Una storia dentro la Storia (di Ceneredirose)
Ci vuole maestria a raccontare le cronache di una guerra, con le sue atrocità sul campo e le brutture degli intrighi politici che ci stanno dietro, attraverso la vita di una donna e la sua passione per la cucina.
Almudena Grandes* ci riesce quasi perfettamente, da grandissima scrittrice qual è. Quasi, perché, a mio parere, l’unico limite di Inès e l’allegria è il dare per scontato che i lettori conoscano i protagonisti della storia spagnola dal 1936 fino alla morte di Francisco Franco.
Ecco perché, all’inizio, questo straordinario romanzo mi ha spiazzato un bel po’: troppi personaggi che non riuscivo a collocare, non sapendo quali fossero realmente esistiti e quali frutto della sua fantasia.
Quando la nebbia si è dissolta, a poco a poco, tornando indietro a rileggere parti che mi erano rimaste oscure, ho potuto invece apprezzare la grande bravura dell’autrice nel dipanare una storia (inventata), quella di Inés, del suo compagno Galan e di un gruppo di soldati dell’esercito dell’Age (Agrupaciones de Guerrilleros Espanoles), nella Storia (vera) di un tentativo di occupazione degli stessi della Val d’Aran in Catalogna, con l’obiettivo di rovesciare il regime di Francisco Franco, vincitore della guerra civile spagnola.
“La Storia immortale crea strani effetti quando s’intreccia con l’amore dei corpi mortali, ma al di là dell’immutabile, fortuito miracolo operato dall’incrocio di due sguardi, noi esseri umani siamo tempo, storia con la s minuscola.”
Questa la sintesi, perfetta, del senso di questo immenso romanzo. Troppo lungo (754 pagine), troppo complesso, troppo circostanziato per cercare di descriverlo in poche righe.
Mentre lo leggevo, la scrittrice in cucina che è in me registrava frasi e brani da citare. Ce ne sarebbero veramente un’infinità, ma vorrei regalarvi quello che mi è rimasto più impresso.
“Il Cabrero era il penultimo figlio del minore di otto fratelli, e sua nonna era ormai vecchia quando lui aveva cominciato ad andare a casa sua tutte le mattine, per radunare le capre che poi riportava all’ovile al crepuscolo. Lei lo ricompensava con un premio speciale, che, allo stesso tempo, era il loro segreto. Poco prima che lui tornasse con il gregge, andava nell’orto, sceglieva un certo numero di foglie di limone, tutte tenere, piccole, della stessa misura, e si chiudeva in cucina a preparare i paparajotes, un dolce povero, anche se laborioso, difficile da cucinare, perché non è facile impanare le foglie di limone e neanche friggerle senza rompere la crosticina dorata, croccante, che viene cosparsa di zucchero quando è ancora calda. La nonna del Cabrero, però, era una maestra e ogni sera faceva per il nipote dei paparajotes deliziosi, perché sapeva che lui ne andava matto, anche se non avrebbe mai immaginato, vedendola così vecchia e curva, che salisse su una scala per raggiungere i rami più alti e poi s’affannasse in cucina, lui pensava sempre la stessa cosa, poverina, con tutti gli anni che ha si sobbarca tutta questa fatica per poi non assaggiarne neanche una, di queste frittelle…Finché una sera, i paparajotes cominciarono a lasciargli l’amaro in bocca e si azzardò a chiede, ma nonna, non ti stanchi? E invece di rispondergli si, o di tacere, lei lo guardò, si mise a ridere e gli fece un’altra domanda. Tu non ti stanchi a venire a prendere le capre? Bé, neanch’io, e sai perché? Perché ti voglio bene. Se non ti volessi bene, i paparajotes mi verrebbero talmente cattivi che mi chiederesti pane e lardo per merenda.”
A presto,
Ceneredirose
* Almudena Grandes su aNobii (N.d.R.)