Magazine Attualità

Una lettura laica della Bibbia

Creato il 12 maggio 2013 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

558px-Luther46cdi Roberto Renzetti.

La Genesi e L’Esodo (con cenni ad altri Libri)

Parlo della Bibbia, della più angosciosa lettura si possa fare. Per farlo mi rifaccio completamente al testo stupendo di Mario Alighiero Manacorda, Lettura laica della Bibbia , Editori Riuniti, 1989.
Tra tante cose di sicuro interesse storico e bellezza letteraria, la Bibbia è un continuo ed ossessivo racconto di violenze, incesti, inganni, anatemi e stermini, quanti non se ne trovano per densità in nessuna altra letteratura del mondo. Ma ciò che è agghiacciante è che tutta questa serie di sadiche invenzioni o realtà è attribuita in toto al buon dio, dando così a vedere che questo dio è proprio pensato ad immagine e somiglianza dell’uomo.
Bibbia significa “i libri”, la biblioteca, la raccolta dei testi che gli ebrei ritennero di dover salvare. Questi libri furono messi insieme in gran parte dai “preti leviti” durante la cosiddetta ‘cattività babilonese’ in Mesopotamia (prima nel 721 a. C. quindi dal 587 al 539 a. C.).
In quello che dirò io non intendo rispettare le idee degli altri quando sono immeritevoli di rispetto; ma rispettare gli altri. E gli altri, se vogliono che io rispetti le loro idee, adottino idee rispettabili: è l’unico modo per non dare scandalo. Ogni persona religiosa, quand’anche sia tollerante, non può non parlarti pensando di farlo in nome di Dio. E questo è segno del più profondo disprezzo verso l’interlocutore: è il vero peccato contro lo spirito dell’uomo (l’unico che conosco). Queste non sono idee rispettabili.
Sfido anche le sciocche minacce del Talmud che dice: “Un pagano che si occupa dello studio della Torah, è degno di morte” (Sahn., 59a) ammorbidite in altre parti che graziosamente mostrano tolleranza verso gli atei come me. In ogni caso anche io, ispirato da me stesso lancio un anatema: “Chi tenterà di scocciarmi sarà sonoramente spernacchiato”. Per cui leggerò e commenterò più oltre alcuni brani che mi sembrano imbroglioni, violenti ed osceni in un libro che alcuni pazzi vogliono che sia di insegnamento religioso e quindi avere fini di insegnamento morale.

A parte il plurale che viene usato quando si parla di creazione nella Genesi (eredità politeista?), di creazioni se ne raccontano due ed io avrei interesse a capire come il mondo sarebbe nato.
Da una parte vi è ciò che tutti conoscono: “In principio, quando Dio creò il cielo e la terra , la terra era….” (1, 1-2). Il profeta ha bevuto o ha dimenticato il giorno prima: come si può infatti sostenere l’idea blasfema di una terra che coesiste con Dio al principio? E poi che disordinato che è Dio nel saltare da palo in frasca: 1° giorno, la luce (“Dio vide che la luce era cosa buona…”, è di interesse sapere che Dio era un empirico); 2° giorno, il firmamento; 3° giorno, i vegetali sulla terra; 4° giorno, i luminari nel cielo; 5° giorno, i pesci nei mari e gli uccelli nel cielo; 6° giorno, gli animali terrestri e l’uomo e la donna.
Nella seconda creazione appare uno degli dei, Geova. Egli plasma un pupazzo di argilla a forma di uomo e gli dà vita. Poi fa nascere intorno a lui un giardino (speriamo che non si sia confuso perché nella prima creazione i giardini vi erano prima dell’uomo! ). Inoltre l’uomo serviva per far crescere gli alberi, ma viene subito esautorato. Qui inizia il raccontino da mille ed una notte. Tra gli alberi vengono fatti crescere anche quello della vita e quello della conoscenza del bene e del male. Da questo giardino (Eden) escono 4 fiumi per irrigare l’Eden (sic! ). A questo punto viene il primo irragionevole comandamento di un dio schizofrenico o giocherellone: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare…” (2, 17). Qui vi è subito la minaccia, se mangi quel frutto muori (e la morte appare per la prima volta nella storia dell’universo). Poi viene da sorridere quando, Geova, parlando tra sé e sé si dice: “Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile” (2,18). Qui il vecchio con la barba sbaglia subito perché comincia a mescolare bestie con uomini. Infatti nel verso successivo si dice: “plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo” (2,19). Ecco, a parte, che questa creazione continua a differire dalla prima!
All’uomo il privilegio di dare il nome a questi animali. E l’uomo (meglio di Geova! ) visti tutti gli animali non ne trovò uno che gli fosse simile. Che distrattone il Geova!
E qui, sollecitato, si rimette all’opera.

Finalmente, quando l’uomo si addormenta “ plasmò con la costola che aveva tolto all’uomo, una donna e la condusse all’uomo” (2,22) (chiedete a maschietti credenti se hanno o no una costola in meno, stupirete! ). La storia segue con una consequenzialità inesistente: “Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre …..(cosa dice il profeta? Non si era mai parlato di padre e madre)…..e si unirà a sua moglie, e i due saranno una sola carne.” (2,24). Geova qui fa lo Sgreccia della situazione o il profeta è un malevolo pettegolo: “[l’uomo e la donna] erano tutte e due nudi , ma non provavano vergogna” (2,25). Ditemi cosa vuol dire???
Ma il cattivo tramava, “il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte da Geova dio” (3,1) deve mettere zizzania ed alla povera Eva dice che se mangia quel frutto diventerà come dio.
Ma qui si mescola un vergognoso imbroglio: NESSUNO AVEVA DETTO NULLA AD EVA! E la neonata che vede ogni cosa come creazione di dio come fa a sospettare qualcosa? Eva prende il frutto e lo dà ad Adamo (evidentemente era lì in silenzio, il cretino! ) e, dopo aver morso … che succede? “che si accorgono di essere nudi”. (3,8) Caspita! Occorreva coprirsi ed i due cercano foglie con cui farlo. Ma perché???
E la storiella segue come tutti sanno con sciocchezze continue unite ad incongruenze che non possono essere state dettate da un dio se non da quello dell’osteria. Ma i cristiani assegnano alla creazione dei due giocherelloni una data precisa: il 4004 a.C. e guai a chi mette in discussione queste date, le età dei profeti, i ridicoli tempi della creazione, le ridicole successioni della creazione, i ridicoli tempi tra il diluvio e la ripopolazione di tutta la Terra, … A lor credenti piace mettere in discussione la scientificità dell’evoluzionismo perché queste bufale sembrano loro molto più serie!

Faccio un doveroso intermezzo prima di andare avanti. Proprio le sciocchezze di Adamo ed Eva sono la prima prova della Bibbia che nasce dalla scopiazzatura (anche fatta male da parte di nomadi e predoni del deserto che non avevano alcuna tradizione ed erano bisognosi di farsene una) di antichi miti e leggende. In questo caso la leggenda è sumera. La storia è esattamente la stessa ed è riportata ne “Il Cilindro della Tentazione” depositato al British Museum e risalente a 2000 anni prima della redazione della Bibbia. Ne riporto la parte iconografica che è chiarissima (anche quell’albero che ricorda un certo candelabro).

Ed a proposito di quanto accennavo sui predoni del deserto, occorre dire che si trattava di popolazioni nomadi che, nel loro insieme erano chiamate Ebrei dalla parola eber che in aramaico vuol dire errante. Questi ebrei erano sparsi su un territorio di un milione e mezzo di chilometri quadrati, le nazioni che erano ai confini dei deserti del Negheb, di Engaddi ed Arabico impedivano loro di entrare ed invadere le loro terre. Si spostavano principalmente per le esigenze di rinnovo dei pascoli, ogni gruppo per proprio conto, senza nulla che unificasse le loro tradizioni, con religioni superstiziose basate su riti tribali e con riti derivati in gran parte da culti dei popoli con i quali venivano in contatto. Tra queste religioni importate vi era quella fenicia di Astarte e Moloch, divinità sanguinarie alle quali venivano offerti sacrifici umani.
Ed a questo punto è necessaria una affermazione drastica. Io leggo a modo mio la Bibbia, non accettando il modo che LORO ci hanno imposto per secoli. Anche quelli come me hanno pagato con la morte nei secoli l’affermazione del loro pensiero.
Dopo gli incesti tra figli di Adamo ed Eva si arriva al diluvio.
Qui si parla di uomini e di figli di dio che prendono in moglie le figlie degli uomini in quantità a piacere (erano belle). Ed interviene Geova con una frase sibillina: “Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne, e la sua vita sarà di 120 anni” (6,3). Sembra una condanna di creazione di coppie pur “autorizzate” in precedenza. C’è da aspettarsi questo e molto di più da un dio capriccioso. A lato degli uomini vi sono i “famosi giganti” di cui però il profeta non dice nulla.
A questo punto si sono già costituite tre “tribù: i figli di Caino, gli artigiani; i figli di Set, i longevi; gli uomini ed i giganti. Il profeta qui s’è impicciato. Ha forse mescolato varie storie. I giganti forse sono indo-europei (ariani) che invasero quei territori,… non ci è dato saperlo. Gli esploratori di Mosè che, moltissimo tempo dopo visiteranno il territorio, parleranno dei giganti, figli di Anak (Nm e Dt). Vi è traccia di ciò che saranno Davide e Golia. Senza consequenzialità, così va avanti la Bibbia: ” Geova vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore era male … e si pentì di aver fatto l’uomo (bella questa! n.d.r.) e disse ‘sterminerò sulla terra l’uomo che ho creato’ “ (6,5). Ed allora giù il diluvio su una morale mai definita che sarebbe stata violata (come?). Ed ecco comparire Noè che fa da calendario al diluvio, infatti “[il diluvio iniziò] nell’anno seicentesimo della vita di Noè, nel secondo mese, il diciassette del mese, proprio in quello stesso giorno” … “ e finì l’anno seicentouno della vita di Noè, il primo mese, il primo giorno del mese”. Da qui sembrerebbe che il diluvio sia durato quasi un anno ma, nel contesto si parla di una durata di 40 giorni (più il tempo necessario per la normalità, 150 giorni).
Dio avverte Noè con 7 giorni di anticipo e gli fornisce le misure precise dell’arca ed anche di che legno deve essere. A conti fatti in quell’arca è impossibile pensare allo zoo che dovrebbe alloggiarvi per , al minimo, 5 mesi. Si scopre che tra gli animali vi sono quelli mondi e quelli immondi. Così dio sterminò ogni essere che era sulla terra. Noè seguì quanto dio gli aveva detto e salvò sé e la sua varia compagnia sul monte Ararat. Noè uscì e sacrificò degli animali a dio che li odorò insieme al sangue sparso in terra; e gli piacquero tanto che disse “Non maledirò più il suolo (che aveva maledetto a seguito della mela e del sangue sparso da Caino) a causa dell’uomo!” (8,21). Che motivazione, oltre quella olfattiva fornisce Geova? Straordinaria: “Perché l’istinto del cuore dell’uomo è incline al male fin dall’adolescenza; né colpirò più ogni essere vivente (colpito con il diluvio perché malvagio) come ho fatto”. Che costanza nel mantenere valori morali! Pochi cambiamenti in tempi rapidissimi (per dio, naturalmente! ). Anche qui, il mito del diluvio è tratto da leggende sumero-babilonesi ed in particolare il riferimento è a Ziusudra., salvato dal dio Enlil mediante l’arca eccetera (la riproposizione è letterale a parte la grandezza dell’arca e la durata del diluvio). Nonostante le promesse, dio infierì sulla terra migliaia di volte, con terremoti, diluvi e quant’altro. L’ultimo terremoto è di San Giuliano con vari bambini colpevoli di malvagità mostruose (ricordate che dio non ha mai definito la morale o l’etica).
Ma vediamo come segue la storia di Noè. Egli ha tre figli. Pianta una vigna, beve il vino e si ubriaca. Va nella sua tenda (cosa da pastori, non da contadini, n.d.r.) “e giacque scoperto” (9,21). Suo figlio Cam (padre di Canaan) “ vide il padre scoperto e raccontò la cosa ai due fratelli che stavano fuori” (9,22). I fratelli avvertiti, entrano a ritroso nella tenda per non vedere la nudità (?) e la coprono con due mantelli (caspita! ). Quando Noè si risvegliò dall’ubriacatura seppe quanto gli aveva fatto il figlio minore (che fino ad ora era sempre stato presentato come il secondogenito) e disse in versi:

