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Un po’ di stronzi. Racconti in prosa poetica di Iannozzi Giuseppe

Creato il 28 luglio 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

racconti in prosa poetica

di Iannozzi Giuseppe

SBAFFI D’UN VECCHIO SCRITTORE

Un po’ di stronzi. Racconti in prosa poetica di Iannozzi Giuseppe
Quella fu una giornata di gala strana davvero:
le donne ballavano e gli uomini le accompagnavano
con il sorriso in mezzo ai denti, e l’orchestra suonava
vecchi valzer e qualche nota di rock a stonare
- a mischiarsi con le risate di gola, di nervosismi
neurovegetativi. Tacchi alti per le dame e stivali
per tutti gli altri, anche per i nani e i giganti
decisi a scavare trincee tra le nuvolette azzurre
dei sigari cubani accesi come autodafé d’altri tempi.
Ad un certo punto tutto cessò e si fece il silenzio
ordinato apparecchiato sulle labbra di dio:
un vecchio corvo prese il microfono in bocca
e invitò tutti gl’invitati a prestargli ascolto.
Era brutto e vecchio, calvo, grossi baffi staliniani
e una dentiera bianca che parlava meglio di lui.
Si raschiò la gola, e quasi tirò le cuoia nell’atto
infame: “Siamo qui, per…” Nessuno più sorrideva.
Lo stettero ad ascoltare: poi l’applauso scrosciò,
e il vecchio scrittore fingendo imbarazzo per poco
non sputò la dentiera insieme alle cateratte
che gli lacrimavano dentro al bicchiere d’acqua tonica.
Un po’ di moccio gli s’appiccicò ai baffi ormai bianchi,
ma nessuno glielo fece notare quello sbàffo. All’uscita
tutti si misero le mani sulla chiappa destra là dove tenevano
nutriti portafogli; raccolsero fra le mani una copia almeno
del libro e pagarono il triplo del prezzo di copertina,
e le donne lasciarono sorrisi a trentadue denti per mancia
stando bene attente a non perdere d’occhio i loro cavalieri.
Quando tutti se ne furono andati, il vecchio corvo era lì
a contare i danari raccolti; io l’avvicinai per due domande,
ma quello era già al di là dei suoi stessi pensieri. Si trascinò via
uguale a un vecchio buddha perverso, lasciando dietro di sé
l’odore violento d’una bomba a gas troppo a lungo rattenuta
nell’intestino. Restai in piedi con il bloc-nòtes in mano
aperto su pagine bianche; me lo cacciai, dopo due minuti
di pensieri fra me e me, in una tasca della giacca, e feci
per squagliarmi anch’io. All’uscita c’era una copia abbandonata
del libro scritto dal vecchio scrittore: la presi in mano la copia,
lessi il titolo, “Lo sbàffo”. Poi arrivai a leggere la prima pagina
con attenzione appena sufficiente a farmi sbadigliare:
quella copia la conoscevo, era da quarant’anni almeno
che circolava, sotto titoli diversi per ogni ristampa. Sorrisi.
Fuori nevicava. Arrivai fino a una cabina telefonica
e feci una chiamata. Dopo dieci minuti
una macchina mi raccolse: “Com’è stata la serata?”
La mia donna era annoiata ma non scontrosa.
Le risposi con piena sincerità: “Come avevo previsto.”
Lei allora mi baciò sulle labbra, felice: “Non sbagli un colpo.”
La tenni fra le mie labbra per un minuto almeno,
poi ci staccammo: “Dovresti imparare a guidare.”
Ma non era un rimprovero: le dissi di divertito
con un cenno della testa, e lei premette sull’acceleratore,
lasciando dietro di noi, sulla neve, larghi sbàffi di neve
e di fango, delle cicatrici praticamente.

