Un racconto di Riccardo Alberto Quattrini – ANGOSCIA

Creato il 15 febbraio 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
Madame Ketty Leroux, la portiera di Rue Durantin, saltò fuori come un gatto al passaggio di un topolino quando Lalie Bénédicte Tabone-Duffet transitò davanti alla guardiola. Tenendo la scopa a mo’ di alabarda la salutò beffarda.

«Buongiorno, signora Duvall.»

Lalie si chiese come potesse conoscere il suo nome da sposata; quell’andare e venire dall’atelier del suo amante le era sempre costato fatica, e tutte le paure tornarono a impadronirsi della sua mente. Un vortice scuro le mulinò davanti agli occhi, le gambe parevano strette in una morsa, tanto che dovette aggrapparsi al corrimano per non cadere. Non era la prima volta che rischiava un incontro pericoloso, nonostante tutte le precauzioni. Faceva fermare il vetturino un paio d’isolati prima, percorreva la via a testa bassa, sgattaiolava nell’androne e, a passi svelti, attraversava il piccolo cortile. L’atelier era una grande stanza con un’ampia portafinestra, un alto soffitto e un lucernario coperto da un filare di tende ingiallite, come reti stese. Pochi e essenziali i mobili: un divano giallo limone a strisce nere e due abat-jour a sei facce. Tele di varie misure erano gettate a terra e, al centro, un cavalletto imbrattato di colori. Ogni volta, si riprometteva che sarebbe stato l’ultimo incontro, ma quella bramosia era assai più forte e dirompente dei suoi buoni propositi. Il letto disfatto stava lì, a ricordarle il peccato appena compiuto e, mentre si rivestiva, rimirandosi svogliatamente nella grande specchiera, scorgeva nello sguardo il senso di colpa che l’assaliva dopo ogni incontro. Quando era oramai pronta per uscire, lui giocava ancora al seduttore e lei avrebbe voluto trovarsi lontano da lì, al sicuro nella sua casa. In strada temeva di incontrare qualcuno che la riconoscesse, così teneva la veletta stretta intorno alla gola con la mano guantata, camminava di fretta rasente i muri, fino a quando trovava una vettura per tornare a casa.

“Guardi signora che vi sbagliate” disse in fretta. «Non mi sbaglio signora Duvall.»
La donna rientrò nella guardiola.

«Guardi», le mostrò un giornale, «questo è il Ministro dei lavori pubblici Jean-Michel Courtine, e quest’altro, l’uomo a cui date il braccio, è vostro marito, il viceministro Alexandre Duvall.»

La foto li ritraeva sotto una grande struttura di ferro, ancora in costruzione, in occasione dell’Esposizione Universale del 1889.

«Questa, mia cara signora, siete proprio voi. Non avevate la veletta a proteggervi, come oggi, ma siete proprio voi» e piegò il giornale mettendoselo sotto il braccio.

«E dunque che vorreste da me?»

La portinaia fece un sorriso mostrando una bocca sdentata.

«Voi siete una signora, vostro marito, oltre a essere viceministro, è un notissimo avvocato a cui si rivolgono persone molto facoltose. Mi capite vero?» disse schiacciandole un occhio già mezzo chiuso da una discesa repentina della palpebra.

«No, non capisco» rispose, cercando di mantenere la voce ferma mentre tutto il suo corpo era scosso da fremiti di paura. Lalie non si era mai trovata a dover discutere con una popolana, meno che mai ad affrontare un esplicito ricatto.

«Voi, una signora per bene, ve la spassate con il signorino… ed io devo ramazzare tutto il giorno, non ho bei vestiti come i vostri e devo penare per procurarmi il pranzo e la cena…»

«Che cosa volete, soldi?»

La portinaia spalancò la bocca sdentata in un sorriso di soddisfazione.

«Ecco, tenete» le allungò una manciata di banconote, strinse agitata la borsetta contro il corpo e uscì a passo deciso dal portone. La tensione le impediva quasi di camminare composta, non aveva ancora svoltato l’angolo di Rue Georges Boucher, che la popolana le gridò dietro: «Non mi accontento dell’elemosina!»

