di Iannozzi Giuseppe
Trema la terra.
Non me ne accorgo, sono troppo indaffarato per darmi pensiero d’una piccola scossa di terremoto. Tuttavia non posso fare a meno d’alzare lo sguardo dalla scrivania: le donne sbiancano davanti a me, una ragazza è sul punto di svenire. Non capisco perché tanto allarmismo. La poltrona trema sotto al mio culo. E allora? La gente si spaventa troppo facilmente, così penso, e torno a posare l’occhio sulle mie faccende.
Ma non è una scossa sismica quella che ha fatto tremare la mia poltrona d’impiegato fantozziano. E’ qualcosa di ben peggiore. Peccato non averlo capito subito.
Sulla mia scrivania un mucchio di fogli, perlopiù pratiche amministrative da riempire con codicilli timbri e date. Non posso far a meno di sbuffare: a sessanta anni, vicino alla pensione, uno si aspetta di svolgere un lavoro un minimo più interessante. Sia come sia, la mia carriera fantozziana lunga ben quaranta anni l’ho fatta in un ufficio statale. Non mi sono mai sposato, né avrei potuto con lo stupido stipendio che a fine mese mi cacciano in tasca a mo’ di obolo. Una donna ha bisogno di gioielli e d’una macchina appariscente, e non della mia scassata Cinquecento rossa.
Non nego che di soddisfazioni ne ho avute ben poche. Le trombate perlopiù durante la pausa pranzo con una mia collega, non bella ma neanche brutta, insomma quel che si dice ‘un buco caldo dove riposare l’uccello’, e morta lì.
Dunque la mia poltrona, tutt’altro che in pelle umana, trema e trema di brutto. E’ come se il Diavolo in carne e ossa la stesse scuotendo.
In un primo momento non realizzo, penso solamente si tratti d’una banale scossa sismica, però le facce cadaveriche dei miei colleghi, che riesco a intravedere dalla porta aperta del mio ufficio, mi fanno capire che mi sta accadendo qualche cosa di inimmaginabile. D’improvviso un colpo di vento caldo sbatte con ferocia la porta contro il suo stipite. Una zaffata sulfurea mi colpisce le nari stordendomi. Cerco indarno d’alzarmi dalla poltrona. Impossibile, è come se qualcuno avesse stretto le mie caviglie con una doppia morsa. Mi costringo a guardare dabbasso e lo vedo. In un primo momento immagino d’esser vittima d’un’allucinazione, ma così non è: ai miei piedi c’è un orrido nano. Mezzo calvo, labbra sottili e diaboliche, con appiccata sul corpicino una pelle innaturalmente bianca quasi diafana. Il cuore mi perde mezzo colpo: sono di fronte a una creatura vomitata dall’inferno, poco ma sicuro.
A questo punto devo confessare che sin dalla più tenera età sono stato ossessionato dai nani, che ho sempre immaginato essere mostri partoriti dal ventre impuro d’una Persefone cosmica. I nani, nel mio immaginario, hanno sempre ricoperto il ruolo del Male assoluto. L’orrore che provo di fronte a queste creature è forse del tutto illogico? E’ forse un uomo un corpo che è meno della metà giusta? Non è forse un aborto di Materia primordiale? Orrore e solo orrore di fronte a questi mostriciattoli, un orrore cosmico, così profondamente ancestrale che non è possibile ad alcuno descriverlo per quel che è nella sua intera sostanza.
Il nano malefico mi tiene per le caviglie. Le sue minuscole mani contengono una forza che non può che essere infernale. Temo d’esser senza via di scampo, condannato a perire nel mio ufficio fantozziano per colpa d’un nano. Non mi resta che rassegnarmi dunque?
Non so neanch’io come, ma sforzo la mascella e sputo in faccia al demonio che mi vuole con sé. Questi sibila tirando fuori una lingua rossa e biforcuta in tutto e per tutto simile a quella dei serpenti.
“T’illudi, t’illudi… è una vita che lo fai, ma sei infine giunto al capolinea, doveva capitare…”
“Non sarai tu a portarmi all’Inferno”, grido con quanto più fiato ho nei polmoni. “Non tu, Maledetto da Dio.”
“Illuditi, illuditi pure, sarà per l’ultima volta.”
Nelle condizioni in cui ero non potevo ribattere se non digrignando i denti.
“Non invochi Dio, cristianuccio?”
