[SEI]
SETTE
La pioggia si stava portando via la città. Non meno di un’ora prima aveva rinunciato al jogging del sabato sera per quanta acqua scorreva per le strade. Davanti casa sua un torrente di fango trascinava sacchi della spazzatura, rami spezzati, e quant’altro travolgeva nel cammino.
Per raggiungere l’ingresso salì quattro gradini e, prima di entrare, si fermò al riparo della rientranza sotto la tettoia per scrollarsi di dosso almeno una parte dell’umido che gli impregnava i vestiti.
Si spazzolò con le mani gli avambracci, e poi le ginocchia. Si sbarazzò di goccioloni che andarono a ingrossare il laghetto nascosto dal tappeto sintetico di benvenuto.
L’atmosfera veniva graffiata da un’infinità di tagli diagonali sempre più fitti che generavano un fragore assordante. Cesare iniziò a rabbrividire ma non volle smettere l’operazione.
Alzò una gamba e l’appoggiò con la punta contro il muro, la strinse con due mani e, partendo dal ginocchio, scivolò verso la caviglia con decisione, spruzzando generosamente l’intorno. Posò la gamba in terra e rialzò l’altra. Stava per ripartire col movimento di prima ma la coda dell’occhio venne attratta da qualcosa di insolito più in basso, giù in strada.
Sgranò gli occhi. Una grande anta di porta in legno massello, scendeva a valle roteando su sé stessa velocissima, inabissandosi a tratti. Sopra di essa, stavano seduti fianco a fianco due alani giganti dal pelo nerissimo, che, solidali con il loro mezzo di trasporto, nel passargli davanti compirono diverse piroette ruotando la testa all’unisono. A ogni volteggio lo fissarono accigliati negli occhi.
Quando il duo fu scomparso, superando visivamente il limite costituito da uno dei muri della rientranza che lo ospitava, Cesare era ancora fermo nella stessa posizione, un piede appoggiato al muro e due mani aperte sopra al ginocchio. Si domandava il senso di quell’apparizione inquietante, e perché mai una porta di pregio come quella si ritrovasse scaraventata nel pieno dell’alluvione.
La porta della sala conferenze era spalancata, ma non invitava a entrare: due soldati in mimetica stavano ai lati, armati e in stato d’allerta. Facevano l’effetto di due cani allenati a uccidere. Non fu piacevole passare tra di loro.
Contro il muro di fondo, quello alle sue spalle, era disposto ordinatamente un gruppo di giornalisti. Quasi un uguale numero di tecnici manovrava con diligenza una selva di cavalletti, imponenti macchine da presa, cavi e lampade che illuminavano i lavori.
La riunione era iniziata da una decina di minuti, quando Cesar fece il suo ingresso in preda a un panico da principiante. La riconobbe subito, la bocca stretta in una smorfia di concentrazione che lui non conosceva, in piedi tra la stampa accreditata.
Cercò di non dar peso alla sua presenza. Si accomodò in prima fila dove presenziò all’apertura del convegno con, nelle orecchie, un ronzio che si accomodò a fare da sottofondo.
Seguì le prime fasi dell’assemblea, fino al discorso del Presidente. Di tanto in tanto guardava distrattamente l’orologio.
All’ora designata, non ebbe il coraggio di guardare Lei. Solo, si alzò e infilò la porta, come per recarsi in bagno.
Il corridoio si apriva su altri corridoi, un dedalo che moltiplicava le possibilità di fuga. Non doveva confondersi. Seguì pedissequamente le istruzioni memorizzate la stessa notte in cui le aveva ricevute. Teneva in tasca il biglietto come un amuleto.
La sensazione di vivere come osservando sé stesso dall’esterno.
Le immagini si frammentarono, succedendosi l’una all’altra secondo nessi che non riuscì bene ad afferrare.
La fuga concitata per i corridoi illuminati a giorno.
Le guardie che, riconoscendolo, restavano interdette il tempo di lasciargli un margine prezioso, prima di cercare di bloccarlo.
La certezza, un brivido gelato sulla nuca, che avessero impugnato le armi e stessero mirando per colpirlo.
Un elicottero che iniziava a far ruotare le sue pale.
Il portone presidiato di soldati che gli davano le spalle e, colti alla sprovvista, gli gridavano di fermarsi per poi aprire il fuoco ad altezza d’uomo.
Le scalinate discese spintonando le persone.
La fuga tra i manifestanti atterriti, sorpresi di trovarselo davanti.
Ma, anche,
il sorriso della sconosciuta che affiorava dal buio.
Una ciocca di capelli che sfuggiva dalle tempie e andava a sfiorarle il lobo dell’orecchio.
E infine, la deflagrazione, l’onda d’urto che lo sbatté a terra, le urla, le sirene, la fatica nel rialzarsi e la corsa a perdifiato per i vicoli.
Ma, ancora,
una musica,
un profumo,
una frase sussurrata nell’orecchio.
Frammenti di pensieri.
Sulla misera fine dell’odiata casta spazzata via per sempre.
Sul senso della libertà,
sulla paura del futuro e quella per il vuoto che lo attendeva
in un altrove indefinito.
La coscienza che le forze stavano venendogli meno.
Lampi di buio.
L’idea di lei, l’inaccettabile ipotesi che potesse non avercela fatta.
Buio proiettato sul futuro, un futuro qualsiasi, purché vi si ritrovassero vivi entrambi.
L’oscurità si fece sempre più pesta, e a un tratto un vortice assurdo lo capovolse e si ritrovò sdraiato nel letto. Un braccio gli formicolava attorcigliato nel lenzuolo.