Lalie camminava a passo veloce rasente il muro, stringendo con la mano la veletta che scendeva dal cappellino sfarzoso, a ricoprirle il viso. Avrebbe voluto urlare o battere i pugni per liberarsi dall’orrore di quell’immagine che le si era conficcata nel cervello come un amo; quel volto laido con la sua risata beffarda, la volgarità sprigionata dall’alito fetido di quella plebea, da una bocca tutta guasta, rigurgitante odio, che le aveva sputato in faccia con violenza tutto il suo disprezzo.

L’inquietudine con cui affrontava il rientro era una costante. La sua era una moralità fragile e traballante, da quando aveva conosciuto Gérard Sené a una mostra allestita a Parigi dal sottosegretario alla Cultura, amico di suo marito Alexandre Duvall-Stalla. Gérard era un giovane e talentuoso pittore, noto soprattutto per i suoi nudi. Non lo aveva trovato subito attraente, così magro con quella gran massa di capelli e il ciuffo ribelle che gli copriva la fronte, nemmeno quando il suo sguardo aveva incrociato i suoi occhi verdi. Era affascinata dai suoi quadri. Quei corpi nudi mettevano in mostra tutta la voluttà più nascosta. Le modelle guardavano in un punto indefinito, come se il corpo dipinto non appartenesse loro. Lalie si chiedeva dove le trovasse e come potessero accettare di essere ritratte in pose tanto intime; non si vergognavano?

Il sottosegretario Marlon Bériault le aveva preso la mano, prodigandosi in un inchino di circostanza, sfiorando con i lunghi baffi a manubrio il dorso guantato. Lalie aveva sorriso appena con le gote che s’infiammavano, come se qualcuno l’avesse sorpresa in un momento di profondo imbarazzo.

«Vi piacciono?» aveva chiesto facendo scivolare lo sguardo sui dipinti lungo le pareti.

«Signor sottosegretario, non trovate tutto ciò troppo succulento per gli occhi del pubblico?»

«Ma signora Duvall, il prossimo anno l’esposizione universale ci proietterà in un lampo verso il nuovo secolo, confluiranno a Parigi i più bei nomi delle Arti. Immagino che vostro marito ve ne abbia parlato. Avrà visto cosa stanno costruendo a Campo di Marte, una torre di ferro altissima, una costruzione avveniristica per tutta la Francia. E noi, siamo ancora così conformisti da non apprezzare dei semplici nudi. Se mi posso permettere, mi meraviglio di voi.»

Il marito, evocato dalle parole del sottosegretario, si stava avvicinando.

«Permettimi di presentarti un giovane molto promettente.»

Gerard Sené, capelli lunghi e occhi verde acqua che si muovevano incessantemente, come alghe di fiume, si presentò. Lalie aveva allungato la mano e attese che il giovane, dopo un breve e impacciato inchino, gliela restituisse; un leggero brivido le era corso lungo la schiena stretta dai lacci del corsetto.

I giorni a seguire, nella sua dimora borghese di Rue Duhesme, erano trascorsi nello sgomento più assoluto; mai avrebbe pensato di provare una tale ansia per una pena di cuore. Quel giovane, e i suoi nudi, la ossessionavano, le notti erano diventate lunghe e insonni per Lalie. Si alzava e andava ad aprire la finestra. Nella calma e serenità notturna, fissava gli alberi velati da misteriose ombre e si chiedeva se era quella la felicità che la vita non le aveva ancora dispensato. Il suo era un matrimonio di circostanza. Lalie aveva due fratelli, Henry e Raymond, più grandi di lei. La sua era una famiglia di proprietari terrieri della Borgogna orientale. A Chablis, risiedevano nel Château Long Depaquit, costruito nel 1791. Intorno al castello si stendevano a perdita d’occhio i vigneti che digradavano verso la piana; in quel clima fresco producevano dell’ottimo Chardonnay. I Duvall Stalla, nobili parigini, nella bella stagione soggiornavano per brevi periodi a Chablis per degustare e acquistare i vini della tenuta. Fu assai facile per le due famiglie, consapevoli dell’interesse che il giovane Alexandre nutriva verso la giovanissima Lalie, concordare un matrimonio.

