamo all’Italia — la struttura imperiale nel corso del secolo XIX, alla fine sarà fatale all’impero. Vara leggi contro la scristianizzazione e contro l’immoralità pubblica, che in quei decenni d’inizio Novecento iniziavano a diventare una piaga sociale. Non dimentichiamo infatti che nel 1916 Vienna è ancora la città di Francesco Giuseppe — l’archetipo del buon governo — e dei valzer di Franz Lehar (1870-1948), ma è anche l’enorme città — due milioni e duecentomila abitanti — dove si manifestano i fermenti estremi della cultura moderna, se non addirittura i fenomeni di avanguardia della post-modernità: dalle teorie esoterico-razziste degli ariosofisti — che «prepareranno» il nazionalsocialismo —, all’occultismo neo-pagano, alla psicanalisi freudiana, alla pittura astratta, alla musica dodecafonica di Arnold Schönberg (1874-1951). E ancora: per decisione di Carlo la corona abroga spontaneamente alcuni antichi privilegi dello Stato in materia ecclesiastica; vieta il duello ai funzionari dello Stato e ai militari; promulga un’amnistia generale, anche per i delitti politici; si sforza di dar sollievo al disagio sociale, ingigantito dallo sforzo bellico, arrivando al punto di devolvere al popolo le dotazioni alimentari della famiglia imperiale e di far macellare alcuni dei cavalli di corte; si preoccupa, infine, delle vittime della guerra: le migliaia di orfani e di vedove, e la sterminata moltitudine dei prigionieri di entrambi gli schieramenti.
Oltre a tutto questo e al disopra di tutto, Carlo tenterà l’impossibile — e non è solo un modo di dire —, farà cioè ogni sforzo diplomatico in suo potere per far cessare un conflitto che nel 1917 ha perso ormai ogni senso, divenendo sempre più simile una colossale quanto «inutile strage» di popoli — così si esprimerà Papa Benedetto XV (1914-1922) —, un’autentica ecatombe della miglior gioventù europea.
Carlo nel suo breve regno si segnala non solo come uomo di governo e come diplomatico: anche nella conduzione della guerra metterà in luce le sue doti e il suo cristianesimo. Guiderà le sue armate con grande valore, ma cercherà nel contempo di bandire o di limitare l’uso delle armi moderne più barbare, come quelle batteriologiche e come i gas asfissianti; si opporrà decisamente alla guerra sottomarina e vieterà i bombardamenti dal mare e dall’aria che coinvolgano le popolazioni civili. Anche per questo si scontrerà spesso con il potente e diffidente alleato tedesco, rivale da sempre della cattolica Austria nell’egemonia sul mondo germanico.
Evidenzierà uno stile personale che non si rivelerà mai fazioso verso il nemico e sarà anche alieno dalla tradizionale alterigia dei comandanti verso i subordinati, dei quali vorrà invece condividere la stessa vita di trincea, lo stesso rancio e gli stessi rischi. Così, egli saprà infondere una grande fiducia nel suo esercito, che combatterà con valore, riportando spesso la vittoria. Anzi, il complesso militare-industriale austro-ungarico sarà capace di reggere uno sforzo bellico così elevato, che nessuno agli esordi della guerra sarebbe stato in grado di prevedere. E le sue armate lo ricambieranno con l’affetto e, a differenza dei politici, gli si manterranno fedeli fino all’ultimo, quando tutto si sgretolerà.
Se la sua giovinezza, il suo carisma, l’integra e aperta professione del suo credo religioso gli attirano molte simpatie, Carlo sarà altresì bersaglio di attacchi da più parti.
Il nemico vede nella sua lealtà, nel suo sforzo di contenere l’orrore della guerra e nel suo desiderio di pace altrettante debolezze. Spesso poi lo stesso alleato germanico, lo sprezzante compagno di trincea, legge l’atteggiamento di Carlo come un tradimento mascherato. Infine, gli avversari ideologici dell’idea monarchica e del cattolicesimo — presenti peraltro in entrambi gli schieramenti in lotta — vedranno nel suo «cristianesimo vissuto» e nella sua intensa devozione verso il Papa il rischio di una svolta «clericale» nella politica imperiale.
Anche per questo — oltre che per il fatto che l’Austria-Ungheria era ancora l’emblema della monarchia cattolica — le democrazie dell’Intesa riserveranno alla monarchia asburgica un atteggiamento particolarmente duro nel corso della guerra e poi, una volta sconfittala, una sorte particolarmente ingiusta nei trattati di pace.