PORTATORI DI MORTE

Il Natale cadeva in bianchi fitti fiocchi:
erano tempi di festa, così ci si illudeva.
Nessuno aveva un bel niente da dire,
però tutti parlavano veloci per le strade:
si era così superbi e innocenti
da fare pena a dio, se solo non fosse stato
il prematuro parto della nostra fantasia
o, piuttosto, della disperazione.
A ogni modo, tutti facevano finta
d’esser più buoni col prossimo,
e tutti ci credevano veramente d’esser speciali
e destinati a qualcosa di speciale.
Poveri stupidi! Si viene a questo mondo innocenti,
poi viene l’età del senno e quella della follia,
solitamente allo stesso tempo,
ed allora si smette di credere nelle favole;
e alla domenica la chiesa è lontana
con le porte chiuse: in fondo sospetto
che tutti noi, ad un certo punto,
ce ne accorgiamo di non essere affatto speciali
ma solo stronzi in mezzo a tanti altri stronzi,
e però evitiamo di raccontarlo in giro.
E però diciamo per le strade di quella
che se l’è fatta con quello che non era suo marito;
e poi pensiamo a una preghiera che blateravamo
quand’eravamo bambini. Non siamo poi colpevoli,
non troppo: è solo che siamo così, stupidi – stronzi -,
quasi divertenti se non fossimo portatori di morte
con le nostre invidie e gelosie, con le smanie di potere.
A ogni modo ognuno di noi faceva finta,
sì, come i clown, d’esser felice e persino buono:
una monetina qua e una là, una tirata e una sigaretta
e una nuvola di fumo, il sorriso a trentadue denti
e il saluto al mìmo e pure a Santa Claus, e la mancia
sganciata al postino – intrappolato dalla mole della posta,
caricato come un somaro,
postino che il prossimo anno non ci sarà
perché è solo uno a tempo determinato
che ha preso il posto ma solo per le vacanze natalizie.
Insomma, la vita è così, una merda calpestata di fresco.
Che poi in primavera, con il disgelo, è ancora lì,
solo più spiaccicata e secca: però la puzza uguale.

Pensavo d’aver una storia da raccontare:
mi sono illuso, per disperazione di questa primavera
che è venuta davvero troppo presto a menarci
le spalle, a farci assonnati i passi
con la sua finta aria portatrice di vita.

PASSI NBLLA NEVE

Quando qui nevica, nevica come dio comanda:
la sciarpa te la leghi al collo per strozzarti
e sopravvivere così alla tormenta che ti taglia
la faccia. C’è poco da fare. I piedi affondano
ben bene nella neve, e il ritorno è sempre
un po’ più difficile: quella che era vergine
non lo è più dopo poche ore, è invece mota
che fa un rumore cattivo, come di carapaci,
di scarafaggi schiacciati. La neve è grigia,
è sporca, e quando la notte inesorabile cade
neanche te ne accorgi che le strade
non sono le solite, di catrame. Le lattine
e le cicche riposano sepolte, ogni tanto le pesti
però non te ne accorgi mica; altre volte
vai sul sicuro e ti becchi una merda di cane
che era rimasta sepolta, ed allora ti tocca
stringere i denti e bestemmiare. In dio non ci credi
e le campane – lontane – hanno il suono
che sai, quello di sempre, quello di quand’eri
ancora timido e bambino, quasi simile
ad un angelo. La terra è quasi vuota: scivolano
ombre a te accanto, bianche; ti danno un saluto
breve, e veloci vanno via verso il suono
che è di eco e di bronzo. Qualcuno ti avvicina
imbarazzato e infreddolito, ti chiede se hai d’accendere,
scuoti il capo, lui ti sorride e pensa chissà che cosa,
poi ti saluta con il palmo della mano alto e aperto
tagliandosi la lingua in un “Dio sia con te, brutto stronzo!”
Passi oltre, e i passi che ti sei lasciato dietro
sono già stati calpestati da un cane randagio
che t’abbaia manco fossi tu il peggiore degl’uomini
mai apparsi su questa terra così, un po’ complicata
e nulla affatto divertente. Con l’alito pesante,
con l’ossigeno sporco e freddo nei polmoni,
chiudi la giornata e apri la porta di casa
con la vecchia chiave arrugginita da cent’anni
di solitudine: accendi la lampadina da quaranta candele
appesa a un filo di speranza suicidata, leggi gl’occhi
fissi del crocifisso – che era di tua madre morta
proprio in quella stanza -, poi prendi a spogliarti,
a slegarti la sciarpa. Sul tavolo un pezzo di pane
e uno di formaggio, come sempre non mancano mai.
Sfogli le lenzuola vuote, tristemente bianche:
non ce l’hai più la forza per una sega da tanti anni ormai,
e il sonno fatica ad arrivare. Aspetti che la notte finisca
e che il giorno sia ancora, come sempre. Come sempre.


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