Il sindacato tedesco, appoggiato dalla SPD, presenta un piano dal sapore keynesiano per risolvere la crisi europea. Ma ad una attenta lettura è un Keynes che parla solo tedesco.
Non finisce di stupire la capacità di reazione della Germania per tenersi fuori dalle secche verso cui la drammatica depressione economica che affligge l’eurozona appare con forza tirarla. E’ chiaro che sarebbe una follia fare a pezzi il più grande serbatoio su cui può contare la propria economia, considerando peraltro che anche le prospettive di crescita dei mercati extraeuropei sono state recentemente ridimensionate. Che sia arrivato il momento di dare una svolta al funzionamento dell’eurozona, di dotarla di un bilancio e di rendere la BCE un prestatore di ultima istanza? Non facciamoci troppe illusioni.
Basta trovare la parola giusta, condirla con le giuste argomentazioni ed il gioco è fatto. Cosa può esserci di più seducente di questi tempi di un “Piano Marshall per l’Europa”? E cosa ci può essere di più condivisibile di una azione orientata a stimolare gli investimenti “nella produzione di energia sostenibile, nella riduzione dei consumi energetici, in settori industriali e servizi sostenibili, in istruzione e formazione, in ricerca e sviluppo, in infrastrutture di trasporto moderne, in città e comuni a basse emissioni e nell’efficienza delle
pubbliche amministrazioni.”, come recita il documento diffuso dalla Confederazione sindacale tedesca [link] e al quale si è recentemente appellato il candidato della SPD Steinbrück alle prossime politiche?
L’istituzione di un “Fondo europeo per il futuro” rappresenta la base di finanziamento del Piano, con un capitale iniziale che dovrebbe derivare da imposizione straordinaria sugli alti redditi dei singoli paesi, e con un capacità finanziaria futura che dovrebbe fare leva sulla tassazione delle transazioni finanziarie. Ma c’è di più. Il Piano delinea infatti delle precise direzioni di marcia che, in assenza di criteri di fruizione dei fondi per gli investimenti, sono destinate a concretizzarsi laddove ingenti politiche di trasformazione industriale hanno già lasciato il loro segno. Guarda caso in Germania. E guarda caso ponendo particolare attenzione al settore delle energie rinnovabili dove paesi come l’Italia non creando filiere industriali hanno maturato deficit commerciali crescenti.
Peraltro anche sotto il profilo della ripartizione delle risorse finanziarie, il Piano – che nelle intenzioni vorrebbe contribuire allo sviluppo dei Paesi che hanno una situazione economica più critica – va a destinare una quota marginale ad interventi urgenti di stimolo della domanda aggregata (10 miliardi, un’inezia), mentre premia interventi destinati ad avere ricadute di domanda attraverso una modifica dell’offerta industriale (i restanti 250 miliardi). All’inezia dei 10 miliardi per il riequilibrio “congiunturale”, si aggiunge la beffa: parte degli interventi ipotizzati riguardano l’acquisto di elettrodomestici e la Germania, guarda caso, qui la fa da padrona nella produzione. In altre parole si stimola la domanda dei paesi periferici all’acquisto di prodotti in cui i tedeschi sono leader. Non esattamente una misura di riequilibrio. In più si finanzierebbe l’acquisto di abitazioni e anche qui si cita la Germania dove relativamente pochi hanno una casa di proprietà.
Riguardo gli investimenti, come dicevamo, è evidente che – in assenza di criteri di assegnazione che favoriscano i paesi in crisi – questo tipo di azione può sortire un impatto significativo laddove vi siano migliori condizioni di contesto macroeconomico e tanto più dove una serie di trasformazioni strutturali del tessuto industriale sono state già avviate. Viceversa, in paesi – come appunto quelli in difficoltà nell’area Euro – dove il contesto macroeconomico è fortemente deteriorato e il gap tecnologico è consistente, è inverosimile che un simile schema di intervento, privo di precisi indirizzi su dove spendere, possa risultare efficace.
Che il piano sia “germanicentrico”, del resto, lo dimostra l’attenta lettura delle iniziative proposte, in cui si cita quasi esclusivamente la Germania. Senza contare che, per l’ennesima volta, permane un grande rimosso: la funzione di una Banca Centrale (quale dovrebbe essere la BCE) a base e garanzia del finanziamento. A questo proposito è il caso di notare che, in alternativa al capitale di base del Piano ottenuto dalle entrate derivanti dall’imposizione fiscale sui grandi redditi, si richiama il ricorso al MES o alla garanzia fornita direttamente dai singoli paesi, i quali però sono sotto l’attacco dei mercati finanziari che ne mettono in dubbio la solvibilità, mentre la BCE, anche recentemente, nella sua politica di “carota e bastone”, ha ribadito che la sua azione non può spingersi a garantire il debito dei paesi membri ma solo evitare il “panico”.
Siamo dunque di fronte a un Piano che declina un keynesismo “su misura” per la realtà economica tedesca, e in senso più generale che sceglie di confermare l’assenza delle leve fiscali e monetarie che caratterizzano la fragile impalcature dell’euro. E che cerca, infine, di ispirarsi impropriamente al keynesismo quando cerca di recuperare risorse in qualche modo: la tassazione delle transazioni finanziarie per il finanziamento del Piano è infatti una modalità che Keynes in principio, e Tobin successivamente, avevano pensato per contrastare la speculazione finanziaria. Lo scopo della tassa non è quello di ottenere risorse, ma di contenere la speculazione. Se le aliquote sono troppo basse, al fine di massimizzare il gettito, la funzione stabilizzatrice della tassa viene a mancare. Un fraintendimento comune che però non per questo è giustificato in un documento ufficiale di un grande sindacato.
Un Piano tutto tedesco quindi, nella “visione”, nella forma e nella sostanza, che pur partendo da un obbiettivo di promozione dello sviluppo europeo tenderebbe di fatto ad accentuare le divergenze esistenti, a cominciare dai saldi commerciali, che sul fronte delle tecnologie vedono i paesi dell’area mediterranea in pesante deficit e con consistenti importazioni proprio dalla Germania.
Sarebbe dunque il caso che i governi europei riflettessero una volta di più sui danni strutturali che le insufficienze dell’euro minacciano di produrre ulteriormente. Concepire una politica di investimenti europei senza le leve di una politica economica di livello europeo, che consenta un riequilibrio tra aree in crisi e aree in (relativa) espansione, significherebbe in altri termini rischiare di creare più problemi di quanti se ne vogliono risolvere. Altra cosa è, invece, prendere atto delle scelte industriali compiute dalla Germania e che nel Piano sono ribadite con forza. Indubbia è la centralità data all’investimento in ricerca e innovazione, con ricadute importanti sulla sostenibilità energetica e ambientale. Su di esso si giocano infatti le possibilità di rilancio dell’economia, in vista di una rigenerazione del tessuto produttivo e di nuova domanda di qualità superiore. E d’altra parte è questo il contesto competitivo nel quale si vanno collocando le economie di nuova industrializzazione al di fuori dell’Europa – come la stessa Cina – ed è con esso che bisogna misurarsi.
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