C’è un posto nella mia testa, in mezzo a una fitta boscaglia. Una casa sperduta, imponente ma sventrata, come un grande mostro abbattuto con le fauci spalancate. È nascosta tra alti alberi, una vegetazione fitta e incolta. Pare una foresta, ma vi si accede dal fianco di una strada sulla quale sale un terrazzamento cosparso di erbetta verde e ben tosata… forse un tempo era un giardino. Doveva essere un luogo regale allora, sterminato e magnificente.
Mi ci inoltro in gran fretta, con la voglia di nascondermi, presto il senso di inquietudine si perde nella boscaglia. Davanti al rudere assaporo il sentore acre di una grande pace che mi attende, di una solida sicurezza. Ci vado a incontrare qualcuno che ho amato un tempo. Qualcuno che ancora si ricorda di me, che quando mi vede mette il suo braccio sulla mia spalla e mi attira a se come una chioccia col pulcino. Lui suona una musica forte, inebriante e un po’ feroce, come se volesse espellere dall’anima le paure a calci.
Sono appena all’ingresso, devo arrivare fino in cima. Sono molti piani, e sono alti. Si salgono scale tortili annerite e umide, l’edera cresce dappertutto. Ad ogni piano il ventre della casa si apre su un enorme precipizio. Quando la rampa s’interrompe sul pavimento rotto, divaricato sul niente, vedi solo le fronde degli alberi, non ti accorgi che hai solo pochi passi e, sotto molti metri d’aria, il freddo e duro richiamo del terreno. Però non provo paura né vertigine, soltanto un grande senso di liberazione; così salgo e salgo, salto sui gradini, mi arresto a sentire il vento schiaffeggiarmi la faccia.
L’ultima rampa si apre sul cielo. Il piede sull’ultimo gradino, sotto un mare di fronde scure, scosso dal vento: un tuffo dalla quale non torneresti più indietro. Respiro quanto più posso… vertigine, meraviglia, euforia e un profumo pungente di pioggia. Dietro di me sta un’imponente porta bianca che riesco ad aprire solo il poco necessario a strisciarci dentro… dentro è bianco, piccolo, ben illuminato e rimbombante di musica. Poche persone che non conosco mi distanziano dal suo viso. Sorride, un sorriso dolce e sincero, ma vorrebbe rimproverarmi. Si è mai visto qualcuno sorridere così per rimproverarti?
“Sei venuta. Ma lo sai, vero, che sto per sposarmi?” L’avambraccio destro stringe le mie piccole spalle e io mi sento tanto forte e bambina insieme che potrei far fiorire la primavera in questo giardino.
“Si, lo so, e ne sono sinceramente felice. Te lo dissi tanto tempo fa, che sarebbe andato tutto bene, che avremmo trovato quello che non speravamo, lo ricordi?“. E’ la prima volta che provo tanta gioia e pienezza per la felicità di qualcuno.
“Verrò ancora qui.“- “Verrai? Ma non possiamo…“- “Si, io posso.“- certo che posso, in questo luogo sicuro, in questo luogo che è mio. Verrò: posso sentirmi ancora così felice, per te, non ho bisogno che sia con te. “Perché? Perché sei venuta?“- “Per portarti il caffè. Amaro, come ti piace.”
La porta mi sembra leggera come una piuma, ora che me ne vado.
Immagina: Jacek Yerka, “Tower of subconsiousness”, http://www.yerkaland.com/?page_id=395