La ragazza si era permessa di dichiarare la sua avversione alla madre Amedee.

«E’ un tipo vanitoso e pieno di boria, e poi è troppo alto.»

«L’hauteur n’est demi beauté» aveva sentenziato la madre, e la conversazione era finita lì. Lalie era sempre molto ossequiosa e arrendevole verso la madre; ogni suo desiderio, ogni postulato era da sempre preso in seria considerazione. Ai suoi fratelli, Henry e Raymond, invece era concesso tutto. Lalie crebbe quindi ligia ai precetti di suo padre e agli ordini della madre. Finì così per sposare un uomo che non solo non le piaceva: non lo amava.

A pochi giorni dal vernissage, in una splendida giornata di fine settembre rinfrescata dal vento proveniente dall’Atlantico, di cui si percepiva l’odore salmastro, Lalie camminava tranquilla nei giardini di Campo di Marte e osservava, con curiosità, il fermento attorno all’informe torre di ferro che progressivamente prendeva corpo. Una moltitudine di uomini si muovevano come formiche, intente a piantare rivetti lungo la struttura. Ebbe l’impressione che qualcuno la stesse seguendo; si voltò e sentì un tonfo al cuore che batteva violentemente sotto la camicetta. Uno stupido e inaspettato colpo di vento le fece volare via il cappellino, che rotolò come le salsole nel deserto. Gérard Sené si chinò a raccoglierlo e le andò incontro con quegli abiti eccentrici da giovane bohémienne e il ciuffo che gli scendeva imperioso sulla fronte.

«Mi pareva foste voi» disse porgendole il cappellino. Lalie lo fissò interdetta e sconcertata per quell’insolito incontro.

«Sorpresa o turbata?» chiese il giovane.

Poi fece mezzo passo avanti, che la costrinse a indietreggiare e mettere un piede in fallo. Allungò una mano e le cinse il braccio, impedendole di cadere. Quella contingente vicinanza le fece salire il cuore in gola. Un profumo di tempere e colonia le salì lungo le narici. Il giovane stirò le labbra in un sorriso forse studiato. Lalie era confusa. L’inspiegabile agitazione che provava era la stessa che aveva volutamente ignorato durante il loro primo incontro, e ora le faceva palpitare il petto; tremò all’idea che fosse tanto evidente. Durante i nove anni di matrimonio aveva sempre sperato che un barlume d’amore nascesse dalla sua interrotta adolescenza, fatta di sogni e aspirazioni ma, disincantata, doveva accettare la cruda realtà fatta di un rispettoso, quanto non richiesto, ardore del marito.

Se pensava di poter scansare o dimenticare quel giovane si sbagliava di grosso; lui dava l’impressione di conoscere molto bene le profondità dell’animo umano. Si recarono al Café du Dôme, anche se lei, con estrema riluttanza, aveva cercato di rifiutare l’invito; la sola idea che qualcuno potesse vederla assieme a lui le procurava un senso d’angoscia. Dopo aver conversato un poco di frivolezze, Gérard le fece una domanda che la spiazzò quel tanto da farle aumentare le già tumultuose palpitazioni.

«Vorrebbe posare per me?»

Le sembrò che il mondo intorno si fermasse come per un sortilegio, nell’attesa della sua risposta. Aveva sempre creduto fosse facile dire di no, ma che la sua volontà vacillasse non l’aveva mai pensato. Si chiese cosa le stesse succedendo ma dalle labbra, come una bolla iridescente, le uscì solo: «Eh oui.»

L’atelier era a due passi dal Moulin de la Galette. La carrozza aveva faticato a risalire la collina di Montmartre, e quando si fermò lei, sempre con la veletta tirata sul viso, chiese: «Dove mi state portando?»

