Avviata in forma pudicamente semiclandestina, si è chiusa il 15 settembre la consultazione online sul disegno di legge in materia di governo del territorio. Ci si duole poco di non aver potuto partecipare con raccomandazioni e suggerimenti: l’unica proposta sensata era accartocciarlo e buttarlo nel cestino dei rifiuti anche se la presentazione tramite brochure patinata faceva sospettare una scarsa propensione a introdurre modifiche a un testo che anche esteticamente si presentava come “definitivo” , sacro ed infrangibile.
E vorrei anche vedere, si tratta del vangelo della privatizzazione dei suoli, dell’apertura entusiastica a cemento e legalizzazione delle irregolarità e dei soprusi, del coronamento dell’ideologia dell’alienazione e dell’espropriazione e anche della consacrazione dei principi dello Sblocca Italia. La logica che lo sostiene è la stessa del job act, approfittare della crisi per levare garanzie, diritti, beni, frastornare con l’orrendo gergo dei giovinastri messi a fare i killer locali della democrazia: valorizzazione, flessibilità, mobilità, affrettare il naufragio popolare, perché le scialuppe sono poche e di proprietà esclusiva loro. Loro che sono a un tempo i topi, la peste, le ondate avvelenate dall’inquinamento di una ideologia che condiziona la crescita al desiderabile incremento dell’iniquità, delle disuguaglianze, in modo che promuovano artificiali superiorità e inguaribili discriminazione, infami arbitrarietà e inattaccabili privilegi in regime di totale monopolio.
Anche in questo caso l’arma è quella della divisione, dell’alimentazione di differenze e conflitti, quello di sempre tra chi ha e non ha, di chi possiede ma vuole voracemente possedere di più, ma anche quello molto moderno di chi attribuisce ancora valore a contenuti etici, alle ragioni della legge e della giustizia, al rispetto di regole e buonsenso, alla tutela di ambiente e risorse e chi invece considera tutto questo un molesto ostacolo alla libera iniziativa privata.
A fronte dei mille vizi del provvedimento, gli va riconosciuto la virtù della trasparenza dei fini. Serpeggia fino all’articolo 8 dove invece esplode con tutta la sua sfrontata potenza il fondamento cardine della proposta: l’egemonia indiscutibile e inalienabile della proprietà privata e quindi, c’è da sospettare, della sua rendita, riconoscendo ai proprietari delle aree il “diritto di iniziativa e di partecipazione” nei procedimenti di pianificazione, tanto che, per non lasciare dubbi, i soggetti istituzionali – Comuni, Province, in questo caso tornate in auge, Città metropolitane, Regioni e Stato – sono sollecitati, nell’esercizio delle rispettive competenze, a estendere ai “privati che partecipano alla pianificazione” gli stessi principi che regolano i rapporti interistituzionali (leale collaborazione, sussidiarietà, trasparenza ed altri ancora).
Come sottolineano, in una lettera aperta ad altre firme, tecnici, studiosi, rappresentanti di quella società civile che viene ricordata solo quando si lascia andare a un remissivo consenso, si tratta di un approccio che delegittima in modo clamoroso i principi e le modalità che stanno alla base del processo di pianificazione e che dalla legge urbanistica del 1942, con modifiche, aggiornamenti e con l’innesto delle leggi regionali, è stato applicato sino ai nostri giorni. E nel quale non si ravvisano elementi di affinità in nessun’altra legislazione urbanistica dei paesi avanzati, come a dire che per una volta non si potrà dire che è l’Europa che ce lo chiede.
Eh si, il Renzi, il suo fiduciario Lupi, strafanno, ben oltre Berlusconi, ben oltre Lunardi, ben oltre Matteoli, per non dire di Prandini, di Mannino, di Nicolazzi, di Gullotti o Ferrari Aggradi che mai si spinsero tanto oltre con altrettanta sfacciata derisione dell’interesse generale, dei beni comuni, della salvaguardia del territorio e delle sue ricchezze, della qualità urbana e abitativa. Spogliare la sfera pubblica e in particolare i Comuni, della facoltà di pianificare e programmare gli interventi che attengono al governo del territorio, significa escludere l’intera comunità, che gli amministratori locali sono chiamarti a rappresentare: se in altri settori viene spacciato come ammissibile se non auspicabile il ridimensionamento della presenza pubblica in funzione – vera o presunta – di una maggiore snellezza ed efficacia delle azioni e delle decisioni, in questo campo la “confisca” per decreto delle competenze non è accettabile, visto che le decisioni riguardanti la qualità dell’assetto del territorio e le relazioni che in esso si stringono e consolidano riguardano tutti, poiché il territorio appartiene a titolo di sovranità al popolo; poiché come stabilisce la nostra Costituzione, il diritto alla proprietà privata è condizionato al perseguimento della sua “funzione sociale”.
Nemmeno in piena Tangentopoli, nemmeno durante il regno dell’immobiliarista di Milano 2, 3, 4, 5 e delle new towns dell’Aquila si era arrivati a favorire in maniera esclusiva e per legge la categoria dei proprietari, attribuendo loro la posizione riconosciuta di soggetti istituzionali coinvolti a pieno titolo nel processo di pianificazione, perfino negli interventi che dovrebbero assicurare condizioni di maggiore benessere all’intera popolazione, alle categorie produttive, ai lavoratori, ai pendolari, agli artigiani, agli studenti, agli sfrattati, conciliando le diverse aspettative che devono in ogni caso aderire alle istanze di salvaguardia dell’ambiente e di manutenzione e conservazione del patrimonio storico.
Ma la climax, l’apogeo, l’acme vengono raggiunti nelle disposizioni sul rinnovo urbano, amabile quanto allarmante definizione per opere mirate alla “valorizzazione” di immobili, stabili, condomini, isolati, quartieri, anche mediante fastosi abbattimenti e formidabili ricostruzioni, con criteri ispirati alla rimozione degli ostacoli legali e legittimi a iniziative speculative, che si traducono nel dare spazio illimitato ai privati, abilitati a attivare e consolidare procedure negoziali alla pari con i Comuni, accordandosi perfino in assenza di pianificazione operativa o in difformità da questa. E non basta: qualora nell’ambito di opere oggetto del “recupero” prenda forma un consorzio tra proprietari tale da rappresentare la maggioranza del valore degli immobili, è previsto l’avvio di una procedura che non ha precedenti nemmeno in epoca feudale, nemmeno nel latifondo: il consorzio è legittimato a punire la disubbidienza anche dettata da ragioni estetiche, dalla mancanza di requisiti di tutela e sicurezza, espropriando i colpevoli di indisciplinatezza senza che sia prevista alcuna forma di tutela a garanzia dei proprietari indocili, privati del proprio alloggio senza alcuna offerta in alternativa.
Per Lupi, esecutore fin troppo solerte, urbanistica vuol dire edilizia, vuol dire cemento, soprattutto quello della grandi opere, delle grandi colate, di grandi piloni, proprio come quelli cari ai gangster, pronti a ricevere chi si sottrae alle leggi della malavita o del malaffare. Nel presentare la sua proposta, prima di aprire la consultazione, il ministro ha citato più volte il Piccolo principe, auspicando certamente che il suo premier si affermi fino a diventare il Principe, autoritario , unico, dispotico, assoluto, abilitato a togliere, togliere per prendere, prendere. Homo homini lupus, sarà bene esercitarsi se le disuguaglianze fanno sì che loro siano sempre più Lupi di noi.