…è domenica, ed io la voglio santificare scrivendo a lei, che ha ora nelle sue mani un avvenire così meraviglioso per me, che ha il potere di attirare sopra di me, appena voglia, tempeste, temporali e schiarite, i più violenti sconvolgimenti dell’universo. amica mia non chiedo quando ciò avverrà, ma avverrà…
Rainer Maria Rilke, Parigi, Gennaio 1914 (in Magda von Hattingberg, Rilke e Benvenuta)
UNO
È domenica, e io che non credevo più alle muse, agli angeli, ai cospiratori, ai martiri, alle testine pettinate e impertinenti che inclinate un po’ su un lato mi dicono che fare sorridendo, io, oggi che è domenica e la mia terra brucia in nome dell’Europa, intanto che, colpevole, parcheggio sotto la mia falsa casa e mentre alzo gli occhi noto un volo d’uccelli dalle ali ad arco, oggi e soltanto oggi, io credo ancora.
Mi muovo un passo indietro, indietro arretrano le nuvole del cielo. Da rosse si rifanno bianche, la luce intensa, la strada si riavvolge all’incontrario. E mi ritrovo ancora a cercare Anna dall’angolo del muro che sto per svoltare. Lo sguardo è alto, e il me che ero si fa altra persona.
L’appuntamento è al bar. Di fronte alla piazza col chiosco dei giornali, a cui un pavimento in selce sagomata conduce, fin dove è piacevole sedersi. All’ombra dei porticati, tenendo tra le mani un caffè italiano, a zero ogni pensiero, e in muta osservazione dei passanti, sapendo con certezza che, proprio accanto, si sta svolgendo il rito del fioraio. E col conforto quieto del sordo mormorio della fontana.
Anna è seduta, sta a schiena dritta e gambe accavallate. Parla a sua figlia, la testa un po’ inclinata verso di lei, sorriso spento. Lo sguardo scuro dietro lenti da sole, che in compagnia di Anna c’è solo Anna medesima.
Poi vede anche Mimì, la cosa più preziosa. La figlia nata quando era finita, la frase conclusiva di un dialogo interrotto, l’ultimo bacio di due bocche prosciugate.
Cesare avanza con una mano in tasca. Ad ogni passo assilla e affonda dentro i polpastrelli le chiavi della macchina, ferisce le sue dita, si pizzica la pelle delle gambe. I passi frettolosi risuonano strada per strada del borgo ridondante di storia, rumore che si smorza ad ogni incrocio, ma intanto hanno informato della presenza di lui ogni mattone, ogni tegola, ogni singola fessura, ciascuna minima crepa.
C’è una scusa già pronta per l’uso. Sarebbe facile dire che, richiusa la portiera, l’aveva accerchiato un nugolo di piccoli sfrontati, a sfidarlo, parlandogli una lingua sconosciuta. Sempre la stessa frase, detta a turno. Suonava dolce, ma ormai non si fidava e, prima di decidere che fare, si erano sparpagliati lontano guardandosi alle spalle, fino a sparire.
Il tempo di contare fino a tre, e non trovava più il telefono. Zingari. Stranieri regolari. Ecco uno degli emblemi critici del falso mito europeo che stava trascinando alla rovina la sua patria. L’adrenalina gli aveva consentito di muoversi meccanico e veloce, di investigare ovunque dentro l’abitacolo e sbattersi sconfitto la portiera alle spalle, di trovare il ritmo adatto a ridurre il ritardo, di arrivare, anche se madido della corsa nella tarda mattinata.
Ma, prima di svoltare l’ultimo angolo, Cesare ha deciso. Di non doverle alcuna spiegazione.
A tradimento, la piazza si spalanca e gli porta via l’ultimo fiato dal petto, gli toglie ogni riparo, inganna il suo equilibrio, mentre Mimì gli si fa sempre più vicina, corre, corre, gli cade fiduciosa tra le braccia. Ma Cesare sente che è lui a cadere in braccio a lei.
Anna. La voce senza tono. Rigida nella corazza di queste occasioni. Cesare ha una fitta in petto, ritrae il busto proteso già in avanti, stupido slancio involontario. Anna lo avverte. La raggiunge l’eco che risuona nei vicoli, il suono dei passi spesi per venirle incontro, per ogni passo scolpito nelle tegole e i mattoni, per ogni crepa e ogni fessura al corrente, Anna viene trafitta, senza pietà, dal suo dolore.
E allora attacca:
- Attento che Mimì ha il raffreddore, tieni d’occhio la tosse. Chiamami subito, se serve, ti dico cosa fare. Ah, non farla sudare, e coprila se uscite da un posto caldo.
- Naturalmente.
Ma non si sono intesi, infatti parlano ancora, sovrapposti:
- Come stai? – Gli dice lei, pentita.
- Mimì, saluta mamma. – Affretta, indispettito, lui.
- Sì, amore, un bacio, e fai la brava.
Da adesso, fino al giorno successivo, ogni istante sarà soltanto per la figlia. Non può e non vuole pensare a nient’altro. Non al lavoro, non alle più recenti compagnie da uomo solo, non al passato. Non riesce solo a sbarazzarsi di un fantasma silente, troppo ingombrante per trovare posto in tasca con le chiavi.
Lo aveva ritrovato accanto a sé al risveglio, mentre teneva un braccio avvolto malamente nel lenzuolo – via vai di formiche isteriche dal gomito fino a dietro la sua nuca.
Fuori pioveva ancora, la stessa pioggia che nella notte aveva raccolto pietosa i suoi pensieri, li aveva appesi a ogni goccia per poi riunirli nel rigagnolo che ora bagnava di sudore la sua fronte.
Senza una donna accanto, braccia accoglienti e porta della fiducia aperta, quella volta.