”Sia maledetto Canaan!
Schiavo degli schiavi
Sarà per i suoi fratelli!” (9,25)

Così Noè se la piglia con il nipote che non c’entrava nulla! E’ un pezzo alla Scarpetta o alla De Filippo. Ma la cosa non è così semplice. Qui si sta instillando l’idea FOLLE dei figli che pagheranno per le colpe dei padri (quali siano le colpe poi si sa: quello sciocchino si era ubriacato ed EGLI si era messo a dormire scoperto! Che colpa comunque aveva Cam e, peggio che mai, Canaan?). Ma Geova è un vendicativo che fa paura, è stato egli il primo a vendicarsi su tutta l’umanità per quel frutto mangiato da chi non sapeva non potesse farlo.
Ma vi è di più. Questo episodio ORIGINA IL RAZZISMO. I discendenti di Cam-Canaan, nella vulgata, sono i negri o anche quei popoli di Canaan (Palestina) che la Bibbia, con la parola di dio destina con somma pietà a perpetua schiavitù in potere degli ebrei. “Canaan generò Sidone suo primogenito, e Chet e il Gebuseo, l’Amorreo, il Gergeseo, l’Eveo, l’Archita ed il Sineo, l’Avardita, il Semarita e L’Amatita. In seguito si dispersero le famiglie dei cananei” (10,15). Si tratta di uno di quei popoli promessi ad Israele. Qui vi è di più: la schiavitù che nasce per volere divino (ed aggiungo: le bestemmie dei condannati a questa vergogna) a seguito … di una ubriacatura di Noè!
Qui cominciano le discendenze, quella pletora di nomi che tanto piacciono. Solo uno di essi va ricordato: Nimrot, discendente di Cam che cacciava tanto bene da piacere a Geova. Ed ecco che spunta la caccia come attività umana. E’ di sommo interesse vedere Geova che apprezza un bravo ammazzatore di animali.
Da queste discendenze si riformarono le nazioni dopo il diluvio (tra di esse quella ebraica che ci ha tramandato questi libri che io leggo in modo irriverente perché sono stati scritti con i piedi).
A questo punto il narratore si trova in difficoltà nel mettere insieme varie tradizioni e si impiccia di nuovo. Tutte le nazioni parlavano una sola lingua (torniamo ad un solo gruppo di uomini con una stupenda marcia indietro) e stavano tutte insieme in una grande pianura. Qualcuno dice: “Venite, facciamoci dei mattoni e cuociamoli sul fuoco” (11,3). Con mattoni e bitume iniziano a costruire una città per non disperdersi su tutta la terra. Ma Geova non condivide (è veramente un impiccione che si smentisce sempre e che dimentica cose già fatte). Egli borbotta tra sé e sé: “Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola, questo è l’inizio della loro opera, e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile” (11,6). Qui un saggio direbbe: MENO MALE! Si sono accordati e marciano bene. Ma noi abbiamo a che fare con un dio giocherellone che subito dice: “Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro” (11,7) e così “Geova dio [uno dei tanti, visto che si parla sempre al plurale? n.d.r.] li disperse di là su tutta la terra, ed essi cessarono di costruire la città … , e confuse la lingua di tutta la terra” (11, 8 e 9). [La storia della torre di Babele è una invenzione dell’ebreo Flavio Giuseppe (1° secolo d.C.) che, insieme all’altro ebreo Filone d’Alessandria (stessa epoca), lavora per rendere accettabili alcuni brani indigeribili della Bibbia. In pratica l’uomo sfiderebbe dio e quello s’indigna]. Ma la dispersione degli uomini sulla terra ha altrove, nella Bibbia, l’altra versione, quella della loro moltiplicazione (è che vi sono almeno due “dio”: uno Eloah (dio di tutti gli uomini) e l’altro Jahvè-Geova (dio di un solo popolo).
Dopo la dispersione, la Bibbia si concentra su Sem e la sua discendenza. Dopo l’ennesima discendenza di Sem (un poco cambiata rispetto alle altre fornite in precedenza) si arriva all’ultimo, a Terach, solo per avvertire da parte mia che “Terach uscì da Ur dei caldei (bassa Mesopotamia, n.d.r.) per andare nel paese di Canaan” (11,31). Qui dio è di nuovo distratto o lo fa a proposito. Non si accorge che manda il discendente di Sem a Canaan, la Palestina, che è il nome del figlio di Cam che era stato maledetto da Noè. Ma Terach muore a Carran, in una zona ricca vicina a grandi città ed a centri commerciali come Babilonia, Assur, Ninive,…. Zona sede di un grande regno nel secondo millennio a.C.
Ed Abramo partirà da un “grande regno”.

Con Abramo (nome che vuol dire “di Stirpe Nobile”) si abbandonano i racconti fantastici e si inizia a seguire la vita di una stirpe. Tutto il resto del libro della Genesi (dal 13 al 50) è dedicato a queste gesta. Vedremo che si tratta di gente poco raccomandabile (assassini, ladri, profittatori, avviatori alla prostituzione delle mogli, incestuosi,…) ma la tradizione vuole che siano da esempio. Dice il Talmud: “I primi patriarchi sono senza traccia di iniquità o peccato” (Mech., a XVI, 10, 48 a).

Dunque Abramo è figlio di Terach. Morto il padre viene chiamato da Geova:

“Geova disse ad Abramo: ‘vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò1 “ (12, 1 e 2). Qui dio è di nuovo distratto o, con Benigni, il profeta era sordo. Ma Abramo se ne era già andato dalla sua terra con il padre Terach ed il suo paese non era Carrai dove Abramo si trovava al momento, ma Ur dei Caldei.

A parte queste distrazioni, Geova segue: “renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò” (12,3). “Abramo partì … aveva settantacinque anni quando lasciò Carran” (12,4) diretto verso la Palestina. Ha con sé la moglie Sara, il figlio di suo fratello Lot “E TUTTE LE PERSONE CHE LI’ SI ERANO PROCURATE” (12,5). Scopriamo che Abramo è uno schiavista che si procura persone come cose e se le procura neppure tra i discendenti dei maledetti Cam-Canaan ma tra persone che non c’entravano con quelle ubriacature. Quindi il popolo di Abramo è un misto di padroni e schiavi. Mentre Abramo è in marcia, Geova si ricorda di qualcosa e glielo dice: “Alla tua discendenza io darò questo paese” (12,7). Questo è il primo cenno alla terra promessa che come tutti sanno porterà a tutti i disastri e per gli ebrei e per gli abitanti che vivevano in quelle terre. I miti e le leggende, financo i sogni degli ubriachi, hanno ripercussioni inimmaginabili per la storia dell’umanità, quando sono dati in mano a dei fanatici. Sto dicendo che bastava che Abramo avesse sognato il mondo di Colombo, perché quelle terre promesse sarebbero state altre. Ma quelle cose non le poteva sognare perché Colombo non c’era stato. Ed allora i colpi di calore del deserto li paghiamo tutti.

Abramo ringrazia dio con dei sacrifici e prosegue la marcia superando la Palestina (scarso in geografia, Abramo) ed andando verso il deserto del Negeb. Noto a margine che Abramo si muove lungo una traiettoria che biblicamente non ha senso perché troppo lunga (fa un giro incomprensibile di oltre 2500 Km quando con 500 Km sarebbe arrivato) ma geopoliticamente ha un senso compiuto perché egli non può entrare in Paesi strutturati (Fenicia e Palestina) senza evitare di essere respinto con la forza. Poiché vi è una carestia (una delle molteplici carestie bibliche) decide si avviarsi verso l’Egitto dove regnava il faraone Ameneth I della XII dinastia (1991-1785 a.C.). Qui non è chiaro se davvero Abramo va in Egitto o se si trova in terre dominate dagli egizi (estese all’epoca).

E veniamo ad una delle altre vergogne di Abramo: FA PROSTITUIRE LA MOGLIE SARA! [ed ancora non sappiamo qual era l’etica e la morale di Geova, n.d.r.].

Abramo è molto bravo a mettere a frutto i suoi averi. Tra questi la bella Sara che, sebbene sterile, può servire a certi “usi” comprensibili. Per Sara è, secondo i commentatori, una disavventura. Ma per Abramo un bel colpo di fortuna. Abramo così parla alla moglie Sara: “Vedi io so che tu sei donna di aspetto avvenente. Quando gli egiziani ti vedranno, penseranno ‘costei è sua moglie’, e mi uccideranno, mentre lasceranno in vita te. Dì dunque che tu sei mia sorella, perché io sia trattato bene per causa tua ed io viva per riguardo a te” (12, 11-13) [in antichi costumi mesopotamici si soleva confondere sorella con sposa, n.d.r.]. Avvistata da soldati egiziani, il racconto funziona e Sara viene presentata al faraone e ne diviene la concubina, mentre Abramo diventa il protetto del faraone (caspita! Geniale). In cambio delle prestazioni della moglie egli ebbe “greggi ed armenti e asini, schiavi e schiave, asine e cammelli” (12,16).

Era il modo con cui, come vedremo, non solo Abramo si arricchiva ma anche gli altri patriarchi. Dai quali, una cosa è certa, noi abbiamo ben appreso QUESTE leggi di morale e vera religione.

E Geova che dice? Egli, si era distratto un poco (ubriaco?). Ma improvvisamente interviene colpendo il faraone e tutta la sua casata con grandi piaghe. Ecco la giustizia bananiera dell’antichità! Alla fine il colpevole è il faraone. Quel magnaccia di Abramo, essendo suo protetto, non c’entra nulla, il faraone con tutta la sua casata, ignavo di come stessero le cose, viene punito.

Questa giustizia divina (col le piaghe) è una costante della Bibbia. Di fronte ai disastri in Egitto, il faraone “convocò Abramo e [invece di impiccarlo, n.d.r.] gli disse: che mi hai fatto? Perché non mi hai dichiarato che era tua moglie? Perché hai detto: è mia sorella, così io me la sono presa in moglie. Ed ora eccoti tua moglie, prendila e vattene” (12, 18 e 19) e lo fece accompagnare alla frontiera insieme con la moglie e tutti i suoi averi che lo stesso faraone gli aveva regalato.

E così Abramo ritorna felice e ricco nel paese di Canaan che Geova, visto che Abramo si era ben comportato [ma che dio è?], gli promette di nuovo.

Abramo si separa da Lot, poiché i pascoli, vista la grande quantità di armenti che ora hanno, non bastano più per tutti e due. Lot se ne va verso la valle del Giordano “un luogo irrigato da ogni parte come il giardino di Geova, come il paese d’Egitto, fino ai pressi di Zoar” (13,10) vicino Sodoma.

Altro impiccio per il profeta che trascrive poiché non ricorda che quella era la terra promessa ad Abramo e non a Lot. Ma qui si apre una nuova avventura perché “gli uomini di Sodomia erano perversi e peccavano molto contro Geova” (13,13) . Ci si potrebbe qui chiedere che c’entrava questo dio con un popolo non da lui eletto ma sarebbe tutto inutile.

Dopo una perfetta suspence che fa sviare per un poco il discorso su altri argomenti, si ritornerà su Sodoma.

