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Un poeta in ufficio

Creato il 21 marzo 2011 da Pupidizuccaro

di Dino Buzzati

Un poeta in ufficio
Ma è vero che Montale lavora in redazione? È vero che viene al giornale tutte le sere? È vero che lo si può trovare verso le sei, le sette nel suo ufficio? Questo mi sento chiedere spesso, dalla gente di fuori, a cui la cosa sembra inverosimile. Sì, è vero. Verso quell’ora il lungo corridoio bianco al primo piano del “Corriere della Sera” è ancora quieto e silenzioso. Non è ancora cominciata, o sta per cominciare, la cateratta quotidiana di ‘servizi’ e di notizie. Ma da una porta a vetri smerigliati aperta per metà, di fronte a quella del capo-redattore, viene un tic tic di macchina per scrivere. Un battito minuto, discreto e regolare, quasi timido e impacciato al confronto del mitragliamento velocissimo degli stenografi, qualche sala più in là. Chi passa può darsi che metta dentro la testa per curiosità. Vede di schiena Eugenio Montale su una sedia, che scrive un articolo, battendo sui tasti con un dito solo.
La macchina per scrivere è una di quelle grandi, da ufficio, collocata su un leggero tavolino, nell’angolo a sinistra. Scrive abbastanza lentamente, ma senza fermarsi, cosicché per una colonna di giornale gli basta poco più di un’ora. Nel caso di cronache musicali fa anche più presto. Non lascia quasi margini, senza arrivare alla mania di Indro Montanelli che, arrivato al fondo della riga non lascia neppure lo spazio per la lineetta dell’a capo. I pentimenti, le cancellature, le correzioni e interpolazioni a penna sono rarissime. In mezzo all’ufficio c’è una grande scrivania a due posti uno di fronte all’altro. Montale occupa quello a sinistra, l’altro è sempre deserto, non so se teoricamente sia assegnato o meno a qualcuno. In pratica l’ufficio è solo di Montale. E di Montale sono tutti i libri ammucchiati in alte pile sull’intera doppia scrivania, oltre che sui ripiani di un piccolo scaffale.

Ieri però l’ufficio è rimasto vuoto. Montale era a Roma per il solenne conferimento della laurea honoris causa all’Università degli Studi, una consacrazione che a lui, in fondo, non aggiunge niente ma che a tutti è sembrata giustissima, magari un po’ in ritardo.

I suoi amici di Firenze, dove per molti anni ha vissuto, hanno un senso di pena e di angustia pensando a Eugenio, anzi a Eusebio (come gli intimi lo chiamano), redattore del “Corriere”. ‘Firenze era veramente casa sua’ mi diceva l’altro giorno Alessandro Bonsanti ‘anche se Firenze poteva sembrare, per lui, una specie di esilio’. Hanno la sensazione questi vecchi amici, che Montale sia diventato schiavo del grande giornale, che Milano lo abbia sopraffatto con le sue macchine, i suoi camion, le sue caligini, il suo frastuono. Hanno perfino il sospetto, anche se non lo dicono, che qui al giornale il suo prestigio di poeta sia in certo modo appassito, che i suoi colleghi, vedendolo quotidianamente seduto nel suo ufficio esattamente come loro, abbiano finito, senza volerlo magari, a prenderlo un poco sottogamba, a non tenerlo nella giusta considerazione.

Mi permetto di smentire questi sospetti. Se in via Solferino Eugenio Montale è considerato di casa e nessuno fa più gran caso quando lo incontra, ciò non significa che i compagni di lavoro dimentichino ciò che lui è nella recente storia della letteratura italiana. Io trovo anzi che tanta confidenza è una cosa molto bella e sono convinto che a lui faccia piacere. Gli ossequi, i salamelecchi, il titolo di “maestro” ho l’impressione che gli diano maledettamente fastidio. Lui stesso, francamente, non ha nulla della figura tradizionalmente e retoricamente classica del grande poeta. Come del resto quasi tutti i veri poeti moderni. I cipigli, le pose, le barbe, le torri d’avorio, le stravaganze, le bizze, le teatralità che un tempo costituivano, agli occhi del popolo, l’aureola dei “vati”, oggi non esistono più, grazie a Dio. Montale, poi, ne è addirittura l’antitesi. Intendiamoci. Qualcuno alle volte ha l’impressione che Montale “si dia delle arie”. Magari perché gli è sembrato che Montale, incontrato per strada, non abbia risposto al suo saluto.