«Vi faccio conoscere ciò che una donna come voi non ha mai visto» rispose prendendola delicatamente per un braccio e sospingendola su per la rampa. Lalie si trovò davanti una costruzione di legno rosso, stinto come vino annacquato, con una porta centrale e due piccole finestre ai lati. Alle spalle, come una torre fortilizia, si ergeva il mulino; la brezza leggera muoveva appena le grosse pale dalle vele lacerate, e sul tetto spiccava la bandiera francese slabbrata dai venti.

«Lo conoscete?» chiese Gerard e al suo diniego continuò: «Lo sapevo. Siete proprio una borghese. E non avete mai sentito parlare di Renoir o di van Gogh, vero? Ah, ma che diavolo di vita avete condotto finora?»

Aprì la porta e un uomo piccolo con un cappello floscio si palesò sullo sfondo della sala cosparsa di tavolini apparecchiati con tovaglie rosse quadrettate.

«Questo è Océan Sauriol un tempo mugnaio, è lui che ha pensato di trasformare il mulino in una originale sala da ballo. Inoltre sforna delle meravigliose e gustose gallette. Per questo motivo si chiama Moulin de la Galette.»

Quando uscirono dal locale, Lalie fece un lungo respiro. Una strana e nuova sensazione prese lentamente corpo dentro di lei. Si tolse la veletta, come si fosse alzata una celata che le aveva impedito di respirare fino a quel momento. Sapeva che sarebbe stata assai breve quella sensazione, ma in quel preciso momento si sentiva libera da qualcosa che da troppo tempo la opprimeva. La sua educazione era stata severa, dall’età di otto anni era stata affidata a un’istitutrice, la più severa di tutta la Borgogna. Si chiamava Thifanie Leclercq ed era piatta e secca come un uscio, con i capelli raccolti in una crocchia che pareva un nido. Fra le tante materie, le insegnò il bon ton, per lei una specie di ossessione.

«Il comportamento di una donna in società equivale al suo biglietto da visita» asseriva. «Se seguirai le mie regole, nessuno avrà alcunché da dire sulla tua moralità.»

L’Atelier era proprio come se l’era immaginato. Se era stato facile accettare di posare per Gérard, ancora più facile fu diventare la sua amante. Si sentiva non tanto attratta, bensì spinta da un dovere immorale; una reazione a tutti gli anni di costrizioni e rinunce. Dopo la prima volta, il suo incedere divenne più disinvolto, coglieva e accoglieva ogni sguardo virile come un successo inaspettato. Si fermava a specchiarsi nelle vetrine, ammirava la propria immagine riflessa, la gonna aderente che le scivolava lungo il corpo con dei panneggi e la vita stretta in un bustino nero. Le brillavano gli occhi mentre si ammirava; era giovane, leggiadra, le labbra luminose dischiuse e sensuali, le restituivano un sorriso appagato. Riprendendo il cammino si sentì le ali ai piedi.

Se solo avesse immaginato quanti tormenti e quanta paura le avrebbe procurato quella sua trasgressione, avrebbe da subito abbandonato l’euforia che l’accompagnò per qualche tempo.

Il rimorso del tradimento, dopo la scenata della popolana di Rue Durantin, l’assalì appena varcato il portone di casa. Un senso di soffocamento e di pena le salì alla gola come se una mano l’avesse afferrata e stretta con forza. Il suo desiderio di redenzione era decisamente traballante. Non passava giorno che Lalie non ricordasse quell’incontro tanto improvvido e funesto. L’immagine della popolana l’accompagnava in ogni stanza, nelle lunghe ore vuote.

Un giorno, mentre erano tutti a tavola – i bambini Fabian e Henriette avevano appena terminato di baruffare – Pélagie, la domestica, consegnò una lettera alla signora, avvisandola che il messo attendeva una risposta. Lalie l’aprì con apprensione, trasalì e sbiancò scattando in piedi. Subito s’accorse che quel gesto l’aveva tradita, destando uno sconcerto imbarazzante. La lettera era di poche righe: “Si prega di consegnare subito cinquecento franchi al latore della presente”. Nessuna firma né data.

Si scusò e infilò le scale per recarsi nella sua camera. Da uno scrigno prese una custodia in pelle e ne estrasse delle banconote che infilò nella busta, poi scese di corsa per consegnarla di persona al fattorino.

