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Un taxi sotto il Hijab

Creato il 22 settembre 2015 da Rivista Fralerighe @RivFralerighe

taxi-teheran-italianoNel cinema iraniano, non è raro incontrare il tema del viaggio in automobile, sia a Teheran che nel deserto, con la narrazione basata sul dialogo tra il conducente e i passeggeri che si alternano nel corso del film. Questo espediente è stato usato da Abbas Kiarostami, il più noto regista iraniano contemporaneo, in almeno due film: “Il sapore della ciliegia” e “Dieci”.

Ora, il meccanismo è stato usato anche dal regista Jafar Panahi per la sua ultima fatica: “Taxi Teheran”.

In questo caso, però, non si tratta di un espediente narrativo, ma di una necessità oggettiva: il film è clandestino, e Panahi lo ha girato recitando il ruolo di tassista, riprendendo con una piccola videocamera i dialoghi con i passeggeri di volta in volta trasportati in giro per la capitale iraniana (alcuni pienamente consapevoli di essere parte del film, altri no).

Panahi, infatti, nel 2010 è stato condannato dalla giustizia iraniana alla peggior pena possibile per un artista: oltre a 6 anni di prigione poi condonati, gli è stato comminato il divieto, per 20 anni, di dirigere film, scrivere sceneggiature, uscire dal paese e rilasciare interviste, come riportato dal Guardian.
Ognuna di queste violazioni, teoricamente, gli costerebbe 20 anni di carcere.

La sua colpa?

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Aver realizzato film precedenti che, a giudizio dei censori islamici, danno un’immagine di “sordido realismo” della società iraniana, e – cosa più grave – aver partecipato pubblicamente alle manifestazioni di piazza del 2009, conseguenti alla rielezione del presidente Ahmadinejad, per manifestare il dubbio che i risultati fossero stati manipolati per impedire la vittoria del suo avversario riformista.

Sarebbe capitato probabilmente anche a De Sica, se fosse stato conterraneo e contemporaneo di Panahi: anche “Ladri di biciclette” e “Umberto D” subirono feroci attacchi da parte governativa perché rappresentavano un’Italia reale, ma di cui si sarebbe volentieri nascosta l’immagine: ma per fortuna, a nessuno venne in mente di impedirgli di fare stupendamente il suo mestiere…

In effetti, i film precedenti di Pahani, tra cui “Il cerchio” e “Lo specchio”, svelano la realtà di una società che vive sotto il pesante condizionamento dei precetti religiosi, dopo la Rivoluzione Islamica del 1979. Ed in particolare la condizione della donna, che pur essendo oggettivamente migliore rispetto a quella di molti paese islamici, prevede comunque la costrizione all’invisibilità e la negazione della individualità.

“Taxi Teheran” è indubbiamente un film minimalista, nonché inevitabilmente claustrofobico.

I personaggi agiscono e interagiscono nel ridotto contesto dell’abitacolo, ma riescono a disegnare con ricchezza le complessità e le contraddizioni del paese: il venditore di DVD, l’avvocatessa che solidarizza con le famiglie dei detenuti politici, e la piccola nipote di Panahi sono personaggi reali, che vivono a Teheran e interpretano se stessi – con tutti i rischi connessi alla loro riconoscibilità in un film “illegale”.

Quel che accade nel film può sembrare poco ad uno spettatore drogato dall’azione e da un cinema fortemente assertivo: ma è più che sufficiente per avere un’idea di un paese diviso tra la rigidità khomeinista e le pulsioni che la sterzata islamica della Rivoluzione ha represso, in modo violento, ma non ha cancellato. Secondo Amnesty International, l’Iran ha già eseguito quest’anno oltre 700 condanne a morte, ponendosi tra i campioni di questa sanguinaria classifica, e continua a reprimere ed imprigionare studenti, giornalisti, avvocati ed oppositori per ragioni che ad un osservatore occidentale non possono che apparire assurde e del tutto pretestuose.