“Perché mai? Io non sono un suo figlio.”
“Un ateo dunque. Ed io perché esisto secondo te?”
Non ho bisogno di pensarci su due volte: “Perché tu esisti da prima che la Materia che è l’Universo… Sei lo spurgo della Materia, un orrore cosmico, quello che i più indicano con un facile nome, il Diavolo.”
Il nano impallidisce, perlomeno è questa la mia impressione: “Anche se così fosse, tu sei destinato a entrare nel mio Inferno.
“Sei un aborto e lo sai bene. Non mi avrai, non tanto facilmente comunque.”
“Sei già mio”, spara lui subìto scoppiando in un cachinno che mi gela l’animo in corpo.
Stringo i denti. Impossibile liberarmi, tiene troppo ben salde le mie caviglie. Ma le mie mani sono libere. No, non ci penso neanche a un corpo a corpo con il nano, avrei di certo la peggio. La mia unica speranza è un’altra. Mi lascio scivolare giù dalla poltrona battendo il culo sul pavimento. Il mostriciattolo mi sorride, convinto che oramai sono suo. Gli rispondo con un sorriso non meno sinistro del suo. Mi curvo verso l’assalitore incontrando il suo mostaccio bianchiccio. Prima che possa intuire le mie intenzioni, gli sputo in faccia giusto per distrarlo. Lo sputo lo colpisce dritto negl’occhi, che chiude per meno d’un secondo, ma quel breve momento m’è sufficiente: con uno sforzo sovrumano mi libero delle scarpe, lasciando i miei piedi nudi proprio sotto il naso del nano.
Il fetore dei piedi scalzi sortisce l’effetto desiderato, il maledetto è infatti costretto ad allentare la presa sulle mie caviglie e tanto basta perché mi liberi riacquistando la posizione eretta. Adesso sono io in posizione di vantaggio. L’orrore si dipinge sul volto bianchiccio di quel fottutissimo. Senza star a pensarci su gli pianto un bel calcio con tutta la pianta del piede proprio in faccia e ce lo lascio stampato.
“Ora, fottuto bastardo che non sei altro, sniffati questo”, bercio con tono di voce che impressiona persino me stesso.
Il nano cerca di liberarsi dal peso del mio piede nudo e puzzolente, ma più lui tenta di arretrare e più io glielo affondo in faccia. Continuo a premere su quell’orrido volto, con divertimento quasi, sino a quando non lo vedo crollare. Ridotto a un aborto larvato il nano par debba tirar le cuoia da un momento all’altro. E’ la mia occasione: gli salto sulla faccia a piè uniti e prendo a ballarci sopra più che mai divertito e diabolico.
All’improvviso la porta che s’era chiusa si spalanca offrendo ai miei colleghi un ben strano spettacolo, io che danzo a piedi scalzi sul pavimento, invasato più d’un satiro, cogl’occhi fuori dalle orbite.
Due colleghi entrano nell’ufficio e senza mezzi termini mi bloccano.
Un’impiegata grida che sono ‘pazzo’, che c’è bisogno di portarmi in ospedale senza perder tempo.
Quando riapro gl’occhi sono in un letto d’ospedale con una flebo attaccata al braccio sinistro, probabilmente un sedativo.
Su una sedia sgarrupata – come sono poi quelle di tutti gl’ospedali pubblici – siede visibilmente turbato il mio capoufficio. Senza mezzi termini né tatto alcuno mi fa capire che la mia carriera è finita, che sarei andato in pensionamento anticipato perché è fin troppo evidente che le mie turbe psichiche sono tali da rendere inutile il continuare a spremermi. Gli regalo il mio sorriso più splendido senza nulla ribattere. Lui se ne va sbattendo la porta, lasciandomi finalmente in pace, libero. Tutt’a un tratto mi sento più giovane di venti anni almeno.
N.B.: Questo è un racconto inedito al 10o%.
Racconti di Giganti e Nani
di Iannozzi Giuseppe
209 pp – collezione privata – 16,62 euro
Racconti di Giganti e Nani: nani malefici e giganti pusillanimi, che possono essere gay, trans, escort, prostitute e prostituti, fondamentalisti, politici, assassini, dongiovanni, fascisti, stalinisti, censori, inquisitori, stregoni, editorialisti e giornalisti, scrittori, portaborse, diavoli, madonne. Un ritratto grottesco eppur veritiero dell’Italia di oggi.