è così grande che ti viene il dubbio sia veramente infinita, più che eterna. Roma. Esci di casa un mattino di primavera e – basta un’ora, davvero – torni dal giro in bici sentendoti Indiana Jones. Oggi ho fatto l’ennesima scoperta fuori programma. Non volevo, non sapevo, eppure ora ho un’altra Isola nuova negli occhi, un posto di cui nessuno mi aveva parlato, nessun amico, nessun libro, dove forse non tornerò più ma una volta almeno mi avrà avuto, nel grano di un tempo infinitesimale sull’eternità dei suoi passaggi umani. Sotto il sole che rimbalza sulle mura millenarie, mi sono diretto alla chiesa di san Giovanni a porta Latina – la mia tappa turistico spirituale della domenica – pedalando a schivo tra i mille soffioni bianchi che frullano nell’aria verde in questo periodo.
Arrivato al collegio dei padri rosminiani, che gestiscono questa bellissima chiesa con dietro un giardino sulle mura, sento già qualcosa di strano. Il sorriso etereo del mendico ligio al suo posto sottolinea un eccesso di quiete che poi ritrovo nel tempio ancora vuoto. «Oggi la messa comincia alle 12». C’è ancora mezzora. Faccio due calcoli e decido di filare via prima che mi veda la tuttofare canuta, vera domina d’ogni parrocchia, che mi ha preso in simpatia arruolandomi come lettore, dopo la dichiarazione spontanea di gradimento del padre superiore (roba grossa) alle mie ultime performance. Oggi niente letture. Con lo spirito di chi va a scuola e trova occupato, decido di benedire il tempo imprevisto iniziando a pedalare senza meta, direzione: punta del naso.
Mi ritrovo così in fondo alla via Latina, al bivio dove – prima di arrivare alle terme di Caracalla – parte la diramazione per un’altra entrata alla città imperiale: porta san Sebastiano, cominciamento dell’Appia antica (oggi è domenica, anche la scrittura segue la punta del naso). In pochi istanti, la coda dell’occhio mi avverte di un’altra chiesa aperta a cinquanta metri dal mio piede sceso a mo’ di cavalletto. Come fiutando un destino, pedalo adagio sui sampietrini e vedo che è appena iniziata una messa: davvero in questa città c’è una chiesa appena finita l’ombra dell’ultimo campanile. Questa è san Cesareo in Palatio, ovvero, venti persone sotto un soffitto a cassettoni dorati e blu, davanti a un prete frettoloso che pensa al matrimonio da celebrare a mezzogiorno. Un inserviente, vedendomi impalato già da dieci minuti a cavallo della soglia, mi fa: «Scusa, devi spostare la bicicletta, non puoi stare così davanti all’ingresso, te la guardo io, non ti preoccupare». La sposto e rispondo alla fotografa in attesa degli sposi che no, non sto lì per timore dei ladri di biciclette, ma perché quella è forse la posizione migliore per seguire una messa: un piede dentro, un piede fuori, uso ponte fra due realtà scollate o perno per la fuga immediata alla prima corbelleria del predicatore.
Posata la bici per esplorare a piedi i sentieri in terriccio, fra vegetazione incolta e panchine mute, ti chiedi da quale angolo spunteranno le tribù ancora non “civilizzate” pronte a scambiare la tua presenza per un segno divino e costringerti a rimanere lì per sempre. Così, prima di incontrare il capo indigeno, mi godo la discesa per il viale ed esco da un altro cancello della villa, proponendomi di iscrivermi a qualche corso gratuito della scuola giardinieri (con questi chiari di luna, una competenza in più può sempre servire). Tornato a piano terra, il naso mi si gira di nuovo verso san Cesareo ed eccomi stavolta dentro un Dylan Dog: un maggiolone Volkswagen bianco mi passa accanto e – giuda ballerino – la sposa si ferma davanti alla chiesa. Il caso ci ha fatti arrivare in perfetta sincronia, devo assistere alla scena. L’autista scende dall’auto, apre la portiera, la promessa gli sorride, mette un piede a terra, si alza davanti al gradino, fa un primo passo e… cade a terra! Sgomento ilare. Lo sposo aspetterà ancora. Nel frattempo, altri ciclisti di passaggio urlano, senza accorgersi di nulla, “viva la sposa” a una ragazza impanicata a cui cercano di incollare il tacco scollato e pulire il bianco dietro il sedere, mentre io penso che sarebbe meglio per lei continuare la giornata a piedi nudi: meglio sentire la terraferma sotto, che slogarsi una caviglia entro sera.
Chiaramente, sono andato via solo dopo averla vista entrare barcollante a san Cesareo. Ora sono di nuovo a casa a scriverti quanto può sorprendere anche solo un’ora di una domenica mattina di maggio, per non farla svanire e – in realtà, finalmente il vero motivo – per proporti qui in pubblico e senza preavviso l’inizio di una corrispondenza pupica Roma-Milano, senza imposizioni tematiche né (ci mancherebbe) stretta cadenza periodica. Solo uno scambio quando ti va, uno scherzo per vedere cosa esce fuori, un filo d’inchiostro. Il mio, oggi, finisce qui. A te,
Marco