Il primo di questi argomenti è la guerra dei 4 re che combattono contro altri 5. Abramo partecipa ad essa per liberare Lot fatto prigioniero in Sodomia. Vince “con i suoi uomini esperti nelle armi, schiavi nati nella sua casa [rieccoli! n.d.r.], in numero di trecentodiciotto” (14,14). Fa piacere sapere che questa prima guerra vinta dal popolo ebraico lo è stata con l’aiuto indiretto delle prestazioni di Sara.

Il secondo argomento è che, dopo la vittoria, vanno incontro ad Abramo, Bera, re di Sodoma e Melchisedech, re di Salem (futura Gerusalemme). E’ interessante questo brano perché è sacerdote di un dio Altissimo (El Eljon) che sembra lo stesso di Abramo (potrebbe darsi che i due chiamino lo stesso dio in due modi diversi). Sta di fatto che Abramo dà la decima a questo sacerdote, proprio come si fa con i sacerdoti del proprio dio! Resta comunque strano il dare una parte dei propri beni a re che Abramo aveva aiutato e che, semmai, dovevano loro dare qualcosa ad Abramo [i cristiani qui, facendo triplice salto mortale carpiato, vedono in questi due “dio” una premonizione di Gesù, n.d.r.]. Ma il tutto non finisce qui, perché Abramo si rivolge al Re di Sodoma con queste parole in cui i due “dio” appaiono simultaneamente :”Alzo la mano davanti a Geova, il Dio Altissimo…” (14,22). Si identificano i due “dio” proprio nel momento che il destino di morte di Sodoma è già stato scritto da Geova. Qui, altra promessa ad Abramo da parte di Geova che, questa volta, aggiunge che il suo popolo crescerà numeroso, nonostante la sterilità di Sara, e che “i suoi discendenti saranno forestieri in un paese non loro, e saranno fatti schiavi ed oppressi per quattrocento anni” (15,15) e che dopo di ciò, sarà lui, Geova, a giudicare l’Egitto.. Altra alleanza con squartamenti di vari animali e con il passaggio dei due in mezzo ai quarti di animali fumanti. Ed altra promessa delle terre che vanno dall’Egitto all’Eufrate.

La storia di Abramo segue con Sara che propone al marito di avere dei figli con la schiava egiziana Agar che doveva essere stata donata dal faraone. E’ interessante questo volere figli che, assicura Sara, saranno considerati come suoi. Intanto Abramo si sottopone alle sacre fatiche (ha 86 anni!) ed Agar resta incinta. Allora Sara comincia ad essere gelosa e ottiene il permesso di maltrattare Agar, fino al punto che la schiava fugge nel deserto. Qui un angelo la incontra e la riporta a casa preannunciando ad Abramo la nascita di suo figlio Ismaele (che sarà padre di tutti gli arabi del deserto che, come dice l’angelo, “saranno come un somaro: contro tutti”. Qui non vi è disprezzo, si usava questa espressione).

Nato Ismaele, Sara torna gelosa. Agar scappa. Dio la prende sotto la sua protezione. Poi [porcaccia miseria alle ripetizioni! n.d.r.] QUANDO Abramo ha 96 anni rifanno il patto. Ripetiamo la scena. Dio appare ad Abramo e gli dice: “Io sono il dio onnipotente”(El Shaddar, una entità diversa da quelle viste fino ad ora, una specie di dio della montagna o della steppa) poi gli promette discendenza e per buon peso gli cambia nome: da Abram diventa Abraham, padre di moltitudini. Il cambio di nome in relazione all’assunzione di un potere è cosa che facevano gli egizi e fanno i Papi. Gli ridice (sic!) che gli darà tutto il paese di Canaan. Qui dio fa una marcia indietro. Prima gli dava dal Nilo all’Eufrate, ora solo una piccola terra. In cambio di questa concessione (qui il profeta ha sbagliato qualcosa) chiede un qualcosa in cambio (dio è anche un personaggio che fa baratti) e non può essere altro che qualcosa riguardante le “vergogne”: “Sia circonciso tra di voi ogni maschio. Vi lascerete circoncidere la carne del vostro membro, e ciò sarà il segno dell’alleanza tra me e voi” (17, 10 e 11) Dio fornisce i dettagli ed aggiunge che non solo i discendenti di Abramo si devono circoncidere, ma anche lo schiavo forestiero (qui si tratta indubbiamente di un problema igienico). Quindi tutti (meno certamente uno, Mosè che imbroglierà più volte) gli ebrei devono essere circoncisi.. Ma la circoncisione era attestata solo in Egitto. E Geova si comporta come un dio egizio che impone un uso egizio (anche se la coerenza dei profeti, ad un certo punto, farà della circoncisione una usanza antiegizia). E dio conclude: “Il maschio non circonciso sia eliminato (sic! n. d. r.) dal tuo popolo” (17,14).

In un eccesso di generosità, dio promise la discendenza anche a Sara (vecchia e da tempo in menopausa. Abramo si mette a ridere piegandosi in due e dice che dio piuttosto faccia dei favori ad Ismaele (la cosa è biblica! n.d.r.). Ma dio insiste e dice che Sara avrà un figlio di nome Isacco il quale …. Bla, bla, bla (con tutte le promesse ripetute decine di volte!). Detto questo dio sale in alto (è la prima volta che accade nella Bibbia) e lascia Abramo. Abramo circoncide tutti e si circoncide.

Abramo si mette poi a riposare nel caldo di pomeriggio e gli appare Geova (dio chissà dove è andato). E’ così intontito che scambia Geova per tre persone (capito?). Fa accomodare queste persone, gli lava i piedi, gli ammazza un vitello, gli offre latte acido e latte fresco e quei tre, in coro, gli dissero: “’Dov’è Sara, tua moglie?’ Rispose: ‘è là nella tenda’. Geova continuò: ‘ Tornerò da te tra un anno a questa data , e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio’” (19,9 e 10). I tre si sono fatti uno che fa tutto ciò che già si sapeva meno il ripetere la litania delle promesse. Ora è Sara che, avendo orecchiato, ride. Ride dentro di sé, ma Geova, e come non potrebbe, se ne accorge: “Perché hai riso?” E Sara mente dicendo che non ha riso e Geova gli dice che si …. Insomma un divino battibecco. Prima di chiudere con questo episodio, il mio “capito?” era riferito a molti esegeti cristiani che hanno visto in questo la Trinità (siamo legati a pisolini pomeridiani ed a ubriacature,… che ci possiamo fare?).

Ora, mentre nel primo racconto dio era salito in alto, in questo secondo racconto i tre si alzano e se ne vanno su una collina a contemplare Sodoma .

Ed ora, con l’assistenza del dio uno e trino, i malvagi di Sodoma, tornano in scena. E’ Geova che ce lo fa sapere (è tornato uno). Egli dice: “Il grido [non si sa bene di chi] contro Sodomia e Gomorra è troppo grande ed il loro peccato è molto grave: Voglio scendere e vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me: lo voglio sapere!” (18, 20 e 21). Che poveraccio che è Geova: ha sentito dire, è salito per vedere, ora scende per vedere meglio? Ma a scendere sono di nuovo i tre uomini ed Abramo resta vicino a Geova dialogando in modo divertente con lui.

E’ Abramo che inizia a parlare a Geova: “Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono 50 giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere?” (18,23). Risponde il conciliante Geova: “ Se a Sodoma (non è chiaro se ora è inclusa Gomorra, n.d.r.) troverò 50 giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò tutta la città” (18,26). E Abramo inizia il gioco: “ e se ne trovi 45?”.. “e se ne trovi 40?”…. e se ne trovi 10?”…. Geova dice sempre che perdonerà la città. Poi se ne va, salendo in alto e Abramo si ritira a casa.. Intanto due angeli arrivarono a Sodoma sul far della sera e trovano Lot, nipote di Abramo, seduto alle porte della città. Stessa accoglienza che Abramo ha dato ai tre-uno. Ma i sodomiti che avevano visto i due angeli entrare nella casa (tenda) di Lot mostrano di essere veri sodomiti.. Si affollarono davanti alla casa di Lot chiedendo dove fossero “quei due”. Chiedono a Lot di farli uscire perché volevano abusarne. Ma Lot che rispetta l’ospitalità, ha un lampo di genio e offre loro un cambio: “No, fratelli miei, non fate del male! Sentite, io ho due figlie che non hanno ancora conosciuto uomo; lasciate che ve le porti fuori, e fate loro quel che vi piace!” (19, 7 e 8). Quelli insistono. Preferiscono i due uomini (angeli). Ma gli angeli ora si arrabbiano e con un lampo li abbagliarono, barricandosi poi in casa di Lot . Erano impauriti (?) quelli che tra un poco distruggeranno la città! Consigliano Lot di prendere la famiglia ed andarsene. Perché devono distruggere la città come gli ha detto Geova (fin qui la cosa non la si sapeva). Alle esitazioni di Lot lo spingono dicendogli di non guardare indietro (anche qui?). Gli concedono di fermarsi a Zoar, prima delle montagne. E “Geova (non i due angeli) fece piovere dal cielo sopra Sodoma e Gomorra zolfo e fuoco” (19,24). Geova approfitta nel trasformare in statua di sale la moglie di Lot che si era voltata a guardare ( e che volete?). Al mattino Abramo va a vedere il disastro. Tutto bene a parte la moglie di Lot, persa per sempre. Lot se ne va a vivere in una grotta sulle montagne con le due figlie. E qui altre oscenità. “E la maggiore delle due figlie disse alla più piccola:’ non c’è nessuno in questo territorio per unirsi a noi… Vieni: facciamo bere del vino a nostro padre e poi corichiamoci con lui così faremo sussistere una discendenza di nostro padre’ “ (19, 31 e 32). Insomma la sodomia fa un poco schifo ma l’incesto e la prostituzione vanno bene a Geova. E poi, questa gente continuamente ubriaca! Quelle donne, scampate ai sodomiti, “quella notte fecero bere del vino al loro padre, e la maggiore andò a coricarsi col padre; ma egli non se ne accorse” (19,33). Stessa cosa successivamente con l’altra figlia “così le figlie di Lot concepirono dal loro padre” (19,36).

Esse generarono le stirpi dei moabiti e degli ammoniti che “esistono fino ad oggi”. Così, dopo gli israeliti abbiamo avuto gli ismaeliti, figli bastardi di Abramo ed Agar, e poi i moabiti e gli ammoniti figli dell’incesto tra Lot, nipote di Abramo, e le figlie. E’ utile qui far notare che la Bibbia dice tutto e tutto il suo contrario. Nel Levitico (ma anche nel Deuteronomio), infatti si dice: “Nessuno si accosterà ad una consanguinea per avere rapporti con lei” (Lv., 18,7) e (Dt., 27, 22). E’ naturale che si tratta di leggi di epoche diverse. E’ il profeta che è un confusionario pazzesco!

Si tratta ora di passare da Abramo ad Isacco.

Abramo che avevamo lasciato ad osservare la distruzione di Sodoma (tutti ammazzati meno che le figlie di Lot che incestuosamente giacevano col padre ubriaco), non termina qui le sue avventure. Ritorna nei pressi del deserto del Negev dove, di nuovo (ma succederà ancora!) spaccerà la moglie per sorella per averne beneficio in schiavi, terre ed armenti. Il gioco, questa volta è tentato da Abramo con il re Abimelech di Gerar, città nella striscia di Gaza al sud della Palestina. Gli presenta la moglie dicendole che è sua sorella. Sara, ormai pratica, dice che è vero. Ma questa volta interviene l’alternanza di dio e di Geova che, in sogno, spiegano le cose ad Abimelech. Il giorno dopo Abimelech restituisce ad Abramo Sara, senza averla toccata e dicendo lui che avrebbe dovuto dire il vero. Qui l’ipocrita Abramo si scusa con un’altra bugia che dovrebbe confermare in parte che Sara è davvero sua sorella (lo sarebbe solo da parte di padre) ma anche sua moglie. Dopo un poco di chiacchiere “Abimelech prese greggi e armenti, schiavi e schiave, li diede ad Abramo e gli restituì la moglie Sara” (20,14) mai toccata. A questo punto Abramo dovrebbe essere fustigato da Geova, ma Geova si accontenta di visitare Sara e di fargli fare il figlio promesso. Così nasce Isacco che vuol dire “Dio ha sorriso”. Qui la madre, al crescere di Isacco, si sbarazza della concorrenza di Ismaele mandandolo nel deserto a divertirsi con l’arco.

