In anteprima per “In parole semplici” un estratto dal mio diario di viaggio..
Città del Messico è uno dei pochi agenti che riesce a farmi saltare dal letto alle sette del mattino, insieme a dissenteria e concerti rock in destinazioni astruse. La metro di questa enorme cittadina è tra le più colorate che abbia mai visto, anche se molto anni cinquanta come comfort. Fermata Zocàlo. Plaza de la Constituciòn è la prima attrazione che mi si para davanti, affollata com’è di banchetti e accampamenti di oppositori di Calderòn. La pavimentazione, molto singolare, è adornata da una lunga striscia rossa contrastata dal bianco di tante impronte di mani, coronata dalla scritta “Si Egipto pudo ¿por que Mexico no?”. Attraversata questa immensa piazza, ed aggirata la Catedral Metropolitana, si arriva al Templo Mayor, uno dei principali monumenti risalente alla civiltà azteca. Il giro turistico parte dal sito archeologico, per lo più fatto di rovine che permettono di farsi un’idea sulla collocazione spaziale del tempio. L’audio-guida, incurante dell’età dell’ascoltatore, narra la storia dei vari altari, sui quali veniva strappato il cuore dei prigionieri e consacrato il sangue al dio sole, affinché portasse vento e pioggia. Non mancano descrizioni di riti privati, in cui si praticava l’autoflagellazione e, per i guerrieri più impavidi, il martoriamento dei genitali (e non in senso figurato). I conquistadores spagnoli hanno provveduto a smantellare, per quanto possibile, questa imponente costruzione che, anche ridotta in rovine, rimane di gran lunga più affascinante della concorrente e più recente Catedral Metropolitana (no, nuovo non è sempre meglio). Tutti gli oggetti, le statue, i dettagli sono invece custoditi nel Museo interno. Sarebbe stato un crimine contro la storia non visitarlo. Una volta terminato il tour interno, eccoci di nuovo in strada, dove un gruppo folkloristico di uomini e donne in costumi aztechi animavano uno scorcio di piazza con una coinvolgente danza tradizionale.
Per poter ammirare gli eccentrici murales di Diego Rivera, in particolare quelli impressi sulle pareti del Palacio Nacional, è necessario superare una sorta di dogana interna, presidiata da militari muniti di mitra e muso duro, che controllano che nessuno stazioni per più di qualche minuto nello stesso punto. Un anziano signore, avvicinatosi per offrirci i suoi saperi sulla storia del palazzo, si congeda dicendo “Bienvenidos in nuestra casa”. Inutile tentare di descrivere ciò che le immagini raffigurate enarrano alla perfezione, pezzi di storia di un popolo, prima ancora che di un paese e di una nazione. Nel 2010 il Messico ha festeggiato i duecento anni di indipendenza dal dominio spagnolo, e il Palacio Nacional ha ospitato un’innumerevole quantità di cittadini messicani venuti a festeggiare la ricorrenza. Nulla a che vedere con il centocinquantenario della nostra unità. In questo luogo si ricorda con orgoglio la lotta, la rivoluzione, le idee diventate i pilastri della nazione. Tutto questo è motivo di unione, non come nel nostro vecchio e stanco paese. Sono rimasto affascinato, probabilmente per deformazione professionale, dal lungo corridoio con esposti i ritratti di tutti i presidenti messicani. Vederli così, uno accanto all’altro, trasmette quasi un ingannevole senso di continuità.
Siamo entrati nel palazzo alle nove circa, dopo due ore la megalopoli da più di venti milioni di abitanti si era finalmente svegliata, e le strade, in particolare quelle del Centro Historico, erano diventate pressoché impercorribili. Oserei dire che persino respirare, in mezzo a tutta quella gente, era impresa assai ardua. Ma la città è grande, e non c’è un minuto da perdere. Dopo aver ammirato le opere di Rivera, può mancare una visita al museo di Frida Kahlo? No, direi proprio di no. Ci sono due musei in città che espongono le sue opere, e per chi conosce la storia della sua vita sarà facile immaginare il perché. Uno è naturalmente allestito nella casa che Diego e Frida hanno diviso per parte della loro storia. Divisi, appunto. Due edifici indipendenti, uno per ciascuno, collegati unicamente da un piccolo ponte. L’altro è la Casa Azul, dimora d’infanzia della pittrice, che l’ha vista costretta a letto dopo un grave incidente, ed ha ospitato il dissidente russo Trockji, durante parte del suo esilio messicano dopo essere stato condannato a morte dal regime di Stalin. In questa casa i due amanti si sono ritrovati infine, dopo le tante rotture, di nuovo insieme, fino alla morte di Frida. Noi abbiamo optato per quest’ultimo. Le opere esposte non erano molte, alcune mai terminate, la maggior parte dipinte in gioventù, solo poche più recenti. Ma in compenso c’è molta storia tra quelle mura, in quel giardino, foto, utensili, il suo letto a baldacchino, scritte sui muri, riferimenti al comunismo, al porfiliato, pareti esterne dipinte di blu, la fontana, una piccola piramide in stile azteco, le marionette, i pupazzi appesi. Difficile rimanere insoddisfatti, sconto universitari all’ingresso e una bella camminata che ora, disteso sul letto, si sente tutta, ve lo assicuro. Immagini a random della giornata nella mia testa non facilitano il riposo, ma ne è valso tutto quanto è stato speso per viverla, e sono maledettamente contento. Ora cena e poi suicidio fisico e morte cerebrale autoindotta, tra poche ore, troppo poche, decollo per Baja California.
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