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Sono poesie di rabbia, ferocia, allegria: «…l’utopia era la liberazione di questi cristi risucchiati dall’orrore/in una lotta che durerà per una eternità di tempi…». E ancora: «…le nostre storie sconnesse e degradate/incapaci persino di un inventato lieto fine/e tanto meno di una qualsiasi catarsi/come la merda che serve per tutte le fecondazioni…».
L’autore è Luigi Di Ruscio un operaio metalmeccanico, per 37 anni occupato in una fabbrica di chiodi a Oslo. Attorno a questo straordinario personaggio, scomparso nel 2011, è stato prodotto un film presentato a Bologna nella sezione Italia del Biografilm Festival 2014. L’opera, «La neve nera, Luigi Di Ruscio a Oslo, un italiano all’inferno» è stata coordinata da Paolo Marzoni e Angelo Ferracuti. Che hanno chiamato per la principale voce narrante Ascanio Celestini.
Nasce così e si svolge la storia di questo emigrato in Norvegia negli anni 50. Quando viene assunto dalla «Christiania Spigerverk», l’azienda che produce chiodi, non smette di coltivare un’antica passione, quella della scrittura. Così aveva raccontato l’addio all’Italia: «il giorno che partimmo con pochi panni/pochi addii e nessun abbraccio/e i colpi di testa contro i muri/i segni scalfiti sui tavoli/i pezzi lacerati della carta».
Il film ripercorre le sue orme, attraversando case, strade, negozi, parchi della città nordica. I protagonisti diventano i compagni e gli amici di Luigi spesso riuniti negli incontri tra emigrati nella sede di una loro associazione. Prende vita la fisionomia del poeta operaio, con le sue ire, le sue allegrie, i suoi sarcasmi, la sua irruente vitalità.
Un viaggio che si fa più intimo e profondo quando a rievocare il passato è la vedova Mary e poi il figlio musicista, compositore e violinista, o il figlio professore cibernetico.
Sono Adrian, Thomas, Davide, Caterina. Tutti e quattro non parlano italiano, il padre ha voluto che crescessero norvegesi. Forse per farli sentire più integrati in quella società. Scaturisce da immagini e rievocazioni anche un aspetto politico. Luigi spiega come il welfare adottato in Norvegia gli abbia permesso di trovare il tempo necessario a studiare e a scrivere. A conquistare, con i suoi innumerevoli scritti, simpatie e collaborazioni di grandi autori come Franco Fortini, Salvatore Quasimodo. La sua diventa anche la storia di un comunista che non disdegna l’approdo socialdemocratico. È iscritto al sindacato, la Fiom locale (Fellesforbundet). Racconta: «Io sono sempre stato comunista adesso un po’ di meno… Si è comunisti quando ci sono cose da cambiare quando la società non funziona e si ha questo slancio di doverla cambiare…».
Ed è la storia di tanti emigrati che con le loro valigie di cartone hanno abbandonato le loro terre ma hanno saputo mantenere la propria dignità facendo valere le proprie capacità, il proprio «senso del dovere». Racconta uno di loro: «Sarei diventato un accattone in Italia». Luigi sposa una cittadina della capitale nordica e, come commenta uno dei figli, fu un fatto singolare poiché «sposare un italiano a quei tempi era come sposare un arabo musulmano oggi». L’Italiano, all’epoca, era considerato alla stregua di un «degos», uno zingaro.
L’operaio di Fermo, dopo una breve esperienza da lavapiatti, comincia il suo apprendistato in fabbrica e anche quella sua specie di lavoro segreto quando torna a casa, si fa una doccia, e si chiude in uno studiolo senza finestre. Con la coscienza di poter godere di vecchie conquiste: «Senza gli scioperi che ha fatto la classe operaia negli anni 30 non avrei potuto avere questo privilegio, non avrei potuto scrivere». Di Ruscio non è nemmeno un cattolico credente ma è rispettoso delle idee altrui tanto che prende in moglie una fervente cristiana. E osserva con ironia: «Io non credo in Dio ma c’è un Dio che crede nel sottoscritto».
Un film particolare, delicato e intenso, intorno a un uomo particolare che ha saputo conquistare una sua autonomia, spazi di libertà, uscendo, nel tempo libero, da quell’«inferno» per calpestare quella «neve nera» a cui allude il titolo. È l’immagine della sua grande fabbrica di chiodi quando di notte lasciava il reparto. E così «dopo aver respirato per tante ore la puzza infernale delle vasche piene di acido solforico, respiro l’inferno e magari ritorno a casa camminando sulla neve nuova soffice e immacolata, solo le orme mie sulla neve, mi volto a guardarle». Andava incontro, appunto, a quella libertà che in fabbrica non era lecita.
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