Qui vengono fuori altre storie edificanti che ci fanno apprezzare sempre più Geova.

C’è la prova che deve affrontare Abramo, egli deve sacrificare Isacco. Abramo esegue in silenzio, va sul monte con il figlio, prepara un altare, Isacco sta per prendere un agnello ma Abramo prende Isacco e gli mette il coltello al collo. Qui Geova dice all’angelo di fermare Abramo che si ferma. Questo cosa dovrebbe dimostrare? Che a dio si ubbidisce sempre? O che dio è un miserabile? Ognuno decida per sé tenendo però conto che questo episodio è in piena sintonia con con il culto di Astarte e Moloch (e non è il solo: il dio ebraico ordinerà a Mosè Il primo parto di ogni madre tra gli israeliti, di uomini o animali, esso appartiene a me” – Es. 13/3 – “Il signore disse a Mosè: ‘Dirai agli israeliti che chiunque tra di essi sacrificherà qualcuno dei suoi figli a Moloch, dovrà essere messo a morte per lapidazione’ ” – Es. 20/1 -). Intanto Abramo incassa un’altra alleanza. Avrà quella terra, una discendenza numerosa (sempre un poco contorta, ma poco importa) e che questa discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Simpatico Geova, eh? Segue una genealogia della discendenza che, casualmente, non è di Abramo ma di suo fratello Nacor (Gn 22, 20-21) che, a questo punto, non c’entra nulla. Muore la moglie Sara ed Abramo non dispera, intravede il modo di fare nuovi affari. Egli chiede agli Hittiti, nella cui terra si trovava di dargli in proprietà un sepolcro. Quando glielo danno gratis egli lo vuole pagare e sa il perché:” Così il campo di Efron…, il campo e la caverna che vi si trovava con tutti gli alberi che erano dentro il campo e intorno al suo limite, passarono in proprietà di Abramo… Il campo e la caverna che vi si trovava passarono dagli Hittiti ad Abramo in proprietà sepolcrale” (23, 17-20). E su questa proprietà sepolcrale si comincia a compiere la promessa ripetuta infinite volte da Geova, di dare una terra agli eredi di Abramo.

La discendenza di Abramo segue con Isacco. Abramo chiede ad un servo di trovare per Isacco una moglie della sua stessa gente (ad evitare strani miscugli con schiavi): Così Abramo si è già arricchito nel modo che sappiamo. Ha un “maggiordomo” di fiducia. Può pretendere un matrimonio tra “uguali” per il suo figlio già qurantenne. E tutto ciò si deve fare in nome di Geova, Dio del cielo e della terra (prima volta che Geova viene promosso a tale rango). Per garantirsi la completa disponibilità del maggiordomo, Abramo lo fa giurare. Come si giura? mettendo la mano “sotto la coscia”, che vuol dire facendosi toccare i genitali (Flavio Giuseppe dice che occorreva toccarsi reciprocamente i genitali, restando in sospeso il giuramento tra donne o quello misto).. E’ un ossessione la nudità, i genitali,….! Ricordiamo ora che: Abramo proviene, con il padre Terach ed i fratelli, da Ur dei Caldei; che si era fermato a Carran (Siria) sulla via di Canaan sua meta ultima e patria definitiva. Ma subito dopo Geova, distratto, aveva detto che la patria di Abramo era Carran e questa cosa viene confermata. Il “maggiordomo”, “mette la mano sotto la coscia”, e parte con dieci cammelli, scorta e regali. Cosa può accadere? La storia della fonte, con la bella ragazza che si avvicina con un’anfora per dare da bere al servo (chiamiamolo così). E’ Rebecca, figlia di Betuél, fratello di Abramo (piccolo il mondo, eh?), e quindi cugina di Isacco (ma della stessa gente). La Bibbia ci assicura che era vergine e noi ci crediamo. Il servo per ingraziarsela, non sapendo chi fosse, le mette un anello al naso (non ridete, era in uso) e le regala un bracciale. Saputo poi chi era, si inginocchia per ringraziare Geova (una specie di partita di giro ottenuta con i soldi che Sara ha procurato a partire dall’Egitto). Rebecca corre a casa con il servo e racconta al fratello Làbano ogni cosa. Il servo parla dello scopo del viaggio e delle ricchezze di Abramo. Non c’è dubbio, Làbano e l’improvvisamente comparso Betuél accettano benedicendo Rebecca: “Tu, sorella nostra (ma anche figlia o vi è un altro pasticcio del profeta, n.d.r.), diventa migliaia di miriadi e la tua stirpe conquisti la porta dei suoi nemici” (24,60). La costante del crescere e fare la guerra ai vicini è rispettata, per cui Isacco prese in sposa Rebecca e l’amò. Qui seguono le seguenti cose: altre mogli e figli di Abramo; altre notizie sulla genealogia; altre su quella del fratello Nacor; altre sulla sua morte (a centosettantacinque anni, con un furto di 55 rispetto a quelli promessi da Geova!), sulla sua sepoltura nel terreno comperato per Sara; sull’eredità lasciata ad Isacco; su altri doni ad altri figli che non essendo ritenuti degni vengono inviati al deserto; il solo Ismaele ha diritto ad una sua genealogia. E qui termina la storia di Abramo lo schiavista e il fautore della prostituzione della moglie. Termina (lo vedremo) anche la inutile e squallida storia di Isacco e ci si avvia a Giacobbe.

Isacco stenta a figliare, poiché sua moglie era sterile (altra costante: maschietti potenti, anche sotto l’effetto dell’alcool, e femminucce sterili! Solo questo dovrebbe far ridiscutere dalle fondamenta l’intera “biblioteca”!). Comunque Isacco fa la preghierina a Geova e questi lo esaudì (forse era il giocherellone Geova che aveva bisogno, ogni volta, di essere invocato). Rebecca partorisce due gemelli che però già nel grembo materno si litigano, tanto è vero che Geova così dice a Rebecca: “Due nazioni sono nel tuo seno e due popoli dal tuo grembo si disperderanno; un popolo sarà più forte dell’altro, ed il maggiore servirà il più piccolo” (25,23) e qui il maggiorascato viene ribaltato ad opera di Geova che tutto può. Vennero fuori Esaù e Giacobbe. Il primo rossiccio e peloso come un capretto e, dietro di lui, arrancato per il calcagno, Giacobbe. Esaù divenne uomo di caccia, mentre Giacobbe dormiva in tenda. Isacco, che era goloso di cacciagione, amava Esaù, mentre Rebecca teneva per Giacobbe. La primogenitura si risolse con il piatto di lenticchie. Esaù, che tornava esausto dalla caccia, vede lo sfaccendato Giacobbe mangiare un piatto di lenticchie. Gliene chiede un po’. Giacobbe, che conosce il modo di pensare di Geova, intravede l’affare e subito dice che gliele avrebbe date se lui gli dava la primogenitura. Esaù accetta, anche Isacco e, non si capisce proprio perché di nuovo si inventino dei fantasmi per fare poi gli esorcisti. Ma ritorna in scena per il solito vergognoso commercio, caratteristica della stirpe, Isacco.

Il vecchio Abimelech se ne stava in finestra e vide Isacco che “scherzava” (la Bibbia usa spesso di questi giochi di parole: qui scherzavano sul serio!) con Rebecca. La cosa lo eccita ed egli chiama Isacco e questa volta, senza bisogno di sogni, gli dice che quella non può essere sua sorella ma deve essere sua moglie. Ma la conclusione è la stessa e Abimelech (che doveva essere proprio il cretino dei re) conclude la storia come l’aveva conclusa con Abramo. Questa volta, senza aver toccato Rebecca come la prima senza aver toccato Sara, niente beni materiali ma una sorta di salvacondotto perpetuo: “chi tocca quest’uomo e sua moglie, sarà messo a morte!” (26,11). Geova è compiaciuto non si sa bene di cosa e premia Isacco benedicendolo e centuplicando i suoi raccolti.

Abimelech però dovette avere un qualche ripensamento. Fece sigillare tutti i pozzi che avevano scavato i sevi di Abramo per le sue greggi e intimò ad Isacco di andarsene per il fatto che era più potente dello stesso re. Qui vi è un altro pasticcio perché Isacco se ne va ma resta! Infatti se ne va ma scava di nuovo i pozzi che avevano scavato i servi di suo padre. L’operazione di scavo lo fa litigare con altri pastori. Isacco dice che l’acqua è sua. Scavano e litigando arriva fino a Bersabea (più a sud, il che vuol dire che si tratta di due diversi racconti intersecantisi e messi insieme da un profeta un poco confuso) dove una notte gli appare Geova che dice: “io sono il dio d’Abramo, tuo padre. Non temere, perché io sono con te. Ti benedirò e moltiplicherò la tua discendenza” (26,24). Non resta che dire: un’altra volta? Visto che già per otto volte Geova dice questo. Isacco fa un altare e scava un altro pozzo. Abimelech ed altri lo hanno visto parlare con Geova ed allora vanno verso Isacco per fare pace con lui. Il Geova pare un maggiorente, un boss paesano.

Intanto riprendono le lotte tra Esaù e Giacobbe per la primogenitura (i beni ed i soldi). Il piatto di lenticchie non era che l’inizio. Ora segue un inganno nei riguardi di Isacco morente da parte di Rebecca e Giacobbe, complici. Isacco è vecchio, morente, rimbambito e semicieco. Chiama Esaù esperto cacciatore e gli chiede se gli può procurare un buon piatto di selvaggina. Esaù parte per cacciare ma Rebecca che origliava (la Bibbia è sempre maestra edificante), avverte Giacobbe e insieme prendono un capretto, lei lo cucina “alla cacciatora” (perché sembri selvaggina) poi riveste Giacobbe con il vello del capretto (ricordate che Esaù era peloso fin dalla nascita) ed invia questi da Isacco con il piatto cucinato. Riesce ad ingannarlo anche mentendo spudoratamente. Al padre che gli chiede esplicitamente se era Esaù egli risponde SI. Ed Isacco, ingannato in tal modo, dopo aver ben mangiato e bevuto bendice Giacobbe credendolo Esaù: “Ecco l’odore di mio figlio come l’odore di un campo [ma come odoravano i campi? se il Giacobbe è rivestito di una pelle di capretto appena ammazzato?, n.d.r.] che Geova ha benedetto. Dio ti conceda rugiada dal cielo e terre grasse e abbondanza di frumento e di mosto. Ti servano i popoli e si prostrino davanti a te le genti. Sii il signore dei tuoi fratelli e si prostrino davanti a te i figli di tua madre. Chi ti maledice sia maledetto e chi ti benedice sia benedetto” (27,27-29). E, definitivamente, un capretto alla cacciatora, decide la sorte dei popoli.

