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Una cosa piccola ma buona

Creato il 22 luglio 2013 da Annerrima

«Probabilmente avete bisogno di mangiare qualcosa» disse il pasticcere. «Spero vogliate assaggiare alcune delle mie paste calde. Dovete mangiare per andare avanti. Mangiare è una cosa piccola ma buona in un momento come questo».

Servì loro delle paste alla cannella appena sfornate, con la glassa ancora morbida. Mise del burro sul tavolo e dei coltelli per spalmarlo. Poi anche il pasticcere si sedette al tavolo con loro. Rimasero in attesa. In attesa che loro prendessero una pasta dal vassoio e cominciassero a mangiare: «Fa bene mangiare qualcosa» disse, osservandoli. «Ce ne sono altre. Mangiatene. Mangiate tutte quelle che volete. Qui ci sono tutte le paste del mondo».

Mangiarono le paste e sorseggiarono il caffè. Ann sentì all’improvviso una gran fame e le paste erano calde e dolci. Ne mangiò tre, cosa che fece molto piacere al pasticcere. Poi lui si mise a parlare. Loro lo stettero ad ascoltare con attenzione. Anche se erano esausti e angosciati, ascoltarono quello che il pasticcere aveva da dire. Annuirono quando l’uomo cominciò a parlare della solitudine e del senso di dubbio e limitatezza che l’aveva assalito con la mezz’età. Disse che cosa si provava a non avere figli per tutti questi anni. Giorno dopo giorno a riempire i forni senza posa, e poi ogni volta a svuotarli. Le ordinazioni per le feste e gli anniversari su cui aveva lavorato. A centinaia, anzi a migliaia, ormai. Tutti i compleanni. Immaginate tutte quelle candeline accese. Il suo era un mestiere di cui c’era bisogno. Era un pasticcere. Meno male che non era un fioraio. Dar da mangiare alla gente era meglio. L’odore del forno era sempre meglio di quello dei fiori.

(Raymond Carver, Una cosa piccola ma buona, racconto contenuto in Cattedrale, traduzione di Riccardo Duranti, BEAT, Roma 2010).

Punto 9. Le amicizie di uno scrittore devono essere improntate alla fuga dalla letteratura. Uno scrittore che frequenta altri scrittori è uno scrittore mediocre o finito. I tuoi amici siano operai, tecnici, meccanici, papponi, clown, ma non gente del mondo editoriale.

(Cosimo Argentina, L’arte della guerra di carta e inchiostro, in minima&moralia – un blog culturale di minimum fax)

Raymond Carver l’ho conosciuto, come scrittore, per vie non canoniche. La mia prima lettura di un suo libro è stato Cattedrali, con all’interno il suo racconto Cattedrale, contenuto nell’omonimo volume di cui c’è sopra l’estratto, e testimonianze, fotografie, appunti, tutti messi assieme da Tess Gallagher, la sua compagna di vita (a cura di Barbara Pezzopane e Gianluca Bassi, Leconte Editore, Roma 2002). Non ricordavo, chissà perché – forse per immaturità mia letteraria, forse perché esiste davvero un tempo per ogni lettura – quel racconto che chiude la raccolta. Oggi, dopo un fine settimana passato a Ivrea, in un festival di letteratura organizzato da minimum fax, La grande invasione, ho recuperato finalmente la raccolta intera, edito proprio da mimimum fax nel 2002 e poi ripubblicato nel 2010 da BEAT. (E voi potete leggere quel racconto scaricandolo qui).

Non è uno strillo giornalistico esagerato quello di Salman Rushdie in copertina: «Leggetelo. Leggete ogni cosa che Carver ha scritto». Ogni scrittore, o aspirante tale, dovrebbe leggere questo libro. Perché Carver è magistrale nel dar voce ai personaggi, assumendo di volta in volta volti differenti. Portando in ogni racconto il lettore dalla parte del protagonista di turno. Facendo trapelare i pensieri e i sentimenti dei protagonisti senza mai parlare di altro che non sia il concreto e il quotidiano. Lasciando intuire che, prima che uno scrittore rinchiuso nel proprio studio a scrivere, o nei cosiddetti “cenacoli letterari”, Carver fosse un uomo che parlava con tutti, un vero e proprio “reporter dell’umanità”. Il pasticcere, la cameriera, la badante, la parrucchiera. Carver ne acquisisce il linguaggio, che talvolta è volutamente “povero”, ripetitivo.

Le storie, loro, restano sospese, in un limbo che sta al lettore riempire, come se quei personaggi continuassero davvero a esistere fuori dalle pagine, nella testa di chi le ha scritte e e di chi le legge.


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