Secondo lo storico franco-ungherese François Fejtö, l’Austria-Ungheria era stata «condannata a morte» dagli ambienti massonici, che condizionavano la politica dei governi francese, belga e italiano, ancor prima che iniziasse il conflitto. Questi stessi soggetti faranno infatti l’impossibile, poi, per sabotare ogni iniziativa di pace di fonte austriaca — ne restano documentate più di trenta — che prevedesse la sopravvivenza della monarchia, così come cercheranno di infamare un sovrano, ritenuto suscettibile di prese di posizione «pericolose»; infine, facendo leva sui nazionalismi, riusciranno a disintegrare la vecchia monarchia, ad abbatterne le antiche istanze rappresentative e a espellere dal suolo patrio una dinastia che aveva governato molti popoli, in maniera tutt’altro che riprovevole e per centinaia di anni.
Nel novembre del 1918 la monarchia austro-ungarica è ancora invitta sul piano militare, ma viene l’integrità dello Stato viene scardinata lo stesso: il suo assetto viene rotto dall’insurrezione politica delle nazionalità e l’impero crolla di schianto. Dopo l’armistizio, il sovrano finisce praticamente tagliato fuori dalla vita politica, che si è ormai spostata nei parlamenti di Vienna, di Praga, di Budapest, i quali stanno optando tutti per una soluzione repubblicana.
Carlo non abdica, ma si limita a sospendere l’esercizio dei suoi poteri costituzionali, in attesa delle decisioni dei rappresentanti dei popoli. Vista la scelta repubblicana delle nuove classi dirigenti, opterà per l’esilio in Svizzera, rinunciando così, data la mancata abdicazione, a tutti i beni di famiglia, che saranno incamerati dai nuovi Stati e mai più restituiti. I giovani Asburgo dovranno quindi tutti rifarsi una posizione nella vita — e vi riusciranno — da soli, senza poter contare più sull’appoggio familiare in linea paterna. L’anima della famiglia Asburgo diventerà la vedova di Carlo, Zita che gli sopravviverà per ben 67 anni. Zita alleverà i figli suoi e di Carlo nella fede e li sosterrà sempre, finché potrà, insieme ai nipoti che ben presto giungeranno, lungo il corso della loro vita. Anche il figlio primogenito Otto — oggi novantacinquenne — cercherà di tener fede alle tradizioni di famiglia dando vita a un movimento federalista europeo in cui si potranno riconoscere, pur nelle mutate forme, gli ideali di pace e di libertà che già erano stati di Carlo.
Questi tenterà a due riprese nel corso del 1921 di riconquistare almeno la Corona di Santo Stefano — quella cui si sentiva più religiosamente legato, forse perché aveva ricevuto l’unzione sacra di Re Apostolico d’Ungheria (8) —, in una Ungheria dove, dopo la breve e sanguinosa parentesi del 1919 in cui si era instaurata la dittatura dei soviet di Bela Kun (pseudonimo di Ábel Kohn; 1886-1938), nominalmente è stata restaurata la monarchia sotto la reggenza dell’ammiraglio Miklós Horthy (1868-1957), ex subordinato di Carlo, a lui legato dal giuramento militare. Carlo, entrambe le volte, sarà illuso e poi abbandonato dal «reggente» e dovrà abbandonare la partita. Non abdicherà neppure questa volta ai suoi diritti sovrani e per questo gli Alleati lo imprigioneranno, confinandolo nella remota isola atlantica di Madera, dove chiuderà i suoi giorni nelle ristrettezze e nei disagi. Morirà, stroncato da una polmonite, forse strascico dell’influenza «spagnola» che era infuriata nel dopoguerra, il 1° aprile 1922.
A suggello di una vocazione laicale esemplarmente vissuta, il Signore concederà a Carlo di chiudere gli occhi alla presenza del primogenito Otto, fra le braccia della sposa e in contemplazione della santissima Eucaristia.
Gli anni di governo sono stati per Carlo anni di prova e di sofferenze soprattutto morali — perderà il trono, i beni di famiglia, dovrà lasciare la patria, temerà per la vita della sposa e dei figli — e lo sorreggeranno solo la sua intensa preghiera e l’illimitata fiducia nell’Altissimo, nonché l’affetto di cui i familiari e pochi intimi lo circondano. Soprattutto in questi anni egli vive in maniera nuova ed eroica, come ha riconosciuto la Chiesa, quelle virtù del cristiano che già aveva acquisito durante la vita di arciduca e di erede al trono, di sposo, di padre, di soldato.
Mi piace sottolineare la straordinaria apertura alla vita che Carlo e la sua sposa Zita hanno testimoniato, tenendo fede a una tradizione squisitamente asburgica. Se è vero che per una coppia reale non era un problema allevare molti figli, resta però il fatto che i due sposi potevano chiudersi assai facilmente nell’egoismo, godersi la bella vita oppure accampare a pretesto per non mettere al mondo figli le traversie in cui erano caduti: invece non lo faranno mai, nemmeno negli anni dell’esilio e del dolore.
La regalità imporrà a Carlo d’Austria un fardello nuovo, gli farà vivere nuove sfide, in cui le sue virtù avranno modo di fortificarsi e di brillare.
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segue in altra puntata.