Era il 1986 quando il libro “La nostra Italia” veniva pubblicato da Feltrinelli Editore. L’autore Carlo Tullio-Altan diede vita ad una riflessione critica sui nostri modelli culturali e sulla loro dubbia idoneità al contesto istituzionale e politico di una grande democrazia.
Oggi, 2013 le parole “[…] Un altro problema è quello dell’emarginazione di massa della giovane generazione dalla vita produttiva e quindi da quella sociale e politica” suonano come un’eco che si propaga nella nostra realtà.
Riprendere in mano questo libro oggi è come ritrovarsi al centro di un ring e accorgersi di non aver mai smesso di prendere pugni. Non a caso a rileggerlo in questo momento storico e sociale risulta più comprensibile, perché non è solo la storia che un autore racconta con tutti i suoi approfondimenti, ma è la storia che ti attraversa la pelle e te la ritrovi dentro.
Il cinismo politico, l’indifferenza alla corruzione, la scarsa sensibilità per il bene comune, l’ampia diffusione dei legami clientelari tra cittadini ed eletti e all’interno del Parlamento, il sistematico ricorso alla pratica del trasformismo sono tutti aspetti che suonano fortemente familiari anche a chi oggi è molto giovane. Il che, semplificando molto, rende tutti gli aspetti sopraccitati qualcosa di “normale” per chi ha più di trent’anni.
Tutti gli elementi elencati si uniscono alla pesante crisi economica e anzi sento di poter concludere che si alimentano a vicenda. La società civile italiana non sembra aver preso coscienza della natura dei suoi mali e della sua arretratezza socio-culturale complessiva. E forse, non deve stupire, perché le società con una lunga storia, con una struttura consolidata nei secoli, sono gravate da un retaggio che ne ostacola l’autocritica inducendole a proiettare al di fuori di sé le cause dei propri mali.
I cittadini di una “comunità civica” vedono la realtà comune come qualcosa di più di un campo di battaglia dove si lotti solo per ottenere vantaggi personali. La presenza di strutture sociali il cui scopo è la cooperazione (le associazioni di qualsiasi genere) contribuiscono al buon funzionamento e alla stabilità di un governo democratico e alimentano un senso di condivisione delle responsabilità nelle imprese collettive. Allo stesso tempo, i leader di una ideale comunità civica devono essere e devono sentirsi responsabili verso i loro concittadini anche incentivando forme di autogoverno, la rottura dell’isolamento individuale e collaborando a sconfiggere la diffidenza reciproca. Quanto siamo lontani da tutto questo non è quantificabile, ma di certo intuibile.
Comprendere il passato, come esso ha influenzato il presente e come alcuni aspetti storici siano diventanti limiti è, a mio parere, il punto di partenza. Andare oltre, domandarsi se la realtà che viviamo è la migliore a cui possiamo aspirare, domandarci se possiamo invertire seppur lentamente la rotta. Per farlo dobbiamo tenere sempre in mente da cosa vogliamo e dobbiamo fuggire. La presa di coscienza autocritica è la base da cui partire per una riforma generalizzata e diffusa del costume della nostra nazione. Solo allora sapremo riconoscere quali sono i veri nemici della nostra libertà civile, politica e sociale.