Immersa in un acquario regna sovrana Venus, non più sul monte Hörselberg o Venusberg, bensì tra profondi abissi marini, dove fluttua l’amore per Tannhäuser e le sue aspirazioni galleggiano senza trovare pace. Egli stenta a credere alla sua profezia, che lo avvisa del pericolo, alla quale andrà incontro una volta tornato indietro tra i suoi simili: gli esseri umani definiti mortali. Trascorre il suo tempo scrivendo e leggendo, dedizione intellettuale che mal si concilia con i non esauditi desideri di Venus profondamente risentita per la decisione di essere abbandonata da Heinrich von Ofterdingen chiamato Tannhäuser, il Minnesänger. La sua ferma volontà di tornare sulla terra gli procura una punizione feroce, vedendosi strappare una a una pagina del suo prezioso libro – diario. Un volume rosso che sembra una goccia di sangue in quella distesa di acqua marina senza fine. Un mondo così algido e freddo da impedire qualunque reazione emotiva ed erotica. Non c’è nulla di passionale come diversamente indicato da Wagner.
Incombe sopra le loro teste, un pianeta rotante, molto rassomigliante a Venere che riflette il suo pallore lunare. Un’alta marea di proporzioni gigantesche sale fino a far scomparire i due protagonisti e un cielo cupo e sinistro. Quel colore così plumbeo si fa portavoce di sventure e la tavolozza dei colori diventa sempre più oscura e drammatica. Il regista Guy Montavon non ha inteso seguire fedelmente le indicazioni del libretto, ma ne fa una sua libera interpretazione, basandosi su provocazioni visive e concettuali che non necessitino un’adesione formale e interpretativa al soggetto dell’opera. Di conseguenza sceglie la scelta estrema di ambientare il secondo atto, non più nella tradizionale Sängerhall (la sala dei cantori nella Wartburg), bensì tra le ceneri della biblioteca di Weimar, distrutta da un furioso incendio nel 2004. Sceglie di contestualizzare la vicenda in un ambiente devastato dal fuoco, quasi a voler affermare il pericolo che corre la cultura a rischio di distruzione e Tannhäuser, poeta e letterato fine, si erge a paladino nel tentativo di salvare ciò che non è stato lambito dalle fiamme (metaforiche), un patrimonio dell’umanità. Le scene sono firmate da Edoardo Sanchi virano per lo più su tinte cupe dalle forme astratte.
Un allestimento che fa discutere il pubblico della platea del Valli di Reggio Emilia. C’è chi lo accoglie e trova un’assonanza in tutto questo, altri si rifiutano a priori. L’impressione è di trovarsi di fronte ad un’attualizzazione, non esente dal rischio di incorrere in una contraddizione tra realizzazione scenica e drammaturgia, che fa dire a Elisabeth commossa dalla gioia: “Te cara sala, saluto di nuovo, e lieta, o stanza amata, asil sicuro…”, mentre alla vista appaiono cataste di libri anneriti dal fumo o bruciati dal fuoco, effetto ancor più realistico quando compaiono delle fiamme, spente da un pompiere entrato in scena con una coperta ignifuga. Rompe in qualche modo l’incantesimo della scena, e disorienta un equilibrio comunque raggiunto fino a quel momento. La lettura complessiva del regista voleva marcare due concetti portanti, come pilastri su cui poggia tutto l’impianto dell’opera: la letteratura come linfa vitale dell’uomo e la necessità per il genere umano di essere guidato da una spiritualità superiore.
Il Langravio per onorare il ritorno di Tannhäuser, propone a tutti i cantori di evocare l’essenza dell’amore, spiegandolo con una canzone. Susciterà scandalo l’affermazione del redivivo nel sostenere la tesi che è solo nel piacere che egli riconosce la vera essenza dell’amore. Lo fa citando ed esaltando Venere alla presenza di Elisabeth. Una provocazione da punire con la morte, ma la magnanimità della Principessa offre a lui l’espiazione attraverso un pellegrinaggio a Roma. La suggestione è portata ai massimi livelli con la scena dei pellegrini che appaiono su un praticabile che rappresenta una zolla di terra arsa, arida, screpolata, dove sono depositate le calzature al fine di intraprendere il lungo cammino a piedi nudi. Il ritorno in patria di Tannhäuser non sortirà una salvezza del corpo e dell’anima. Rifugiatosi da Venere la sua vita giunge alla fine della sua esistenza, subito dopo aver appreso la scomparsa di Elisabetta, a sua volta muore. In questa versione però c’è un messaggio di speranza universale e la scena cui compare una moderna libreria e un bambino intento a scegliere un volume, fa cadere una palla (ancora una volta una sfera simile al pianeta Venus visto al principio), ma la sua attenzione è rivolta alla lettura. La vita rotola via ma resta immortale la conoscenza, il sapere. La letteratura è un bene inviolabile. Il podio diretto da Stefan Anton Reck esprime un ottimo concertato minuzioso, e la sua direzione musicale è segnata da mano sicura e decisa. Gestisce con equilibrio i volumi del suono senza mai sovraccaricarli eccessivamente, favorendo sonorità soffuse e ben calibrate. L’Orchestra del Comunale di Bologna risponde con suono compatto al dettato musicale, così come il Coro istruito con grande cura da Lorenzo Fratini. Il cast nel suo complesso supera la prova, dove Ian Storey nella parte di Tannhäuser presenta qualche difficoltà nel tessuto vocale specie nelle note acute, ma nel complesso la sua prestazione prende consistenza gradualmente dando spessore al ruolo e alla voce. Miranda Keys riveste il ruolo di Elisabeth convincente, dotata di una buona voce e un’emissione di fiati pulita. Martin Gantner è un ottimo Wolfram, suscita approvazione unanime per abilità nel fraseggio e ricchezza di coloriture vocali. La Venus di Elena Forte non dispone di particolari capacità timbriche. Il Langravio di Enzo Capuano è credibile nel complesso. Vivo successo per tutti.
Roberto Rinaldi