Ma torna Esaù con la cacciagione ed Isacco fu colto da un fortissimo tremito, si accorge di essere stato truffato ma (questa è bella!) non può fare più nulla. Dice che ormai ha benedetto e maledetto e non si può tornare indietro. Nonostante le amarissime e giustificatissime grida di Esaù, il padre Isacco addirittura aggiunge sale alle ferite: “Ecco, lungi dalle terre grasse sarà la tua sede, e lungi dalla rugiada del cielo dall’alto. Vivrai della tua spada e servirai tuo fratello…” (27, 39 e 40). Da Esaù discendono gli idumei che vivono nel deserto. Saranno questi quelli che più di altri, come dice l’evangelista Marco (3,8), cercheranno il Gesù (una vendetta, annunciata da due strani versi di Isacco? Questi dice infatti ad Esaù: “Quando ti riscuoterai, spezzerai il suo giogo dal tuo collo”). Qui Rebecca agisce in modo da mettere i gemelli l’un contro l’altro. Dice a Giacobbe di fuggire perché Esaù lo vuole uccidere. Ed egli, il vincitore, fuggì a Carran dal fratello di Rebecca, Làbano. Ma anche qui vi è un’altra storia che si interseca con la prima. Secondo questa seconda Giacobbe va a Carran per volere di Isacco e lì si ripete la storia del matrimonio del padre con una cuginetta con la differenza che ora non vi è sensale. Analogamente Esaù sposa una cuginetta figlia di quell’Ismaele nato dall’unione di Abramo con l’egiziana Agar. Durante il viaggio comunque Geova gli si presenta (ha accettato di buon grado l’imbroglio) e gli dice: “Io sono Geova, il dio di Abramo tuo padre [ma non era il nonno? n.d.r.] ed il dio di Isacco” (28,13). A questo punto poiché qui abbiamo una ripetizione di un discorso fatto più volte viene proprio naturale affermare che questo è un dio di una sola persona e della sua complicata e furbesca discendenza, è un dio che sta bene in una visione politeista. Naturalmente Geova rifà (e 9!) la promessa di quelle terre e …bla, bla, bla,….. Giacobbe si sveglia e riconosce in Geova il suo dio (cosa stupefacente pensando che era stato educato in casa di Isacco). Si rifà l’alleanza e così sia.

E veniamo alle nozze di Giacobbe, altro episodio altamente educativo.

Abbiamo già detto che si ripete una storia nota. Giacobbe incontra una ragazza al pozzo la bacia e poi le dice di essere suo cugino. Condotto a casa lo zio Làbano lo accoglie dicendogli che “Tu sei mio osso e mia carne”, stesse parole usate per certificare che Eva era cosa di Adamo. Làbano non può essere così tranquillo, altrimenti dove vanno i pregi della discendenza? Cosa ti combina il vecchietto?

Egli ospita Giacobbe dandogli lavoro. “Ora Làbano aveva due figlie: la maggiore si chiamava Lia e la più piccola si chiamava Rachele. Lia aveva gli occhi smorti, mentre Rachele era bella di forme ed avvenente di aspetto, perciò Giacobbe amava Rachele. Disse dunque: ‘io ti servirò per sette anni in cambio di Rachele, tua figlia minore’ ” (29,16-18). Conclusi i patti e fatto il banchetto nuziale inizia l’imbroglio di Labano che è una sorta di antesignano del contrappasso dantesco. “Quando fu sera, Làbano prese la figlia Lia e la condusse da lui [Giacobbe] ed egli si unì a lei … Quando fu mattina … ecco, era Lia! Allora Giacobbe disse a Làbano: ‘che mi hai fatto?’ ” (29,16-18). Lo zio chiuse la discussione di rito, analoga a quella di Abramo con il faraone e di Abramo con Abimelech, con un accordo “ragionevole” fra gentiluomini, dicendo a Giacobbe:” Finisci questa settimana nuziale poi ti darò anche quest’altra per il servizio che tu presterai presso di me per altri sette anni” (29,27). Così Giacobbe si ritrova con due mogli (e 14 anni di lavoro per lo zio!) e ciò, naturalmente, sarà fonte di rivalità, anche perché Giacobbe amava dilettarsi anche con le schiave. Dopo qualche tempo si ritrovò con 12 figli maschi, così distribuiti: 6 con Lia, 2 da Bilha, schiava di Rachele, due da Zilpa schiava di Lia, e 2 soli da Rachele (dei quali due, il secondo, molto tardi). Da questi dodici maschi discenderanno, con i soliti pasticci del profeta, le dodici tribù di Israele (nome che ancora non esiste). A differenza dei discendenti di Abramo, tutta la discendenza di Giacobbe sarà considerata ebrea, anche se nata da mescolanze con schiavi. Non sono invece considerati ebrei i figli dell’ultralegittimo Esaù.

Non abbiamo i dettagli amorosi di Giacobbe. Solo poche cose, tra le quali merita di essere raccontata la nascita di Issacar, figlio di Giacobbe che sarà definito (in accordo con gli epiteti dell’epoca) un somaro.

Ruben, figlio maggiore di Giacobbe e Lia, coglie delle mandragole (frutto afrodisiaco conosciuto da secoli ed anche da Machiavelli) e zia (che altra parentela si può reclamare?) Rachele gliene chiede. Interviene mamma Lia per ripetere la solita litigata in famiglia. Lia dice a Rachele che già gli ha voluto togliere il marito e che ora tenta di rubargli anche le mandragole (interessante l’assimilazione di marito e mandragola ed anche l’argomento del marito rubato, n.d.r.). Rachele risponde che gli concede di coricarsi di Giacobbe con lei quella notte in cambio delle mandragole. E chi ha l’afrodisiaco va a letto sola, chi non lo ha va a letto in compagnia. Il figlio concepito quella notte tra Lia e Giacobbe, il quinto, Issacar, risulterà però deboluccio e scomparirà dalle tribù di Israele finirà tra i cananiti e vi resterà. Si è sentita la mancanza della mandragola! E nessuno si preoccupi per le 12 tribù, si conserveranno lo stesso per altra via!

Giacobbe decide di tornare dalle sue parti e Làbano gli chiede quanto gli deve (il profeta dimentica che Giacobbe doveva restare a lavorare per 14 anni con la mercede già avuta, le due mogli ma, entrati in questa logica, occorre solo osservare che Làbano si era accorto dell’alleanza tra Geova e Giacobbe). ). Giacobbe dice: “nulla” ma aggiunge in modo dimesso che si accontenta delle pecore nere o chiazzate del gregge (generalmente una piccola percentuale). E qui prepara l’imbroglio allo zio suocero. Scortica, in modo che mostrino parte di anima bianca, rami di platano, pioppo e mandorlo. Li mette vicino all’abbeveratoio (e qui il profeta ci dice una cosa che mi pare fantastica nel fantastico) in modo che le pecore concepiscano agnelli con le “voglie” di chiazzature. Nascono tanti agnelli neri e chiazzati e Giacobbe se ne va fregando il meglio del gregge allo zio suocero. Qui riappare Geova che si mostra preoccupato per i livelli di ira di Làbano. Ma con una chiacchierata da condominio con mogli, figli, zii, riesce a convincerli che è stato lui, Geova, a sottrarre le pecore a Làbano per darle a Giacobbe. Ma qui le liti continuano e, da condominio, diventano da cortile.

In definitiva Giacobbe scappa con le pecore e, per buon peso, Rachele si porta via gli idoli (forse una specie di reliquie degli antenati) del padre. Ma Làbano insegue e raggiunge. “Perché te ne sei andato senza permettermi di salutare le figlie? e perché mi hai rubato gli idoli?” Di questa ultima cosa Giacobbe non sapeva nulla e dice a Làbano che cercherà nella tenda. Rachele prende gli idoli e li nasconde sotto la sella del cavallo che immediatamente monta. dicendo al padre che non è il caso che la frughi sotto le gonne perché ha le mestruazioni. Il padre, naturalmente non lo fa e, non trovati gli idoli, rifà pace con Giacobbe (certo che è un bonaccione!), alzano insieme un muro di pietre e concordano che sia il confine tra le loro terre giurando Làbano sul dio di Abramo ed il dio di Nacor, e Giacobbe sul terrore di suo padre Isacco (dei diversi ed entità strane). Nella Bibbia vi sono molti dei ed i patriarchi non se ne accorgono ed i profeti non ne fanno mistero, salvo il fatto che tutti dicono di avere un solo dio.

Ma torniamo a Giacobbe che era scappato anni addietro dallo zio per sfuggire all’ira di Esaù. Giacobbe decide di andare incontro al fratello per fare pace (come?) ma viene a sapere che Esaù marcia verso di lui con 400 armati. Allora si rivolge a Geova chiedendogli: “salvami dalla mano di mio fratello Esaù, perché io ho paura di lui: egli non arrivi e colpisca me e tutti, madre e bambini!” (32,12). Caspita, di quale madre parla? Sono quattro! Ed i figli, per ora, restano 11. Così Giacobbe pensa di inviare degli schiavi che lo precedano dicendo loro che se incontrano Esaù dicano che sono essi stesi un omaggio di Giacobbe, che viene dopo di noi, per fare pace.

E qui altra suspence. Il discorso passa ad altro per un poco. “Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi 11 figli, e passò il guado dello Iabbok” (32,23) [osservo che ora i conti delle mogli sono ben fatti. Ah! profeta, profeta!]. “Giacobbe restò solo, e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora colpendolo ad un certo punto all’articolazione del femore in modo da sciancarlo” (32,27). A questo punto l’uomo dice a Giacobbe: “Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora!” e Giacobbe gli diceva “non ti lascio andare se non mi avrai benedetto!”. E quello a Giacobbe: “Dimmi come ti chiami”. E l’altro: “Giacobbe”. Ed il primo: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini, ed hai vinto!” (32,28 e 29). Ed arrivati a questo punto davvero ci si chiede se il profeta, lui questa volta, abbia bevuto! Vediamo. Chi è l’uomo? Anticipa il vampiro che si deve ritirare prima della luce? Mena Giacobbe e questi lo trattiene (vabbé, con tante degenerazioni possiamo anche capire il masochismo)? Ma poi gli dice che non è Giacobbe ma è Israele? Mah! Resta il fatto che finalmente compare questo nome: Israele! Da qui discende il fatto pratico che, in ossequio alla sciatica di Giacobbe, non mangiano il nervo sciatico: “gli israeliti, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico” (32,33). E tutta questa storia per concludere così? E’ una vera follia. Per dire che non si deve mangiare il nervo sciatico? Resta un dato linguistico importante, israel in aramaico significa colui che lotta e vince; si tratta di rivendicare questo nome togliendosi di dosso l’eber, l’errante.

