Scrive Miriam Toews, in Un tipo a posto, edito dalla Marcos y Marcos, e di cui ho già parlato qui:
«Devi imparare a fare il budino. Sulla scatola c’è scritto che devi mescolare di continuo, di continuo, e ci vogliono almeno venti o trenta minuti prima che prenda il bollore. Così se S.F. ti scoccia, sai, a forza di chiederti di far questo e quello, tu dille, Spiacente signora, lo vuole il budino o no? Non posso abbandonare questo budino nemmeno per un secondo».
«Davvero?» disse Knute.
«Certo» disse Marilyn «funziona. Io faccio tonnellate di budino, e mentre mescolo, leggo. Libri sottili, leggeri, dato che li devi tenere con una mano sola. Josh non ci può fare niente, anzi la cosa in realtà lo diverte e io posso tirare il fiato per un po’. Che si scateni pure l’inferno intorno a me. Chi se ne frega, sto facendo il budino».
Ovviamente, appena ho letto queste parole, mi è venuta una voglia matta di fare il budino. Di leggere mentre lo facevo (con un ereader è molto più facile che con libri sottili), di mescolare, mescolare, mescolare e di fregarmene dell’inferno intorno a me. Non che ci sia un inferno intorno a me, ma è per rendere l’idea.
Poi però non l’ho fatto subito quel budino. O almeno non l’ho fatto fino a quando non ho avuto un’occasione speciale: fare, appunto, tonnellate di budino. E ho scoperto, ma credo che questo sia alla base del fare i dolci o di cucinare in generale, che non c’è veramente niente di meglio che fare il budino (e quindi di mescolare e mescolare fino a fregarsene dell’inferno che si scatena intorno a te) che farlo per qualcuno.
Perché se poi hai fatto tonnellate di budino e non c’è nessuno a cui offrirlo la fatica, l’adrenalina, il piacere restano fini a se stessi. Ed è dannatamente triste.
E se, parlando del torrone, l’ultima volta vi ho raccontato qualcosa della mia famiglia, pensando al budino mi viene in mente un’altra famiglia. Quella che mi sono costruita negli ultimi tempi, quella che certe volte mi sorprendo io stessa a considerare tale. Quella formata dalle persone che ti scelgono e che scegli. E non da quelle che ti trovi, volente o nolente, nell’albero genealogico.
Quindi, mentre pesavo il burro, e lo scioglievo nel pentolino a fuoco lento e cominciavo ad assaporarne il profumo (a me il profumo del burro che si scioglie mi fa venire la pelle d’oca, non so voi); mentre univo lo zucchero; tritavo il cioccolato con un coltello, attenta a non tagliarmi, cosa che mi riesce molto facilmente, avevo ben in mente i volti delle persone alle quali mi sarebbe piaciuto offrire quel budino. Non a tutti, impossibile. Ma già immaginare i miei amici assaggiare qualcosa fatto da me mi ha riempito di una strana euforia.
Ho unito il cioccolato, la farina e poi il latte bollente e ho continuato a mescolare, pensando ai sorrisi di quelle persone.
Loro mi ascoltano parlare a voce alta e gesticolare eccessivamente e ridono anche tanto di quello che dico. Mi fermano se vedo che mi sto agitando troppo, perché lo sanno che finisco sempre col rompere o versare qualcosa. E ridono con sincerità. E io, che credo di non essere mai stata una persona divertente, coinvolgente, attraente, mi sento sopraffatta, tutte le volte.
Sopraffatta è la mia parola amica di questi giorni. E infatti sono stata sopraffatta anche dal budino. Mescolavo e mescolavo e pensavo a questo. Alle loro facce sorprese, tristi, divertite. Al loro lampo negli occhi quando ho detto alcune cose. Al loro dispiacere. Al loro essere contenti per me.
Ho delle amicizie preziosissime. Persone che mi conoscono da sempre, che mi hanno vista quando piangevo per ogni singola pagliuzza che mi sfiorava il cuore. Poi ho delle amicizie che mi sono costruita negli anni in cui sono andata via da casa. Loro mi guardano negli occhi e si connettono con me. Anche se non ci parliamo per mesi. Sono poche, le conto su una mano. Non mi perderanno mai. A loro offrirò qualche altro dolce, forse in un altro post.
Questo mio budino in particolare è per quelli che mi stanno accompagnando ora, in questo periodo della mia vita.
E quindi ho mescolato e mescolato e l’odore del cioccolato ha invaso tutta la casa, insieme a quello del burro (se non avete mai mescolato burro e cioccolato dovete farlo; anche solo per godere di questo piacere olfattivo che è quasi un’esperienza trascendentale), ho messo giù l’ereader, perché troppe cose insieme non si possono fare, e ho continuato a mescolare e a pensare. Ho preparato gli stampi, ho versato dentro il composto e l’ho messo a raffreddare, pregustando il risultato finale, la compattezza morbida e soda tipica di questo dolce. E pensavo a loro.
‘Famiglianza’. Non esiste. È anche un po’ brutto.
Ma è quello che siamo. Noi, lontani dalle nostre case, dalle nostre famiglie, tutte le volte ci riuniamo, ci guardiamo e ci accettiamo. E, anche se ci conosciamo da poco, anche se non parliamo di tutto, anche se passiamo l’80% delle serate a insultarci, costruiamo un’armonia nuova, diversa, viva. Anche se sembriamo una barzelletta passata di moda, di quelle che iniziano con “c’era un napoletano, un veneziano e un pugliese”…
Non è il tempo che passiamo insieme a fare la differenza, è l’intensità.
Siamo come il budino che ho offerto e che ho fatto per loro. Compatti, ma morbidi. E ci abbracciamo sempre con occhi luccicanti. Siamo pieni di tuffi al cuore e tenerezza. Contenti di conoscerci ogni volta sempre un po’ meglio. E, anche se so che non è politicamente corretto quello che sto per scrivere, saranno le persone che mi mancheranno di più se e quando dovrò andarmene via. Perché della presenza fisica di tutte le altre persone che amo ho imparato a fare a meno anni fa, il cuore poi si abitua.
Ho scritto, nella mia recensione su Un tipo a posto della Toews, che i suoi romanzi sono come una coperta che ci mettiamo sulle ginocchia nei pomeriggi d’inverno. E allo stesso modo queste persone che fanno parte della ‘famiglianza’ sono una coperta nella quale mi avvolgo mentre mangio un’abbondante porzione di budino al cioccolato.
Offrire loro questo budino, tonnellate di budino, è stato un piacere. Lo rifarei ancora e ancora. Chi lo ha mangiato sul serio ne ha meritato ogni cucchiaio. E, beh, spero che chi non ha potuto mangiarlo, attraverso questo post, riesca almeno a sentirne il profumo.