Magazine Diario personale

Un’offerta speciale – QUATTRO

Da Icalamari @frperinelli
Due storie, o forse tre, in una

[TRE]

Barbagianni

QUATTRO

 

Di giorno, nulla faceva pensare che quell’uomo che, parlando, lasciava un fondo liquido dentro le forme vuote delle sue parole, covasse tanta angoscia vedendo approssimarsi le ombre del crepuscolo. Ogni tramonto d’oro lo convinceva a distogliere lo sguardo.

La terza volta, davanti a un cielo che negava il travaso delle ore virando con indifferenza dal grigio scuro al nero, voltò la schiena alla finestra aperta, mise su il soprabito e si incamminò in strada a occhi bassi, la schiena appesantita dal magone. Quando la sua testa si abbassò sul cuscino, sapeva già quale notte sarebbe andato ad abitare.

Stavolta la neve scendeva grave e abbondante come solo a quelle latitudini accade. La sera si accendeva della luce giallastra dei lampioni, che i grossi fiocchi provvedevano a distribuire, piccoli fuochi pallidi, in ogni direzione.

Cesar scivolò fuori dalle mura e andò ad avventurarsi sul solito percorso. Aveva sciolto dal vincolo i gorilla, e, addentratosi nel bosco, si era recato ai margini di una vasta area militare, estesa fino al confine orientale del Paese. La sua era un’abitudine recente, una fuga istituzionalizzata. Qualcosa che creava un momentaneo stallo nel disagio. Il tempo si cristallizzava come i fiocchi pressati che schiacciava col suo peso.

Avanzava per ore respirando e pensando, più spesso a torcia spenta. Trascorreva così gran parte della notte ma invece di stancarsi, una volta rientrato, cadeva in un sonno facile e pesante, sufficiente ad affrontare il giorno.

Il vento era rinforzato e sferzava la sommità delle betulle, creando fantasie improvvise di luci vorticanti e puntiformi.

Aveva già percorso a passi larghi un lungo tratto del sentiero conosciuto e, mentre osservava a naso in su il volo di un barbagianni oltre le cime, gli si piazzò di fronte un’ombra che gli sbarrò il cammino.

L’ombra gli puntò una luce intensa a poca distanza dal viso e disse, con voce giovanile e fioca:

- Chi sei? Che ci fai qui?

Capì che non lo aveva riconosciuto e gli scappò un sorriso ironico. L’altro si innervosì.

- Parla subito o, cazzo, o io ti…

- Tranquillo, tranquillo, sto solo facendo una passeggiata.

Senza riflettori addosso e il suo consueto abbigliamento era un gigante goffo perduto nella tormenta. Tentò un gioco rischioso, fingendosi una nullità e trattenendosi a dialogare con l’altro. E accadde l’insperato.

A poca distanza, in un punto particolarmente denso della macchia, stava montata una tenda da campeggio, debolmente illuminata dall’interno. Un altro giovane era di guardia all’accesso e, riconosciuto l’amico, si fece da parte per lasciarli entrare.

Cesar fece la conoscenza con una decina di ragazzi sui vent’anni che, dopo una comprensibile iniziale diffidenza, complice anche qualche sorsata di vodka e l’aria mite del nuovo arrivato, decisero di fargli posto nelle discussioni.

Per poco non gli andò di traverso la vodka che si passava in circolo con gli altri, quando si rese conto di trovarsi in mezzo a un ritrovo del gruppo clandestino su cui riceveva corposi dossier dai Servizi e intorno al quale venivano svolte riunioni dell’Esecutivo non meno che settimanali. Stavano scegliendo modi e tempi nientemeno che di una rivoluzione. Sarebbe stato facile per lui segnare un punto facile come quello e dare una svolta decisiva alla propria carriera. Ma non lo fece.

Quell’incontro si ripeté notte per notte. Le guardie del corpo, elementi estranei a lui e sicuramente controllati dal Presidente, non avendo visto nulla, non potevano nemmeno sospettare.

In breve entrò con mano pesante nel vivo delle scelte, poteva fare molto per la causa, e uscì allo scoperto denunciando la sua vera identità.

La rabbia dei cospiratori lo tenne lontano dal bosco per un paio di notti, quindi lo riammisero tra loro. Si erano convinti che la persona che avevano davanti era qualcuno che avrebbe avuto tutto da perdere dall’immischiarsi nel loro complotto. Il suo sguardo, i modi, la voce, ormai tutto rivelava, meglio di qualsiasi dichiarazione, la sua vera natura.

Privilegi e vantaggi dovevano compensare tutte le volte che il Presidente gli imponeva di prendere determinate decisioni, ma le crepe nelle sue certezze, col tempo, avevano scavato una voragine.

La questione che più gli rimordeva la coscienza era quella della pena capitale. Riceveva centinaia di richieste, da dentro e fuori del Paese, sulle richieste di clemenza da far approvare al Capo. A volte, questi sembrava cedere alle pressioni e emanava decreti che risparmiavano qualche condannato, relegandolo al carcere a vita.

In realtà, era lui in prima persona il custode di un elenco di potenziali beneficiari, in virtù dell’interesse spesso più mediatico che umanitario che in tali gesti di clemenza riponevano diverse potenze straniere. Patteggiamenti tra le diplomazie erano all’ordine del giorno. In ballo, come esito più ambito, l’abolizione definitiva della pena di morte. Quel lavorio passava rigorosamente sotto silenzio stampa, trattandosi di lunghe e delicate contrattazioni, costantemente influenzate dalla mutevolezza del quadro politico ed economico internazionale.

Ogni volta che veniva raggiunto un accordo, spettava a lui annunciarne l’esito, favorevole ad un singolo o ad un gruppo di condannati. In quelle occasioni, l’opinione pubblica internazionale si spaccava.

I più inneggiavano alla ritrovata magnanimità del Presidente, ad un presunto scatto etico in avanti dell’intera nazione, alla certezza del prossimo riavvicinamento di questa all’asse costituito dalle nazioni egemoni del pianeta.

Pochi, invece erano quelli che, molto realisticamente, riconoscevano la natura ambigua dei provvedimenti e sapevano riconoscere la marchetta pagata al resto del mondo, che non spostava di una virgola la strategia di negazione sistematica dei più elementari diritti della popolazione. E che vedevano, nel ripetersi di questi fatti, la consacrazione della propria nazione a ingranaggio di un meccanismo di scambio tra gli Stati, portandola a contribuire pesantemente alla vertiginosa caduta morale dell’umanità intera.

Ora che per Cesar si era accesa una luce al termine del suo vicolo cieco, decise che avrebbe cercato di sobillare certi generali, dei quali conosceva bene l’odio per il Presidente. Sarebbe stato lui il Cavallo di Troia che avrebbe portato alla liberazione il paese.


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