Ora però ritorna lo sciancato Giacobbe ad incontrare Esaù. Tutto ciò che aveva truffaldinamente rubato allo zio, lo dà al fratello che si tranquillizza. Allora prosegue il viaggio fino a Sichem e compera in contanti un terreno nelle vicinanze “dai figli di Camor, padre di Sichem” (un figlio di suo padre?). Altra patria comprata, in analogia con quanto fatto da Abramo. Viene ora una storia esemplare che vede protagonista Giacobbe-Israele in quel di Sichem. “Dina, la figlia che Lia aveva partorito a Giacobbe [settima ed unica femmina, ndr], uscì a vedere le ragazze del Paese. Ma la vide Sichem, figlio di Camor l’Eveo, principe di quel paese e la rapì, si unì a lei e le fece violenza” (34,1). Ma il profeta ci dice che però era un bravo ragazzo: “egli rimase legato a Dina, figlia di Giacobbe; amò la fanciulla e le rivolse parole di conforto” (34,3) quindi chiese al proprio padre Camor: “prendimi in moglie questa ragazza”. Giacobbe, saputo della violenza alla figlia si indigna ed aspetta il ritorno degli 11 figli maschi che :”ne furono addolorati e si indignarono molto … così non si doveva fare!”. Ma arriva Camor (con Sichem) e tenta il matrimonio riparatore. Ma qui viene fuori la doppiezza spietata di Giacobbe. I figli di Giacobbe, parlando con “astuzia” dicono: “Non possiamo fare questo, dare cioè la nostra sorella ad un uomo non circonciso, perché ciò sarebbe un disonore per noi. Solo a questa condizione acconsentiremo alla vostra richiesta, se cioè voi diventerete come noi, circoncidendo ogni vostro maschio. Allora noi vi daremo le nostre figlie e ci prenderemo le vostre, abiteremo con voi e diventeremo un solo popolo” (34,14-16). Un patto all’antica per pacificare due tribù. Sichem ed i suoi accettarono facendosi circoncidere (qui occorre ricordare che nelle istruzioni che Geova aveva dato sulla circoncisione vi era il fatto che essa doveva avvenire all’ottavo giorno di vita, infatti per gli adulti è una operazione fastidiosa e dolorosa). A tre giorni dalla circoncisione, quando tutti i maschi della città di Sichem “erano sofferenti, i due figli di Giacobbe, Simeone e Levi [presumibilmente con servi e schiavi armati, n.d.r], fratelli di Dina, presero ciascuno una spada, entrarono nella città con sicurezza e uccisero tutti i maschi” (34,25). Poi tutti “i figli di Giacobbe si buttarono sui cadaveri e saccheggiarono la città, perché quelli avevano disonorato la sorella” (34,27). Qui si tratta di un vero atto di terrorismo e barbarie. Perché coinvolgere tutta la città e non prendersela eventualmente con la famiglia dello stupratore? Tant’è! alla fine vi è pure il saccheggio dei beni e degli animali della città con la riduzione in schiavitù degli abitanti. Ma dove era Geova? Tutto bene? Inoltre: ma che popolo ha eletto tale dio? oppure: ma che dio ha un tale popolo? Assistiamo alla prima strage che il popolo di Geova realizza per impadronirsi di terra “promessa”. Poiché manca sia Geova che dio, è Giacobbe che dice qualcosa: “Allora Giacobbe disse a Simone e a Levi: ‘Voi mi avete messo in difficoltà, rendendomi odioso agli abitanti del paese …, mentre io ho pochi uomini; essi si raduneranno contro di me, mi vinceranno, ed io sarò annientato con la mia casa’ ” (34,30). Quindi nessun ripensamento morale ma solo un calcolo opportunistico al quale i figli rispondono: “Si tratta forse la nostra sorella come una prostituta?” Eh, è proprio ciò che hanno fatto i vari patriarchi incontrati. Prostituivano le mogli spacciandole per sorelle.

Prima di passare al figlio di Giacobbe, Giuseppe, altre piccole notiziole sugli altri figli (Ruben e Giuda) e sulla fine dello stesso Giacobbe. Intanto iniziamo con la nascita dell’ultimo figlio di Rachele, Beniamino, non avrà storia oltre a completare a 12 i capostipiti delle tribù di Israele (una parte di storia sarà riservata alla sua discendenza), morirà invece sua madre, Rachele, nel parto.

Ruben, primogenito di Lia, “mentre Israele [si tratta evidentemente di Giacobbe, qui chiamato con quell'altro nome uscito in quell'incubo notturno, n.d.r] abitava in quel paese, Ruben andò ad unirsi con Bilha, concubina del padre ed Israele lo venne a sapere” (35,22). Intanto è di interesse notare le molte funzioni di Bilha. Ella è una volta schiava, una volta moglie ed una volta concubina. E’ anche la madre di di due fratellastri e coeredi di Ruben (Dan e Neftali). Quindi qui è anche l’amante del figlio della persona della quale era concubina. Sono solo di questo tipo i rapporti da quelle parti. Ma cosa dice il babbo? NIENTE, almeno per ora! Il profeta qui rifà la genealogia rifacendo morire Isacco (a 180 anni) che già era morto.

La storia di Giuda, quarto figlio di Lia, non può essere da meno. Egli sposa una donna non del clan, ma del paese di Canaan, Chira. Da Chira ebbe tre figli: al primo, Er, dà in moglie Tamar ma questi entra in conflitto con Geova (il motivo non è dato) e Geova lo fa morire senza eredi. A questo punto, secondo una legge del luogo che non ci era stata comunicata, la vedova viene data in sposa al secondogenito di nome Onan (proprio quello da cui …). La legge prevedeva anche che se gli fosse nato un figlio, questi avrebbe ereditato le sostanze del primogenito morto; in caso contrario queste sarebbero passate a lui (capito?). “Onan sapeva che la prole non sarebbe stata considerata come sua ogni volta che si univa alla moglie del fratello, disperdeva per terra” (38,9). Oggi si direbbe che praticava il coitus interruptus, ma ciò che faceva fu confuso con la masturbazione chiamata appunto onanismo dal suo nome. La cosa non piacque a Geova e fece morire pure lui. Il tutto venne inteso dal padre Giuda come colpa di Tamar che, naturalmente, viene rimandata a casa. Ma la storia continua con sottile perversione. Tamar, tornata al suo paese, sapendo che Giuda deve recarsi da quelle parti, si veste da prostituta e subito riesce a concupirlo (tutto normale, no?). Il pagamento della prestazione prevede un capretto. Giuda non lo ha e lascia in pegno a Tamar il sigillo, il cordone ed il bastone. Ritornato per darle il capretto e riavere i pegni, Giuda non trova più Tamar. Tre mesi dopo viene a sapere che Tamar fa la prostituta (aveva trovato la cosa interessante) ed è rimasta incinta. Egli si arrabbia e … ordina che sia bruciata viva! Lei allora le dà indietro i pegni e Giuda dice che “‘essa è stata più giusta di me’. E non ebbe più rapporti con lei” (38,26). Ma (e qui si scopre che Tamar era incinta di Giuda) da quell’incontro tra suocero e nuora nel bordello nascono due gemelli che fanno una specie di danza per uscire in modo che non si capisce chi è il primo e chi il secondo. Uno Perez, da cui discenderanno Davide e Gesù, e l’altro Zerach.

E ritorniamo ora alla linea principale di discendenza di Giacobbe, Giuseppe. Egli, in Palestina, “pascolava il gregge coi fratelli, e stava con i figli di Bilha e di Zilpa, mogli di suo padre”. Giuseppe diventerà più esperto del padre a sognare solo che quando i sogni li farà lui, li capiranno gli altri; quando li faranno gli altri, li capirà lui.

Veniamo ora ai primi due sogni, tanto per cominciare. Nel primo, mentre insieme ai fratelli lega il grano sul campo, il suo covone sta ritto in mezzo e gli altri gli si prostrano intorno. Nel secondo sono il sole, la luna e gli astri a prostrarglisi. Anche il padre (che non viene chiamato dal profeta perché, immagino, a questo punto non sa come chiamarlo: Giacobbe o Israele?) intuisce qualche raggiro e dice: “Che sogno è questo che hai fatto? Dovremmo forse venire io e tua madre e i tuoi fratelli a prostrarci davanti a te?” (37,18). I fratelli si ingelosirono ed un giorno vedendo arrivare Giuseppe al pascolo “si dissero l’un l’altro: ‘ecco, il sognatore arriva! Orsù, uccidiamolo e gettiamolo in qualche cisterna!’ ” (37,19 e 20). E’ così che si usa, no? E, detto fatto, lo spogliano e lo gettano nudo in una cisterna. L’arrivo di una carovana (di ismaeliti, i cugini discendenti da Abramo ed Agar) non fa portare a termine i propositi assassini. Allora Giuda ebbe l’idea di vendere Giuseppe ai carovanieri e, con un pastrocchio sempre più impicciato di racconto, alla fine Giuseppe viene venduto per “venti sicli d’argento”. E Giuseppe fu condotto dalla carovana, in Egitto, come schiavo. Al padre Giacobbe fu portata la sua tunica sporcata di sangue di un caprone e gli fu detto che Giuseppe era stato divorato da una belva, ed il padre lo pianse. Nel frattempo Giuseppe, in Egitto, viene venduto a Potifar, consigliere del faraone e comandante delle guardie (oltre che marito di una donna intraprendente, con la quale….). Beh, ormai si è capito come va il romanzo di appendice!

Giuseppe fece una gran carriera in casa di Potifar, amministrando i suoi beni. Tutto ciò avveniva perché Geova gli era a fianco e lo benediceva. Il fatto è che somigliava alla madre: bello di forma ed avvenente aspetto. E cosa credete sia accaduto? La moglie dell’eunuco Potifar si innamorò di lui. Giuseppe tentò di evitare la virago fino al punto di scappare lasciando nelle mani della donna la sua veste. Questa cosa dette il destro alla signora di denunciare Giuseppe per violenza ( a questo punto, dati i precedenti della famiglia, la signora avrebbe una qualche ragione di essere creduta, ma il profeta dice altro). La signora Potifar dice al marito che “Quel servo ebreo … mi si è accostato per scherzare con me…” (39,17 e 19). Questa frase chiarisce anche la precedente letta in occasione di Abemelech che dalla finestra vedeva Isacco scherzare con Rebecca: scherzare nella Bibbia ha il significato ben preciso che voi avete capito. Allora Potifar imprigiona Giuseppe il quale, con l’aiuto di Geova, diventa una sorta di carceriere capo. In altro luogo si dice che, stando in prigione, Giuseppe interpreta i sogni (per Giove, questo era il pezzo forte di Giuseppe!) di due fornitori (coppiere e panettiere) del faraone caduti in disgrazia ed ai quali disse che il primo sarebbe stato messo in libertà ed il secondo impiccato. Così avvenne (e te pareva!). E la cosa non poteva restare appesa così, come se si scherzasse. Passano due anni ed il faraone sogna e risogna. La prima volta sogna sette vacche grasse che escono dal Nilo, seguite da sette vacche magre con le magre che divorano le grasse. La seconda volta sogna sette spighe, grosse e belle, spuntate da un unico stelo, e sette spighe secche che se le inghiottirono. Allora convoca tutti i saggi d’Egitto (io sogno sempre una Banana flambé e so cosa vuol dire!) … tra questi, come no?, vi è il coppiere liberato, questi dice al faraone che…., ed il faraone…., e gli racconta (una altro racconto dettagliato che si ripete!) i sogni …., ed allora Giuseppe, aiutato da dio (e non da Geova) fornisce l’interpretazione: sette anni di abbondanza seguiti da sette anni di carestia, con non richiesto consiglio. Dice Giuseppe al faraone: “pensi, faraone, a trovare un uomo intelligente e saggio, e lo metta a capo del paese d’Egitto” (41,33). Di chi si tratterà? Allora Giuseppe ebbe l’incarico (in questi passi gli ebrei l’hanno fatta grossa perché un personaggio che assurge a viceré di Egitto in epoca storica, deve avere svariati riscontri storici che invece NON vi sono. La mancanza di trascrizione sui documenti viene spiegata buffonescamente: il Faraone del tempo di Mosè, secondo chi ci vuole prendere per fessi, non aveva inserito Giuseppe nella storia perché, essendo un personaggio appena arrivato, non conosceva niente della storia passata dell’Egitto). Il faraone gli fece sposare Asenat, la figlia di un altro suo eunuco, Potifare, sacerdote del dio del sole ad On (l’odierna Eliopoli). Giuseppe non è un pastore ma un agronomo di prima classe, soprattutto tenendo conto che non conosceva il paese dove era piombato. Eppure espose subito al faraone un piano di politica agraria (il profeta ci racconterà più tardi questo piano ma è meglio dirlo ora per continuità di discorso). Tale piano non è altro che l’invenzione di tutto il sistema politico ed economico dell’Egitto (insomma, qui si esagera! Il profeta imbroglia sovrapponendo conoscenze posteriori ed attribuendo i successi a Giuseppe; è il Cecil B. de Mille dell’antichità, fa dell’agiografia. Niente di male a farla, ma a crederla….!). Ecco il piano. Si tratta di creare dei funzionari per prelevare nel paese un quinto dei raccolti delle annate buone, immagazzinarli opportunamente e distribuirli poi nelle annate cattive. Sopravvenuta la carestia, il faraone potrà rivendere questo grano, non solo in Egitto ma anche in Palestina , dove la carestia, imprevista per mancanza di sognatori, infierirà peggio, con la conseguenza che il tesoro del faraone si accrescerà. E qui la cosa segue passando da un racconto innocuo del tipo Mille ed una notte, al filone crassatore della famiglia di Giuseppe. Infatti, quando i poveri egiziani ebbero finito il loro grano e “vennero da Giuseppe a dire: ‘dacci il pane! Perché dovremmo morire sotto i tuoi occhi?”….Rispose Giuseppe: ‘cedetemi il vostro bestiame, ed io vi darò il pane in cambio’ ” (47,15 e 16). Si sta depredando la popolazione egiziana e siamo solo al primo anno di carestia. L’anno seguente, le cose evidentemente peggiorano e gli egiziani dissero: “Non nascondiamo al mio signore che si è esaurito il denaro, ed anche il possesso del bestiame è passato al mio signore; non rimane più a disposizione del mio signore se non il nostro corpo ed il nostro terreno… Acquista noi e la nostra terra in cambio di pane e diventeremo servi del faraone” (47,18 e 19). Ed ecco che il teorico dello sfruttamento più bestiale, del passaggio di ogni strumento di produzione al padrone diventa un patriarca biblico. Giuseppe è un servo del padrone, alla faccia di milioni di persone affamate e rese schiave. “Così la terra divenne proprietà del faraone. Quanto al popolo, egli lo fece passare nelle città [schiavitù! n.d.r.] da un capo all’altro della frontiere egiziana. Soltanto il terreno dei sacerdoti egli non acquistò [cambiato molto poco, eh?]], perché i sacerdoti avevano una assegnazione fissa da parte del faraone e per questo non vendettero il loro terreno” (47,20-22).