Nel suo mondo ordinato e privo d’incertezze, da quel momento, nulla fu più come prima. Non sopportava più casa sua, sentiva di dover stare in mezzo alla gente per non impazzire. Uscendo dal portone si gettò in strada come da un dirupo, a occhi chiusi; si mescolò alla folla preda di una fretta nervosa. Un incauto signore le urtò una spalla e lei sobbalzò per l’inatteso contatto. A ogni rumore, ogni passo, ogni ombra che lambiva, i suoi nervi provavano un’algia dolorosa. In una figura avanti a sé le parve di scorgere una sagoma conosciuta; di spalle, specchiato in una vetrina, colse un viso familiare.

«Gérard!»

Pallido e turbato per l’incontro inatteso, il volto recava tutti i segni dell’emozione e, davanti allo sguardo esterrefatto di lei, anche della vergogna. Indeciso, allungò una mano che ripiombò subito lungo il corpo. Lei lo fissò per qualche secondo, osservò l’espressione vuota di chi si sente impreparato. Spaventato ebbe la dabbenaggine di chiederle: «Lalie che cos’hai? Che ti ho mai fatto per trattarmi così? Il tuo ritratto…»

Sentì ribollire una collera che non conosceva.

«Vuoi sapere che mi hai fatto? Proprio tu, lo vuoi sapere!» Si accorse di aver alzato troppo la voce, ma non se ne curò; il rumore delle carrozze copriva tutto. Lui balbettò ancora qualcosa in sua difesa.

«Taci! Di vergogna e infamia ne ho già colma la misura» disse con malagrazia. «E non propinarmi la solita commedia. Di certo quella popolana, la tua amica – perché deve essere così – è qui vicino che ci spia e tornerà ad aggredirmi non appena finirete di spartirvi i soldi.»

«Ma chi…? Che dici?!»

La tentazione di colpirlo era forte, non aveva mai odiato e disprezzato a tal punto una persona. Sentiva già la sua mano stringere frenetica il manico dell’ombrello.

***

Qualche giorno appresso, il marito bussò alla porta della sua camera e accese la luce. Lei si destò da uno strano sogno. Una donna e un uomo di cui non distingueva le fattezze la stavano rincorrendo in mezzo alla folla che aumentava a ogni suo passo e le impediva di camminare. La donna la chiamava per nome tenendo in una mano un foglio che sventolava nell’aria. La gente al suo passare si voltava, la guardava e rideva. Quando la raggiunse s’avvide che aveva le sembianze di Ketty Leroux, la portiera di Rue Durantin. Un uomo con un vistoso cilindro sulla testa la trattenne per un braccio. «Sanno tutto. È inutile che tentate di scappare!» Una domestica spingeva una carrozzella e passandole accanto le gridò acida: «Svergognata!»

Una voce familiare la stava chiamando: «Lalie!»

Fu allora che aprì gli occhi e vide nella luce gialla, infausta, spiovente dal lampadario, il volto del marito. Pallido, severo, rugoso. Gli occhi corsero lungo la coperta fino alla sua mano, sulla quale era posata quella di Alexandre, ampia, magra e pelosa. La ritrasse come si ritrae nel suo guscio una lumaca spaventata.

«Ti ho sentita gridare.»

Lalie sbatté gli occhi.

«Che… che cosa?» domandò.

«Ti ho sentita gridare fin dall’altra stanza.»

«Avrò fatto un brutto sogno» disse terrorizzata, pensando di aver pronunciato un nome che mai avrebbe dovuto pronunciare.

«Che c’è Lalie? Non stai bene? È da qualche tempo che sembri diversa. Sei nervosa, come in uno stato febbrile. C’è qualcosa che vorresti dirmi?»

Lei provò a sorridere, ma le venne male, stirò appena le labbra che sentì aride.

Avrebbe voluto confessargli la verità; il senso di colpa, da un semplice granello era diventato un macigno insopportabile. Le sarebbe bastato pronunciare una sola parola: perdono, e lui avrebbe capito.

«Sicura che non devi dirmi nulla?»