Jafar Pahani

Ma l’Iran non è un paese come gli altri – e non è nemmeno un paese arabo, come molti erroneamente pensano.
Ha una storia millenaria che poche altre nazioni al mondo possono vantare. E una tradizione costituzionale e partecipativa che è rara nel contesto islamico: dalla Rivoluzioni del 1979, le elezioni presidenziali e parlamentari si sono sempre svolte con frequenza regolare, anche se talora con forti sospetti di brogli, come accadde nel 2009.

Oltre il 60% della popolazione ha meno di 30 anni: è nato dopo la Rivoluzione, e ha abitudini e aspirazioni simili a quelle di tutti i giovani del mondo – anche se le esercita solo in privato, fuori dalla vista dei barbuti controllori della morale pubblica. Allo stesso tempo, il Paese è alla ricerca di un modello di modernità che non sia un banale appiattimento sui valori occidentali. La maggioranza degli studenti universitari è di sesso femminile: le donne, anche se costrette ad una uniformità che vuole renderle invisibili, non rinunciano a studiare, a diventare imprenditrici, a uscire per la strada, a esistere. Il recente accordo sul nucleare con gli Usa e le grandi potenze occidentali, che sembra scampato ai tentativi di affossarlo da parte dei Repubblicani e delle lobby filoisraeliane, comporterà nei prossimi anni la cessazione delle sanzioni e una inevitabile, naturale “contaminazione” con il resto del mondo: e sarà interessante vedere cosa uscirà da questa apertura, vista la natura orgogliosa e rocciosa della cultura di questo paese.

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Si ricordi ad esempio l’attacco militare che l’Iraq di Saddam Hussein portò, negli anni ’80, ad un Iran che si pensava debilitato dalla recente Rivoluzione del ’79: pur essendo senza alleati – tutti, USA, URSS, potenze europee e regionali, stavano dalla parte dell’aggressore – il paese si unì e resistette, e pur pagando un immenso tributo di sangue, non fu piegato. Anche oggi, nessuna milizia islamica sunnita, come l’ISIS, ha il coraggio di attaccare l’Iran, la cui popolazione è al 90% sciita.

Tornando a Jafar Pahani, ed al suo “Taxi Teheran”, è doveroso ricordare che Pahani è un regista di grande valore. Questo è il suo terzo film girato “clandestinamente” dopo la condanna di cui dicevamo all’inizio: uno dei tre si intitola, ironicamente, “This is not a film”. Sia il suo film di esordio, “Il palloncino bianco”, un delizioso affresco sull’infanzia, sia “Il cerchio”, cupo e angosciante, ritratto realistico e senza commenti della condizione della donna in Iran, sono stati premiati e riconosciuti a livello internazionale: Camera d’oro a Cannes nel 1995, e Leone d’Oro a Venezia nel 2000.
Lo stesso “Taxi Teheran”, portato all’estero in modo clandestino, ha vinto quest’anno l’Orso d’oro al Festival del Cinema di Berlino (ritirato dalla nipote).

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Panahi ha accompagnato il film a Berlino con una bellissima lettera: “Sono un cineasta. Non posso fare altro che realizzare dei film. Il cinema è il mio modo di esprimermi ed è ciò che dà un senso alla mia vita. Niente può impedirmi di fare film e quando mi ritrovo con le spalle al muro, malgrado tutte le costrizioni, l’esigenza di creare si manifesta in modo ancora più pressante. Il cinema in quanto arte è la cosa che più mi interessa. Per questo motivo devo continuare a filmare, a prescindere dalle circostanze, per rispettare quello in cui credo e per sentirmi vivo”. Fonte: Repubblica.

Dopo tutto questo…vi serve ancora qualche altro motivo per correre immediatamente a vederlo, nella vostra città, prima che scompaia dagli schermi?

Marco Zanette



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