“Poi Giuseppe disse al popolo: ‘vedete io ho acquistato oggi per il faraone voi ed il vostro terreno. Eccovi il seme, seminate il terreno. Ma quando vi sarà il raccolto, voi ne darete un quinto al faraone’…Così Giuseppe fece di questo una legge che vige fino ad oggi nelle terre d’Egitto” (47,23-26). Il citato ebreo Flavio Giuseppe, del 1° sec. d. C. ha il coraggio di dire: “essi divennero, oltre le loro speranze, proprietari delle terre” (Ant. Iud., II, 196). ed accrebbero la stima verso Giuseppe.

Lasciando altre considerazioni, a Giuseppe, che era stato messo dal faraone a capo di tutto il paese d’Egitto, fu cambiato anche il nome, Safrat Paneach. Analoga sorte che era stata seguita da Abramo e Giacobbe.

Poche sono le cose davvero d’interesse su Giuseppe. Egli, con la sposa egiziana, ha due figli (mezzosangue, non ebrei puri come altrove si era detto dovesse essere) che, come vedremo serviranno a mantenere il numero delle 12 tribù. Egli rincontrerà i fratelli (dei quali parlerò tra poco) ed il padre Giacobbe. Su Giacobbe, più volte citato, c’è solo da osservare il continuo oscillare del profeta sui suoi due nomi, Giacobbe ed Israele. Fino a dei veri e propri pasticci: “Dio disse ad Israele in una visione notturna: ‘Giacobbe, Giacobbe!” (46,2)……” allora lo spirito del loro padre Giacobbe si rianimò: Israele disse…” (45, 27 e 28).

Ma veniamo a Giacobbe ed ai fratelli di Giuseppe. Costoro vennero in Egitto per comprare grano, visto che la carestia aveva colpito anche la Palestina. Giuseppe li riconosce senza essere riconosciuto e si diverte un poco con loro spaventandoli. Li accusa di essere spie, impone loro di tornare a casa e di riportargli indietro il fratello minore Beniamino, rimasto a fare compagnia al padre, trattenendo in ostaggio Simone. Ma per spaventarli e creare imbarazzo ed ulteriore paura, quando partono con i sacchi di grano fa nascondere in essi lo stesso denaro con il quale avevano pagato il grano. Tornati da Giacobbe, stentano a convincerlo a fare andare con loro Beniamino. Ritornati in Egitto, dopo il lavacro ripetuto dei piedi, vengono invitati a pranzo da Giuseppe. Questi dà a Beniamino 5 volte più cibo che agli altri fratelli (qui non ho ben capito se si tratta di una tortura per Beniamino o una sofferenza per gli altri che non hanno da mangiare a sufficienza, n.d.r.). Poi li fa ripartire con altro grano e facendo rimettere di nuovo il denaro, con cui avevano pagato, nei sacchi ed una coppa d’argento nel sacco di Beniamino. Li fa inseguire dal capo della casa (il maggiordomo) in modo che venga scoperta la presunta refurtiva, con la conseguenza che essi sono denunciati come ladri. Quando tornano davanti a lui, il tentativo di scherzare (nel significato nostro) con loro come gatto con topi svanisce di fronte al pianto che lo coglie, al perdono verso i fratelli dai quali si fa riconoscere. Fatta la pace, Giuseppe li rimanda per la terza volta a casa pregando i fratelli di riportare in Egitto anche il vecchio Giacobbe: li avrebbe sistemati stabilmente in una terra alle foci del Nilo.

Fu così che tutta la famiglia, settanta persone in tutto, col patriarca Giacobbe, ” e con lui tutti i suoi discendenti; i suoi figli e i nipoti, le sue figlie e le nipoti, tutti i suoi discendenti, Giuseppe condusse con sé in Egitto” (46,6 e 7) e qui il profeta rifà tutta la genealogia con qualche confusione a cui ormai siamo abituati. Giuseppe li presenta al faraone ed assegna loro il paese di Gosen nella parte orientale del delta del Nilo. Non resta a questo punto che assistere alla morte di Giacobbe ed alle sue ultime volontà. Egli: “chiamò il figlio Giuseppe e gli disse: ‘se ho trovato grazia ai tuoi occhi, metti la mano sotto la mia coscia [altra promessa all'antica, attraverso i genitali, n.d.r.] e usa con me bontà e fedeltà: non seppellirmi in Egitto!” (47,29). Giacobbe ha già meditato sul come mettere a frutto le ultime ore del padre, proprio come Giacobbe aveva fatto con suo padre Isacco. Si presenta da lui con i due figli mezzo sangue, Manasse ed Efraim, per farglieli benedire, cioè proclamarli eredi legittimi al pari degli altri. E Giacobbe, con analogo equivoco di egli medesimo ed Esaù di fronte ad Isacco, si impiccia nella benedizione perché incrocia le braccia e con la destra benedice chi è a sinistra (Efraim) e con la sinistra chi è a destra (Manasse), con il sovvertimento della corretta primogenitura. Giuseppe prova a dire qualcosa ma Giacobbe insiste con la conseguenza che la tribù di Efraim diventerà la più importante. Per rimediare all’irrimediabile confusione, Giacobbe dà a Giuseppe, in più di quanto a lui spettante, “un dorso di monte che io ho conquistato dalle mani degli amorrei con la spada e con l’arco” (48,22). Che bugiardo è Giacobbe! Si vanta di una cosa non vera, infatti quella terra l’aveva comprata con 100 pezzi d’argento, come Abramo aveva comprato la terra per la tomba di Sara. Ed ora vengono le benedizioni, cioè il testamento di Giacobbe, tornato tale dall’Israele che era fino al brano precedente. E queste benedizioni, che dovrebbero prefigurare (meglio: postfigurare) il destino delle 12 tribù, come le genealogie, sono un pasticcio e molte non avranno esito. Il profeta le conclude dicendo: “Tutti questi formano le 12 tribù d’Israele, questo è ciò che disse loro il padre, quando li ha benedetti: ognuno egli benedisse con una benedizione particolare” (49,28). Ma le cose non stanno così (a che stava pensando il profeta?). Anzitutto non li ha benedetti tutti: uno non risulta benedetto, due risultano addirittura maledetti, altri trattati così e così. Poi le dodici tribù avrebbero dovuto essere già allora quello che poi saranno, dato che Giacobbe aveva benedetto a parte Manasse ed Efraim. Ma questi ultimi non figurano qui risultando quindi benedetti con la benedizione al padre Giuseppe. Eppure saranno due delle dodici tribù. Due racconti convergenti ma non concordanti? Comunque vediamo le “benedizioni”.

Ruben. primogenito finito ad est del Giordano (ai margini del deserto), “non avrà preminenza perché ha invaso il talamo di suo padre, ha invaso il suo giaciglio su cui era salito” (49,4). Giacobbe allora non disse nulla ma, a quanto pare, se l’era legata al dito.

Simeone e Levi sono messi insieme come nell’eccidio dei sichemiti appena circoncisi. L’ Giacobbe aveva detto poco, ora invece: “Simeone e Levi sono fratelli, strumenti di violenza sono i loro coltelli…Maledetta la loro ira …. io li dividerò in Giacobbe (?, n.d.r.) e li disperderò in Israele” (49,5 e 7). Simeone se ne andrà a sud avendo una misera discendenza assorbita da altre tribù, soprattutto Giuda. Levi invece non parteciperà alla divisione dei territori cananei occupati ma vivrà come addetto al culto di Geova (levita, appunto) per mezzo di decime pagategli dai fratelli. Quindi la maledizione è solo per Simeone. Per Levi è quel che si dice una “pacchia”. Ed infatti, dal “maledetto” Levi discenderà Mosè (se la genealogia non è fasulla).

Giuda, quarto figlio della sgraziata Lia, da cui nascerà Davide merita un trattamento che farò a parte. Gli altri figli delle concubine avranno briciole. Solo su Giuseppe, primogenito di Rachele, “germoglio di ceppo fecondo”, cadranno benedizioni e sarà lui ad avere il centro di tutto il territorio. Così Giacobbe poté morire. Fu imbalsamato all’uso egiziano (40 giorni), fu pianto (70 giorni), fu poi riportato a Canaan con il permesso del faraone e con solenne scorta militare. Anche i cananei, all’arrivo del convoglio, dissero che questo era un lutto grave per gli egiziani (caspita! proprio così: ormai i discendenti di Abramo sono intesi dalle popolazioni locali come egiziani! di inquinamenti di sangue, di permanenze in Egitto ve ne saranno ancora, di non circoncisi tra gli ebrei pure e di nascite in Egitto in quantità. Eppure questo è il popolo, puro di sangue e cultura, eletto da Geova!, n.d.r.).

Morto il padre, i fratelli iniziano ad aver paura della vendetta di Giuseppe (conoscono i caratteri della famiglia! n.d.r.) per il tentativo di fratricidio poi diventato SOLO una vendita di Giuseppe come schiavo. Si buttano ai suoi piedi piagnucolando: ” ‘Eccoci tuoi schiavi!’. Ma Giuseppe disse loro: ‘non temete. Sono io forse al posto di Dio?’ ” (50, 18 e 19). Quindi conforta tutti e vive felice e contento fino a 110 anni. Quando sta morendo promette alla sua discendenza che tornerà nella terra “promessa con giuramento” più volte da dio a tutti i suoi avi, meno che a lui. Quindi chiede di essere lì sepolto anch’egli. Ma, dopo l’imbalsamazione, non si sa più cosa ne è del suo corpo.

Con questo racconto la Genesi si chiude. Ha raccontato la storia di 4 patriarchi (con datazione incerta che va dal XIX al XV secolo a.C.) fra Siria, Palestina ed Egitto. Le cose scritte furono redatte nel VII secolo a.C., sotto Giosia, discendente di David, che regnava da Gerusalemme. Vi sono pochi riscontri storici, soprattutto in Egitto. Vi è invece un libro di estremo interesse, appena uscito, che parla delle molte fantasie della Bibbia, che ci dice, tra l’altro, che Gerusalemme acquisisce importanza proprio perché le cose scritte furono redatte lì, che i patriarchi hanno storie non corrispondenti alla realtà, che il tempio di Salomone è una invenzione, …. Cito questo libro, Le tracce di Mosè, perché è scritto da due ebrei, Israel Finkelstein, archeologo dell’Università di Tel Aviv, e Neil Asher Silberman, archeologo belga, che hanno proprio intrapreso un lunghissimo lavoro di ricerca archeologica ed hanno pubblicato i loro risultati nel 2001 (in Italia, per l’editore Carocci, 2002).