Com’era suadente la sua voce. Non lo aveva mai sentito parlare così. Avrebbe voluto mordersi la lingua tanto smisurato era il desiderio di confessargli la verità. Ma perché c’era quella luce, gialla, spettrale? Se fosse stata così forte, se fosse stata in penombra, forse, avrebbe ammesso la sua colpa.

«Allora… se non devi dirmi nulla. Buonanotte.»

Il tono era ostile e calunnioso; quella sarebbe stata l’unica opportunità per confessargli il misfatto.

Era una di quelle genuine giornate di primavera che si svincolano dal grembo chiuso dell’inverno, con un cielo illimitatamente azzurro, da cui pareva di respirare a pieni polmoni l’immensa vastità.

La Closerie des Lilas era sul boulevard du Montparnasse. Lungo il bancone del bar erano sistemate un numero imprecisato di sedie e tavolini di vimini, attorno ai quali i clienti bevevano qualcosa mentre discutevano dell’evento più scontato: Le Pilôn, come molti parigini, in dispregio, chiamavano la Torre Eiffel. Anche l’élite artistica letteraria si inventò un soprannome: l’asparago di ferro. Lalie Bénédicte Tabone-Duffet si sedette a un tavolino e ordinò un tè con biscotti, lo stava sorseggiando quando unapresenza indesiderata le si sedette accanto. Lalie trasalì e per poco non le andò di traverso il tè.

«Voi!?» disse guardando la donna che odiava con tutte le forze. Mio Dio, pensò, se è giunta a seguirmi e importunarmi in pubblico, oramai sono alla sua completa mercé.

«So che non gradite la mia presenza, ma nemmeno io gradisco la vostra. Ci tenevo a dirvi che il signorino Gérard Sené non c’entra nulla in questa faccenda. Egli vive nel mondo dorato dell’arte. È sconvolto per come lo avete trattato.»

Lalie sbiancò. Come aveva potuto confondere un’espressione di sorpresa con quella di un connivente. Che mai aveva da spartire con questa abbietta ricattatrice? Come aveva potuto accusarlo di un simile e orrendo misfatto, e in che modo poteva riparare a un simile errore?

«Che volete, dunque?»
«Ciò che a voi non manca di certo. Denaro, e gioielli!» e indicò con un dito sporco l’anello infilato sopra il guanto.
«Quando mai vi fermerete? Pensate che possa mantenervi a vita?» La popolana sorrise sdentata.
«Intanto offritemi qualcosa di buono.»

Dopo averla lasciata in compagnia di una bottiglia di buon vino e dell’anello, si domandò quanto ancora avrebbe dovuto sopportare da quella ricattatrice. Questo orrore non avrà mai fine, pensò.

Pensieri cupi le offrì la notte, mentre giaceva sul letto con gli occhi sbarrati sul baldacchino damascato. Si sentiva come chiusa in una bara, intorno a lei una quiete sconfinata che le faceva udire i battiti del cuore nel petto. Di tanto in tanto echeggiavano i rintocchi delle ore nell’oscurità, poi la notte si fece più nera e inanimata, colse le avvisaglie di quella tenebra vuota, senza confini e comprese cosa le restava da fare per riparare alla vergogna e allo scandalo. Esaminò così tutte le possibilità che conducevano alla morte. Oh, non essere più bandita, poter così trovare pace, riposare, riposare all’infinito, non conoscere più l’angoscia martellare il petto. Ma come? D’un tratto si ricordò, tanto che un gioioso terrore le percorse le membra, facendola scattare dal letto. Si ricordò che un medico, qualche anno prima, quando soffriva di forti dolori e di insonnia, le prescrisse della morfina che lei, a gocce, versava da una boccetta. Il contenuto sarebbe bastato ad addormentarla dolcemente per sempre. Si passò involontariamente la lingua sulle labbra. Passò in rassegna tutte le boccette che teneva nei cassetti. La trovò, ma era piena solo a metà. Pensò non fosse sufficiente. Frugò ancora nei cassetti alla ricerca di quella prescrizione.

Eccola!

