Lago di Lesina e Majella sullo sfondo..foto di Francesco Ferrante
da Puntodistella.itForse per adattarsi alla forma allungata della laguna, Lesina nasce dalla chiesa madre e si sviluppa in lunghezza costeggiando il lago. A differenza di molti altri paesi, che si articolano e gonfiano intorno a una piazza centrale, Lesina ingrassa poco, conservando le forme snelle che aveva in gioventù. Il viaggiatore in avvicinamento, con un minimo di fantasia, potrebbe facilmente tracciare con lo sguardo una immaginaria “L” sdraiata, e magari pensare che il paese dorma sulla propria iniziale.
Oppure addirittura convincersene, specialmente se decidesse di farci una capatina un primo pomeriggio d'estate quando per le strade abbacinate e violentate dal sole non girano nemmeno i numerosi cani randagi, nascosti all'ombra di un riparo qualunque. Quando ci andavo, bambino, durante la villeggiatura estiva, rimanevo a osservare il panorama dal lungolago.
Dopo pranzo, mentre gli adulti dormivano, sedevo sulla panchina di pietra all'ombra del gigantesco eucalipto. Me ne stavo lì ad ascoltare il fruscio delle foglie mosse dal vento e godermi il fresco e la calma postprandiale. Una brezza civettuola scarmigliava i capelli invitando a banchetto infantili fantasie.
Ed ecco un popolarsi improvviso di forme fluttuanti e mutevoli nell’azzurro intenso del cielo: elefanti a batuffolo sprovvisti di proboscide, bianchi ippopotami grassi con zampette evanescenti e ridicole, temibili tigri zannute pronte a balzare su prede immaginarie... Poi lo sguardo scendeva più giù, lungo la linea d'orizzonte, verso la striscia di pineta che divide il lago dal mare, nel vano tentativo di individuare fra pini e lecci la Torre Scampamorto, favoloso luogo di pirati, streghe o altre superstizioni spaventevoli.
Una volta notai un movimento insolito sul cristallo verde-smeriglio della laguna. Mano tesa a schermire il sole: riflesso impercettibile ondulante e ipnotico espande poi svanisce in acqua. Barca o miraggio di meriggio? Fuoco d'occhi... L'imbarcazione scivolava esile, annoiata e elegante, senza formare scie né riflussi. In piedi, a poppa, un uomo in canottiera e pantaloni scuri, sigaretta penzoloni fra le labbra. Una lunga asta a mo' di remo per spingere e avanzare. Si chiamava Alfonso - qualcuno mi spiegò – e si stava concedendo un giro solitario prima di ripartire, a sera, per terra straniera.
Lo guardavo: muscoli guizzanti, fibre e nervi in concentrazione d'approdo. Viso triste e rassegnato su quarant'anni portati bene. Un alone malinconico intorno, consapevolezza e sguardo basso di chi ha rinunciato definitivamente a qualcosa. Un uomo senza rimedio. Irrimediabilmente ferito al cuore. Più tardi, il simbolico peso di una valigia tenuta da spago, caricata a braccio nel baule della Fiat 124 blu con targa tedesca. Baciati un'ultima volta moglie e figli, mise in moto e partì. Oppressione e malessere quando la macchina sparì in fondo alla strada in uno sbuffo di fumo e polvere.
Da quel giorno il viso di Alfonso si associò in modo indelebile alla parola ‘emigrazione’. Ecco, per me oggi ogni rapporto con l'emigrazione è la faccia triste e desolata di Alfonso mentre parte per la Germania. Anch'io sarei emigrato più tardi. Ma avrei compiuto il viaggio in senso inverso, perché io in quella terra ci sarei andato.
Luigi Scarabino