Lo chiamavano Andersen, per come sapeva raccontare le favole.
L’avrebbe capito chiunque che erano tutte stronzate, ma fino a quel momento aveva avuto a che fare con decerebrate affamate di notorietà e quindi aveva potuto raccontare loro tutto quello che voleva.
Aiutato in questo dal nome sulla targa dell’ufficio e dall’insegna della grande casa editrice all’ingresso del palazzo.
Perché lui era quello che sceglieva i libri, diceva alle aspiranti scrittrici. Che con i colleghi, davanti alla macchinetta del caffè chiamava ridendo “scrittrici aspiranti”
Finirono a cena in un ristorante di lusso, dove lei non sarebbe mai andata, ma fra le cose alle quali ancora credeva c’era anche che la cena la paga l’uomo.
E non sapeva che questo succede, rare volte, solo se gliela dai.
Con la scusa di andare al bagno Andersen, una volta capita l’antifona, se ne usci zitto zitto, lasciandole il conto da pagare
Fortunatamente, seguendo almeno uno dei consigli di sua madre, lei non usciva mai senza soldi e poté pagare, anche se rimase completamente a secco. Il cameriere non le concesse più di una telefonata, al 113, visto che non aveva lasciato la mancia.
“Sei imprudente, ragazza mia, anzi diciamo che sei proprio scema.” Disse l’ispettore di polizia nell’auto che la riportava a casa. Poi si accorse che stava per piangere e cambiò tono.
“Se ti va un caffè, là c’è un bar ancora aperto, è pieno di gente strana, leggono libri pensa un po’. Ma il caffè lo fanno buono, offro io.” Aggiunse poi, parcheggiando nel posto riservato agli invalidi.
Francesco Pomponio