Nel prologo di En duva satt på en gren och funderade på tillvaron (2014) uno dei tanti personaggi smunti del film osserva dei diorami in un museo. Quello di Andersson è un avvertimento: state attenti perché questo, nonostante gli sghiribizzi grotteschi, è arte-specchio, potreste vedere il vostro riflesso da qualche parte. D’altronde il cinema di questo svedese che dal 2000 con Songs from the Second Floor, passando per You, the Living (2007) e giungendo al Piccione ha messo insieme è una particolarissima trilogia sull’uomo, un cinema ostinatamente dioramico. Aldilà dell’immobilità scenica (in tre film, se non vado errato, mai un movimento di camera) che ricorda le tipiche ricostruzioni museali, è proprio l’atto di riprendere il quotidiano nella sua superflua essenzialità che commemora in scala ridotta la desolante condizione della vita. Quello che ne risulta è una manifestazione di cinema inconsueta, una dichiarazione di stile che potremmo definire anderssoniano in tutto e per tutto. Indubbio che i suoi film siano imbevuti di uno humor nero che non è poi così raro trovare in un certo cinema centro-nord europeo [1], ed anche la coralità non è esattamente un’innovazione incredibile, con Andersson però si trascendono i possibili allacciamenti tra lui e alcuni dei suoi colleghi per atterrare in un territorio autistico, teatro di ripetizione ossessiva, idiota: se c’è un filo, e c’è, è quello della stolidità. All’autore non interessa l’ordito tramico, ogni scena è sempre sul punto di, oppure è già successo che, la vignetta è un contenitore separato dalle altre, inutile, a volte, cercare un legame durante la carrellata di quadri, loro sono lì, poveri orfanelli figli di quell’insensibile tragedia che si chiama esistenza. Morente.
Appurato l’apparato formale, propongo un’obiezione: alla luce dei tre film, il sottoscritto ritiene che soprattutto negli ultimi due Andersson abbia sfiorato il pericoloso declivio dell’auto-manierismo. Che nei suoi intenti vi sia l’amaro ritratto della contemporaneità è un dato di fatto e ce lo prendiamo molto volentieri perché è sempre utile subire radiografie artistiche del genere, a lungo andare, però, la perseverazione metodica disloca il baricentro facendo affiorare quel gusto di girare così… soltanto per il gusto di farlo. Nel Piccione, ad esempio, ci sarebbe il sottotema del denaro (lo ricorda la bambina che il volatile sul ramo pensa all’assenza di soldi) ad infoscare il disegno, tuttavia dell’argomento ne rimangono soltanto brandelli qua e là (il ricordo del vecchio nel bar; il cliente dei rappresentanti che urla la propria indigenza dallo sgabuzzino), il resto è un periodare di Andersson fra caricature e bozzetti nella brina esistenziale che compenetra ogni essere sulla scena. Tenendo comunque conto di due parentesi che impressionano, parlo della duplice entrata del re nel bar e di quella degli schiavi trattati come caldarroste (il film è tutto qui: è vedere la morte), la sequenza di gabbie con dentro gli “animali” (homo sapiens? ) non ha la forza di toccare in pieno il nostro animo, e forse data l’asetticità illustrata non era nemmeno interessato a farlo, ma onestamente dal cinema, almeno io, umile appassionato, chiedo un briciolo di più.La semplice cronaca ci dice ad ogni modo di un inaspettato Leone d’Oro che nessuno aveva pronosticato. Per quanto possa vale un premio festivaliero (meno di zero, a Venezia la qualità latita da anni: Pietà[2012] appena passabile, Sacro GRA [2013] inguardabile), fa piacere il giusto riconoscimento ad un lavoro di nicchia protrattosi quasi quindici anni. _____________[1] Andersson ha anche un degno epigono: Ruben Östlund.