di Matteo Zola
Van Gogh e i Rom
Parlare di Rom è sempre difficile. Anzitutto perché stanno antipatici a tutti, e quindi parlarne in modo positivo può essere controproducente per chi cerca di catturare le simpatie dei lettori. Ma va beh, possiamo anche fregarcene di questo. C’è poi un secondo problema: salvo essere dei buonisti è arduo negare le problematiche connesse alla presenza delle comunità Rom nelle nostre società. Quindi, non neghiamole. Infine il vero casino è dirne qualcosa di “vero”, qualcosa che non scada nello stereotipo romantico o criminale. E per farlo bisogna conoscerne la cultura, e non è cosa facile: da secoli i filologi e gli storici si arrovellano in merito. Eppure, visto che l’otto aprile scorso è stata la Giornata internazionale dei Rom e visto che East Journal scrive di minoranze, qualcosa lo vorrei dire. Perdonate se sarà banale.
Mi sono sempre considerato uno di quelli col prefisso liber-. Liberale, libertario, libertino. Ho sempre dato mostra di facile tolleranza. Ho sempre avuto in astio coloro che profittano dei più deboli (fisicamente come economicamente) e che antepongono il benessere personale a quello collettivo. Un misto tra Robin Hood e Suor Germana, una maschera posticcia politicamente corretta. Avevo un solo, segretissimo, neo. I Rom proprio non li sopportavo. Se erano dal mio lato del marciapiede, attraversavo. Se li avevo accanto al banco del mercato, cambiavo banco. In autobus non mi sedevo dove si erano seduti loro. Non capivo i loro cenci sgargianti e luridi. Non capivo il loro ciondolare sudato. Non capivo quel loro vivere nella monezza e – lo ammetto – a volte li associavo ai topi. Quando me ne sono reso conto ho posato la calzamaglia e il libro di ricette.
Ci ho messo anni, tanto è durata la messinscena del buon cittadino, a capire che ero razzista. Il termine più appropriato, però, è xenofobo, letteralmente “chi ha paura del diverso”. La paura mi fa paura. Motivo per cui il mio primo istinto è stato quello di recuperare la calzamaglia da dove l’avevo lasciata. La paura in genere mi fa sentire in catene, come un schiavo, un mancipio (dicevano i latini) che ha solo due possibilità: morire in ceppi o romperli. Emanciparsi, appunto. L’occasione è venuta con i primi viaggi a est. “Bei posti – mi diceva chi c’era stato prima di me – peccato che è pieno di zingari”. Oppure: “Ho visto i loro villaggi, le case con i tetti d’oro, enormi”. Oppure: “Hanno grandi roulotte, costeranno un milione di euro”. Cose così. Sarò stato sfigato io, ma ho trovato solo baracche di lamiera, povertà ed emarginazione. Primi dubbi.
Tempo dopo, per lavoro, sono entrato in un campo abusivo. Baraccopoli di immondizia, neonati avvoltolati in abitini di lana anche nella torride estate della lamiera, recinti per separarsi gli uni con gli altri. Ho incontrato Jovan. Stava in una roulotte a margine del campo, un rifugio appena decente. Sopra al tetto una parabola e fuori, parcheggiata, la sua Mercedes classe E. Jovan è il fratello di Gojko, in carcere, un assassino. “Uno che con l’accetta piantata in testa menava ancora”, come ebbe a dirmi il mio Virgilio. E davvero quel campo, enorme, era un inferno di odori, cloache a cielo aperto, mosche ed eternit. Una merda. Il posto più brutto che avessi mai visto. Un filo spinato separava il campo abusivo dalla “fossa”. Così mi disse Virgilio: “un posto dove nemmeno io entro mai, dove se vai da solo non esci vivo”. Intorno tutto era placido, silenzioso, assolato. Le porte di Dite sono così, dunque. Una torre di fumo si alzava poco lontano, dalla fossa: “rubano il ferro, anche dai binari, e lo rifondono. Lo bruciano per togliere i residui di gomma o altri materiali. Quel fumo è altamente tossico”. Andando via incontrai una donna, che Virgilio salutò. “Lavora come assistente famigliare. Manda i bambini a scuola. Quando possiamo, la aiutiamo”. E il cuore tenero non è una dote di cui sian colmi gli uomini in divisa. Accanto alla sua roulotte una ruota di carro appoggiata, di quelle che si trovano oggi nelle cascine imborghesite tra i fiori. Era lì, pure tra i fiori, di campo. “La ruota è il loro simbolo” mi disse. E tra me pensai a quella gente in fuga, un errore del Dio che dimenticò di dar loro una terra? Errore deriva da errare, ricordai d’aver letto in qualche libro. E chi non erra non migliora, resta sempre uguale. “Bah, puttanate da baci perugina”, e andai oltre.
Tempo dopo mi recai in un altro campo, questa volta autorizzato. Casette ordinate. Ognuna con davanti una piccola roulotte. Ogni roulotte aveva una parabola e una tenda di plastica grigia di fonte all’ingresso. Intorno al campo un’alta ringhiera di ferro. Per proteggere noi da loro. O loro da noi? Per entrare dovetti parlamentare col capo. Un tizio baffuto. Il biglietto d’ingresso fu una sigaretta. Immondizia, poca. Ma sembrava un lager. Mi venne in mente che, anche se non se ne parla mai, gli zingari finirono nei lager nazisti tanto quanto gli ebrei. Per loro però non ci sono giorni della memoria. Non hanno filosofi, non hanno artisti, non hanno scrittori. Non hanno registi.
E invece mi sbagliavo. Conobbi Laura, regista Rom, giovanissima. Aveva fatto un film sulla sua famiglia, citando Woody Allen. La incontrai a una festa Rom. Ormai avevo lasciato alle spalle l’inferno e il mio Virgilio in divisa, il baffuto capo campo del purgatorio recintato, e avevo di fronte una nuova Beatrice a mostrarmi, con la celluloide, che la loro vita paradiso non è ma inferno nemmeno. L’unico inferno è la paura. Capii che hanno paura di noi. Come io l’avevo di loro. Hanno paura delle nostre leggi, dei nostri sgomberi, delle nostre ritorsioni. Non si ribelleranno mai, i Rom, né rivendicheranno diritti. Hanno una paura vecchia di secoli intessuta sotto la pelle. Basti pensare che sono l’unico popolo a non aver mai fatto una guerra. Certo, ci sono i criminali e ci sono i ladri. Ma mettiamo da parte questa scusa dietro cui nascondiamo la nostra paura. Guardiamo un attimo più un là. Nella loro paura ho trovato specchiata la mia. Che infatti mi è passata all’istante.
Nel dicembre scorso una ragazzina della mia città per non confessare ai genitori di aver consumato un rapporto sessuale con il suo fidanzatino affermò di esser stata stuprata da due Rom. Il quartiere si incendiò di rabbia e il fuoco bruciò il campo vicino. Era tutto falso. Nella mia città una ragazzina ha trovato moralmente (e socialmente) più conveniente lo stupro al sesso. Mi sono chiesto: “Questa è la nostra morale pubblica?”. Discorsi troppo grandi per uno che ora è meglio se sta zitto. Se non va più in giro dicendosi liberqualcosa. Uno come gli altri, né meglio né peggio. Uno che, qualche anno prima, sarebbe stato in grado di bruciare un campo Rom?