Anna Lombroso per il Simplicissimus
Ci sono momenti nella storia nei quali si rovescia il movimento verticale della paura distillata e instillata dall’alto verso il basso, quella che scende e si insinua, innerva e si infiltra facendo i poveri sempre più poveri, i deboli più deboli, i sommersi più sommersi così che lo spavento li soffochi, li zittisca e li paralizzi.
È sicuro che le cattedrali fredde e deserte dell’Europa, i palazzi dei governi coi ponti levatoi alzati e le spingarde rivolte verso la strada, le torri dei soldi, nelle cui pareti di cristallo si rispecchia l’agghiacciante modernità, non hanno paura dei nostri ragazzini, non hanno paura degli operai che cercano di raggiungerli arrampicandosi sulle gru, dei professori che mutuano dagli studenti modalità creative e screanzate di collera. E meno che mai hanno paura dei malati di Sla che mostrano la loro infermità che l’oltraggio rende potente. Perché lo smantellamento delle impalcature democratiche e parlamentari li ha resi indifferenti al consenso. Ma cominciano invece ad avere timore perché quelle che sembravano, isolate, flebili voci, se urlano insieme fanno un gran baccano, come un coro indisciplinato ma gagliardo, che sovrasta gli squittii di ministre, la burbanza verbale di banchieri, i borbottii indistinti di premier e anche le roboanti vibrazioni di presidenti.
Così la paura ha cominciato a salire, arrampicandosi su una ragnatela transnazionale che avviluppa le regge remote e ostili e gridando un linguaggio cosmopolita, per rivendicare diritti universali traditi e rapiti. Prima i movimenti si coagulavano intorno a esigenze di equità e giustizia muovendosi dal transnazionale al locale, ora forse circola una specie di mondialismo critico di opposizione al pianeta dei mercati per costruire intanto un’Europa di cittadinanza premendo con la nuova ondata di protesta che si muove dal locale al globale.
È la paura che li fa rispondere, arroganti ma impacciati, tracotanti ma arruffati, con le loro traiettorie visionarie, con i “soliti sospetti” anarcoinsurrezionali, con le mele marce e l’errore umano, con lo strapotere micragnoso esercitato attraverso il ricatto di salari offensivi, su un personale talmente umiliato da liberare risentimento e bestialità. Dal G8 di Genova si è capito che governi ebbri e spietati hanno paura proprio della democrazia e della partecipazione, la temono talmente da soffocarle non solo con aberrazioni istituzionali e costituzionali, ma anche con i vecchi sistemi, in modo che regni l’ordine della repressione, della menzogna, dell’occupazione militare.
Hanno sottovalutato la potenza della povertà. Hanno pensato che ridurre alla miseria riduca anche al silenzio, che la strategia perseguita della dispersione sociale e dell’inimicizia, dopo aver spezzato vincoli e patti affettivi e civili, zittisse la comunicazione, il dialogo. Loro così soggetti alla loro modernità da licenziare con un twit e da presentare i programmi del governo nelle conferenze stampa e da conoscere i numeri degli esodati tramite talkshow, hanno sottovalutato la rete, il dialogo incessante dei network, il potere di rivelazione e la facoltà di sbugiardare che nessun media tradizionale possedeva.
Ma soprattutto hanno sottovalutato la nostra fame, hanno creduto che fosse solo un insaziabile appetito di “roba” – conoscono solo quello – di consumi, di sicurezze mediocri – conoscono solo quelli. Non hanno capito che siamo di gran lunga meglio di loro, anche se anni di obnubilamento hanno prodotto estesi inquinamenti e terribili contagi, che molti di noi sono avidi si, ma non solo di pane. «La chiamano democrazia, ma non lo è», c’è scritto nei cartelli delle piazze spagnole, perché la degenerazione delle democrazie liberali in neoliberismo ha segnato la sospensione della politica, della partecipazione e della democrazia tout court. La rabbia scaturisce dalla perdita, ma non solo del benessere, bensì della cittadinanza – che significa anche accesso allo stato sociale, restituzione di quello che è stato dato negli anni sotto forma di servizi, previdenza, possibilità non elargita ma legittima e riconosciuta di avere voce, negoziare, “cambiare.
Si tutti i popoli lamentano e gridano per la perdita, dei nostri soldi, come dei diritti, delle garanzie, delle conquiste, delle certezze, del lavoro e della libertà, rubati dalla corruzione di parlamenti e governi, i padroni della crisi provocata per adesione ideologica e per diffuse connivenze politico-affaristiche in un coacervo di interessi, accumulazione, rapacità e avidità inestinguibile e suicida. La democrazia è un oggetto delicato: si capiva che se lo stato d’emergenza, di fronte al quale ci hanno fatto chinato il capo, si fosse trasformato nella regola, le fragili strutture della nostra rappresentanza sarebbe collassato per sempre. La profezia si è svelata e avverata. Si traccheggia sulle date di elezioni, largamente inutili se tutto è stato deciso, una riforma elettorale che non riforma nulla, anzi conferma con la manutenzione ordinaria lo status quo, capi di stato, banche centrali, economisti e politici di varie nazionalità e colore politico, concordano sull’inevitabilità se non la desiderabilità di Monti.
Ma tra noi sono sempre di più quelli che non si accontentano di una liturgia officiata per congelare e perpetuare il danno. Allora invece di tenere a casa i nostro ragazzini che non si facciano male coi lacrimogeni boomerang, sarà bene che scendiamo in pazza noi per difenderli come non abbiamo saputo fare con il loro futuro. Vedrete che l’inversione della paura avrà successo.