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Una classe che ha tanto da insegnare

Da Fishcanfly @marcodecave

di Marco Cardilli

Spesso, in varie occasioni (dibattiti, incontri, discussioni) ho sentito tirare in ballo la questione relativa alla crisi del nostro cinema: Il cinema è morto? È vivo? Esiste? Non esiste? È semplicemente cambiato? È poco considerato/compreso? ecc…

 Sicuramente il cinema negli anni è cambiato (come cambia un po’ tutto) e sicuramente ci troviamo di fronte ad un periodo non particolarmente florido e glorioso dal punto di vista produttivo-quantitativo. quanti film si fanno in Italia all’anno? altra domanda ricorrente.

Non voglio ora addentrarmi in questioni simili, ma soltanto dire che se è vero che esiste una crisi del settore cinema, questa esiste come “crisi di sistema” e non come crisi di idee e talenti e che questa “crisi di sistema” si inserisce dentro una crisi culturale più generale, ampia, che riguarda tutti gli strati della società. Questa “crisi di sistema” di cui parlo manifesta innanzitutto alcune caratteristiche: mancanza di produttori colti, coraggiosi e appassionati, capaci di investire risorse su progetti meritevoli/validi culturalmente; mancanza di distributori capaci di dare visibilità a queste opere (oltre a quelle importanti per gli incassi); mancanza di un pubblico attento, ricettivo, interessato e quindi in grado di stimolare positivamente i primi due fattori.

Malgrado la crisi di sistema e la situazione poco felice che questa genera, credo di poter dire che artisticamente il cinema italiano non solo è vivo, ma gode di ottima salute. Ne è la prova l’ultimo bel film appena visto: “La mia classe” di Daniele Gaglianone.

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È un film girato con pochissime risorse economiche, che ha molto faticato a trovare un distributore (ad arrivare in sala), ma capace di superare gli ostacoli con l’inventiva, la potenza della narrazione, la capacità di raccontare con il mezzo cinematografico. È un film che trova forza e senso anche rischiando il confronto con un’opera insuperata come “Diario di un maestro” e che ha il coraggio di avventurarsi in sperimentazioni formali/linguistiche insidiose mescolando la “documentazione” (che non è presa diretta-intendiamoci-ma racconto del reale) con l’invenzione letteraria, da sceneggiatura classica.

Infatti tutta la materia che Gaglianone raccoglie nel film è come sublimata da una bella ed onesta contraddizione di fondo. E questa contraddizione permea tutta l’opera manifestandosi un po’ in tutti gli aspetti del film, dal linguaggio all’utilizzo degli attori (un po’ se stessi, un po’ personaggi), passando per le intenzioni dell’autore (messe in scena dallo svelamento del set, dalla “rottura della quarta parete”-si direbbe per il teatro).

Pensiamo al personaggio dell’insegnate: un po’ maestro e un po’ Mastandrea che vuole aiutare, ma allo stesso tempo non può salvare i suoi allievi (il monologo finale ne è il testamento); pensiamo al regista che vuole raccontare/denunciare le difficoltà, le tragedie e i disagi di chi vive l’immigrazione, ma allo stesso tempo non può neanche garantire il permesso di soggiorno ai suoi “attori”; pensiamo al linguaggio usato, il racconto documentaristico fatto di volti veri, di espressioni intense (magari un po’ fuori fuoco, in un angoletto dell’inquadratura), di racconti spontanei (colti con grande sapienza) e allo stesso tempo la voglia di andare oltre, di raccontare altro, scrivendo, inventando una scena. Quest’ultima operazione, molto rischiosa, riesce però pienamente, secondo me, grazie all’onestà intellettuale e all’originalità stilistica di Gaglianone.

Tutto il film è vissuto come una gioiosa e catartica esperienza di gruppo, un canto corale, orchestrato armoniosamente da una regia asciutta, netta, presente quanto basta e da un montaggio serrato.

È un film che strappa molte risate, specialmente nella parte iniziale, ma anche molte lacrime e che pone allo spettatore tante domande, tante questioni sulle quali riflettere.

La mia classe”, come la classe di Vittorio De Seta nel “Diario di un maestro” e quella di Don Milani nella “Lettera ad una professoressa”, è una classe di ultimi che si aiutano l’un l’altro anziché competere tra loro, è una classe bellissima e difficile che ha bisogno di imparare, ma che ha anche molto, moltissimo da insegnare.

Concludo: oggi si producono molti documentari, forse troppi, ma con questo genere cinematografico (ancora poco compreso ed apprezzato) si confrontano con ottimi risultati diversi giovani e non-giovani autori, dando prova di sorprendente capacità analitica, narrativa, poetica.

É anche in questa direzione che bisogna guardare per vedere dov’è il nostro cinema di oggi e dove sarà quello di domani.



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