La farmacia era in Rue Marcadet, a qualche isolato da casa sua. Aprendo la porta provò un leggero brivido, le sembrò d’essere Maria Antonietta mentre sale i gradini del patibolo. Lo speziale l’accolse algido come una statua. Portava un collare rigido che gli impediva qualsivoglia movimento della testa. Dopo averla scorsa con il solo movimento degli occhi, si allontanò nel retrobottega. Dall’apertura che divideva le due stanze, Lalie poté vedere la preparazione. Un bilancino lucido d’ottone con minuscoli pesi, le essenze nei barattoli, ognuna col suo nome latino; inalava quei profumi particolari, l’odore viscoso e dolciastro dei preparati. Lo speziale contò le gocce chiare che stava travasando da un’ampolla panciuta in una boccetta blu cobalto. A ogni goccia che cadeva, avvertiva la morte che sarebbe affluita nelle sue vene. Un freddo brivido le corse lungo il corpo come se il sangue le si fosse coagulato. Confusa, offuscata, fissò le mani dell’uomo che chiudevano con un tappo il flaconcino e vi incollavano un’etichetta.

«Un franco e quarantadue centesimi, prego» disse lo speziale porgendole la pozione. Tutti i suoi sensi erano affascinati dall’atroce pensiero. Emerse dal suo stordimento e si guardò attorno, costernata. Poi come un automa aprì la borsetta per prendere il denaro. «Faccia molta attenzione al dosaggio. Tutta la boccetta potrebbe ucciderla.»
Non era ciò che desiderava?
«Soffrirei?»

Lo speziale tese il collo come una vecchia tartaruga. Le si piantò davanti con le braccia piegate e i pugni stretti sul bancone di legno.

«Madame! Farò finta di non averla udita. Ma sarebbe mio dovere denunciarla alle autorità competenti. Il suicidio è un delitto, oltre che contro la legge, contro la volontà di Dio!»

Quando si gettò vestita sul letto, il cuore le batteva ancora forte nel petto; stringeva la boccetta in mano. Aprì il pugno e la guardò. Avrebbe mai avuto il coraggio, dopo le parole dello speziale, di ingoiare tutto quel veleno?

Perdonami. Perdonatemi tutti per questo mio gesto. Il timore dello scandalo della vergogna è più forte del timore della morte, del castigo di Dio. Perdonami madre. Perdonatemi figli miei…”

«Lalie!» gridò una voce alle sue spalle mentre era intenta allo scrittoio. Si voltò restando con la penna in mano e sul volto un’espressione sorpresa.

Era il 15 maggio 1889 quando il Primo Ministro Pierre Emmanuel Tirard tagliò il nastro che inaugurava la Torre Eiffel. Il tempo era perfetto: limpido e fresco, con una leggera brezza primaverile che si insinuava nell’aerea struttura della torre. Gli operai continuavano a tinteggiarla di quel bel colore bronzo rossastro che oramai si vedeva a chilometri di distanza. Sotto, in fila, migliaia di visitatori attendevano il loro turno per salire i gradini: gli ascensori non erano ancora stati ultimati. La torre era elegante, possente e al contempo vivace, ma in definitiva il suo messaggio era politico, in un mondo in cui re e regine governavano ancora su gran parte del pianeta. Quel primo giorno – assieme al ministro dei Lavori pubblici Jean-Michel Courtine, all’ingegner Eiffel con la figlia Claire e il genero monsieur Salles, all’architetto Sauvrestre e la moglie Sabrina – Alexandre Duvall-Stalla e sua moglie Lalie Bénédicte Tabone-Duffet erano seduti nel ristorante all’aperto del primo piano: La Brasserie Alsace-Lorraine.

Le Figaro, che aveva aperto il suo piccolo ufficio sulla seconda piattaforma con un’équipe ridotta titolava: “La Tour en fer de trois cent mètres de le grand ingénieur Gustave Eiffel qui deviendront le monument le plus célèbre dans le monde.”

Artwork, Sole rosso sul deserto/Soleil rouge sur le désert olio su tela/huile sur toile, 40×30 (2004)

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