Un poeta in ufficio
Montale che si dà delle arie? Viene da ridere. Se mai, l’opposto. Se mai una esagerata timidezza, una malinconia, un chiudersi involontario dentro se stesso (che qualche volta possono essere scambiati per scontrosità o freddezza). Il guaio è che molti, avvicinando Montale, ritengono doveroso trattarlo come un Grande Poeta, assumendo un tono caricato e falso. E allora sì può darsi che lui si chiuda repentinamente a guscio, risponda a monosillabi e liquidi la conversazione in due e due quattro. Dico di più. Vedendolo per la prima volta, si può avere l’impressione che sia un istrice o un misantropo. È possibile restarne intimiditi e quindi sbagliare in pieno l’approccio.
In realtà, che uomo amabile, che delizioso conversatore, generoso di confidenze, se lo si avvicina con semplicità, parlando delle cose di tutti i giorni. Certo alcuni stentano ad abituarsi. Un grande poeta, pensano, è una specie di superuomo, avrà sempre pensieri molti al di sopra della media. Per stare al suo livello sforzano perciò i muscoli mentali; e automaticamente creano, fra lui e loro, una ermetica barriera. No. Per riuscirgli simpatici, non occorre parlargli di poesia e tanto meno delle sue poesie. Se mai toccate l’argomento opere liriche-cantanti (tutti sanno che la sua vocazione svanita era la carriera di baritono: e la registrazione in filo magnetico dell’aria della calunnia del ‘Barbiere’, cantata da lui, deve esistere forse ancora in qualche archivio di giornale), oppure chiedetegli, con discrezione, delle sue ultime creazioni pittoriche (a pastello e gessetti), oppure, per entrare nel suo mondo fantastico, ricordategli certi misteriosi solitari greti di fiume (ma bisogna che li amiate sinceramente anche voi, altrimenti è tutto inutile).

Per quanto riguarda il lavoro, i suoi amici di Firenze non stiano in pena. Mica che gli asfalti di Milano e gli uffici di un giornale quotidiano siano l’ambiente ideale per colui che parecchi, specialmente tra i giovani, considerano il maggiore poeta italiano vivente. Ma egli non ha proprio l’aria di trovarcisi in prigione. E la stessa ‘routine’ di critico musicale non deve riuscirgli sgradita. (Un esempio del suo scrupolo: più di una volta, dopo aver preparato il pezzo su una novità scaligera in base alla prova generale, ha telefonato dal teatro, al termine della ‘première’ per far cambiare un aggettivo, per trasformare gli applausi “calorosi” in applausi “cordiali” o viceversa; e questo impegno quotidiano di cronista gli fa, mi sembra, grandissimo onore).

Tutto bene, direte, però intanto Montale di poesie non ne scrive più. Ma è colpa del lavoro giornalistico? È colpa di Milano? Si tocca qui un tasto delicato e segreto; esprimere giudizi o recriminazioni sarebbe idiota, oltre che imprudente. Al proposito, lui che cosa dice? Montale, sull’argomento, ha come al solito un malinconico pudore: “Mettere al mondo un bambino e mettere al mondo un coniglio, costa alla madre la stessa fatica” ha detto un giorno ad amici “eppure fra un bambino e un coniglio c’è una certa differenza. Ebbene, da alcuni anni io metto al mondo conigli”. Ma verrà anche, vedrete, il bel bambino.

Un poeta in ufficio

La poesia non ha pubblico ma solo lettori, singole persone. Perciò oggi, con l’alibi della giornata mondiale della poesia, riportiamo il ritratto che Dino Buzzati fece della persona Eugenio Montale, lettore e trovatore di poesia. L’articolo è apparso sul Corriere della Sera il 30 marzo 1961. Tratto dalla preziosa e ormai introvabile raccolta fuori catalogo “Cronache Terrestri”.

(Marco Bisanti)



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