Passeremo ora a raccontare le vicende di Mosè avvertendo subito che anche qui il tutto è ripreso da una leggenda sumero-babilonese che parla di Sargon nvece di Mosè e dell’Eufrate invece del Nilo. Proseguendo le storie della Genesi, passiamo al secondo libro del Pentateuco, l’Esodo, che prosegue il racconto del popolo ebreo in Egitto, dove lo si era lasciato (dopo un vuoto di qualche secolo). Il racconto proseguirà (dopo la parentesi del liturgico e sacerdotale Levitico) in Numeri e, con qualche mescolamento, in Deuteronomio.

All’inizio dell’Esodo si legge che tutte le tribù ebraiche si trovavano in Egitto (la cosa è discutibile, ma ormai occorre essersi abituati alle incongruenze, n.d.r.). In questo luogo gli ebrei, dopo la morte di tutta la generazione di Giuseppe, “prolificarono e crebbero, e il paese ne fu ripieno” (1,7). Ciò vuol dire che passò almeno un secolo, dopo il quale “sorse sull’Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe” (1,8). Si tratta forse di Ramses II (1290-1224 a.C.) che si allarma per l’espandersi di questo popolo ospite che, proprio per questo, viene considerato invasore. Il popolo fu condannato alla schiavitù. Fu costretto a fabbricare mattoni per la costruzione di una città (Pi-Ramses ?) sul delta del Nilo e per ogni lavoro dei campi, rendendo loro amara la vita. Vi sono riscontri egiziani su questo ma il tutto sembrerebbe ingigantito. Risulta su una stele una sconfitta degli ebrei ad opera del successore di Ramses II, Menepta (1224-1204), a seguito di questa gli ebrei sarebbero stati respinti (da cui il loro esodo). Il fatto sarebbe descritto come una vittoria sia dagli egizi che dagli ebrei. Inoltre, un centinaio di anni prima di Ramses II, vi era stato in Egitto il tentativo di imporre il dio unico (il dio Sole) da parte del faraone Akenaton ((1374-1347). Mosè si situa all’epoca della costruzione da parte degli ebrei di Pi Ramses e la sua storia ne è evidentemente connessa

Le persecuzioni contro gli ebrei da parte di Ramses II non sono finite con la schiavitù. Poiché, nonostante essa continuano ad espandersi, il faraone decide di limitarne le nascite dando ordine alle levatrici ebre di sopprimere tutti i nati maschi (naturalmente la cosa non fu fatta). Ed allora il faraone ordinò che i nati maschi fossero gettati nel Nilo (non si capisce perché questa seconda cosa dovesse avere successo, visto il fallimento della prima, n.d.r.). Tra i finiti nel Nilo c’è il piccolo Mosè (ha tre mesi ed è figlio di due ebrei probabilmente leviti). Fu messo in un canestro impermeabilizzato e quindi non annegò (questa storia è comune a molte civiltà: Sargon – un millennio prima; Romolo e Ciro – un millennio dopo, anche se con i termini invertiti). Di Mosè non si hanno genealogie ed egli viene assegnato a quel Levi maledetto (prima e promosso sacerdote poi) perché autore della strage dei sichemiti. Mosè viene raccolto dalla figlia del faraone, venne fatto allattare per tre anni da una balia ebrea, venne poi adottato, visse a corte come figlio adottivo e “divenne un uomo assai considerato nel paese d’Egitto, agli occhi dei ministri del faraone e del popolo” (11,3). Mosè è egizio o ebreo?

Il problema si pone per vari motivi, anche perché la gente di Canaan già aveva chiamato Giuseppe ed i suoi fratelli, “egiziani”. Ma su questo torneremo oltre. Sta di fatto che la carriera di Mosè a corte dovette essere modesta. Il profeta non ci dice quasi nulla, non ci crea il clima dei fasti di Giuseppe. Ad un certo punto ci viene detto che: “quando fu cresciuto in età, egli si recò dai suoi fratelli: e notò i lavori pesanti da cui erano oppressi” (2,11). Questa constatazione esaltò Mosè fino a farlo diventare un volgare ribelle di strada, contrariamente a quanto leggeremo oltre “Mosè era il più mansueto di tutti gli uomini” (12,3). Infatti, appena “vide un egiziano che colpiva un ebreo, uno dei suoi fratelli, voltatosi attorno, e visto che non c’era nessuno, colpì a morte l’egiziano e lo seppellì nella sabbia” (2,11 e 12). E, dopo che il cronista ha saltato molti anni della vita di Mosè, ora diventa un cronista quotidiano. Infatti, “il giorno dopo uscì di nuovo e, vedendo due ebrei che stavano litigando, disse a quello che aveva torto: ‘perché percuoti il tuo fratello?’. Quegli rispose: ‘ chi ti ha costituito capo e giudice su di noi? Pensi forse di uccidermi come hai ucciso l’egiziano?’ ” (2,13 e 14). Ed allora Mosè si chiese se la cosa dell’assassinio fosse risaputa. Lo era tanto che il faraone ordinò di giustiziarlo. E Mosè si dette alla macchia vivendo avventurosamente nel deserto in difesa degli opressi). Giunto a Madian, vicino al pozzo (ancora!, n.d.r.) incontrò le sette figlie del sacerdote (primo sacerdote che si incontra e non ebreo) che si recavano al pozzo per abbeverare il loro gregge. Ma arrivarono anche altri pastori che volevano cacciarle, ma: “Mosè si levò a difenderle e fece bere il loro bestiame” (2,17). Allora le sorelle tornate a casa raccontarono di Mosè che le aveva aiutate ed il padre lo ricevette e gli dette in sposa una delle sue figlie, Zippora, che gli dette subito Gherson come figlio (sparito nelle successive genealogie).

Si abbandona qui la cronaca e si passa alle storie mitiche che si svolgono nel corso degli anni. Allora Geova, che ritorna all’improvviso, colpito dalla sofferenza del suo popolo, apparve a Mosè, che non lo conosceva, in un roveto ardente (che poi sarebbe un cespuglio del deserto, una specie di tamarisco che emette naturalmente gas e va a fuoco nella sua zona circostante con la sola elevata temperatura del deserto, senza che lo stesso cespuglio bruci). Mosè che non era uomo del deserto interpretò questo come un fatto divino e si sentì chiamato. Il dio gli disse che aveva visto la miseria del suo popolo in Egitto ed aveva deciso di trasferirlo in un paese dove scorreva latte e miele e concluse: “Ora va! Io ti mando dal faraone. Fà uscire dall’Egitto il mio popolo, gli israeliti!” (3,7-10). Qui Geova sembra dirci che Mosè è un egiziano. Gli dice infatti “mio popolo” e non “tuo”. Gli deve spiegare che il suo (di Geova) popolo è l’israelita. Anche Mosè risponde in modo equivoco: “Chi sono io per andare dal faraone e per fare uscire dall’Egitto gli israeleiti?” (3,11). Abilmente dice e non dice: dovrebbe dire che dal faraone non ci può tornare per quella storia dell’egiziano assassinato; dovrebbe anche dire che lui con gli israeliti ha a che fare per il fatto della balia; dovrebbe anche ditgli che gli israeliti non vogliono saperne di essere comandati da lui. E quando Geova insiste e gli risponde: “Ecco, io arrivo dagli israeleiti e dico loro: ‘ Il Dio dei vostri (vostri! n.d.r.) padri mi ha mandato da voi’. Ma mi diranno: ‘Come si chiama?’ E io cosa risponderò loro?” (3,13). Oltre a dire che quel Dio è “loro e non suo”, egli neppure sa il suo nome pur essendo stato fino a tre anni con balia ebrea e pur avendo difeso i suoi fratelli che vivevano lì ed il nome del loro dio doveva essere un fatto noto in Egitto. A questo punto Geova spiega: “Dio disse a Mosè: ‘Io sono colui che sono!’. Poi disse: ‘Dirai agli Israeliti: Io-sono mi ha mandato a voi’ ” (3,14) e continua: “Dirai agli Israeliti: ‘Geova, il dio dei vostri padri, il dio di Abramo, il dio di Isacco, il dio di Giacobbe, mi ha mandato a voi’ ” (3,15) e qui Geova dimentica Giuseppe. Ma Mosè è titubante, non gli crederanno. Ed a questo punto ecco l’intervento della magia più sfacciata che Geova aveva più volte proibito [(Lv. 19,26); (Dt. 18, 9-14) eccetera]. Gli fa prendere un bastone che diventa un serpente e poi torna bastone; gli fa apparire e sparire la lebbra dalla mano; e se non crederanno ancora a questo, gli dice, prendi l’acqua del Nilo, versala e diventerà sangue. Allora, con questi mezzi, Geova libera dall’idolatria gli ebrei portandoli alla terra promessa ed alla vera religione! Certamente stupefacente!

Mosè resta colpito dalla rappresentazione magica, ma (anche lui!, n.d.r.) non è convinto del tutto ed inventa una nuova scusa: “Scusami, Geova, io non sono buon parlatore; non lo sono mai stato prima e neppure da quando tu hai cominciato a parlare col tuo servo, ma sono impacciato di bocca e di lingua” (4,10). Così Mosè ci dice una cosa che successivamente verà smentita e dai molti discorsi che Mosè terrà e da Flavio Giuseppe che affermerà essere Mosè “uomo eccellente e nato per parlare alle moltitudini” (Ant. Iud., IV, 25). Geova lesina miracoli ed accetta le obiezioni di Mosè: “Non vi è forse il tuo fratello Aronne, il levita? Io so che lui sa parlar bene … Tu gli parlerai e metterai sulla sua bocca le parole da dire, e io starò con te e con lui mentre parlate, e vi suggerirò quel che dovrete fare. Parlerà lui al popolo per te: allora egli sarà per te come bocca, e tu farai per lui le veci di Dio ….. Terrai in mano questo bastone con il quale compirai i prodigi” (4,14-17). Questo dialogo è lo stesso che si ripeterà poco oltre, quando Geova dirà a Mosè di andare a parlare al faraone. In quest’ultimo caso dice qualcosa di straordinario, che non può parlare con il faraone (per chiedere l’esodo pacifico) perché non conosce la lingua egizia (“Come vorrà ascoltarmi il faraone, mentre io sono incirconciso quanto alle labbra?”) lui, vissuto alla corte del faraone!. Quale lingua conosce allora? E’ che il profeta, anche questa volta, era distratto o meglio ha messo insieme due racconti diversi della tradizione scrivendoli uno dietro l’altro. Tanto era distratto che l’incirconciso doveva essere riferito al colloquio con gli ebrei e non certo con quello con il faraone. Ma vi sono varie incongruenze in tutte queste storie. Intanto, mentre è corretto che, in seguito, agli ebrei parli Aronne, non lo è il fatto che negli altri libri (Pentateuco, Numeri e Deuteronomio) agli ebrei parli lui. Stupisce anche che il faraone non lo riconosca; in fondo era il nonno. Ma qui si vede come il profeta, trovatosi di fronte a quella parola chiave “incirconciso”, abbia dovuto usarla quasi a sottolinearne la sacralità dell’appartenenza al popolo ebraico. Risulta invece da tutti i documenti che la circoncisione era praticata da sempre in Egitto. Lo stesso Abramo inizia a praticarla per il suo popolo, quando ritorna a Canaan dall’Egitto. Il fatto è che gli ebrei ne dimenticarono l’origine e la credettero usanza loro e solo loro. Riferendosi al non essere circoncisi, più volte diranno “vergogna d’Egitto”. Con questo brano e con le storie precedenti ed antecedenti ci troviamo in grave difficoltà. Mosè dovrebbe essere egiziano e come tale circonciso. Mosè non può essere ritenuto circonciso da chi assegna tale pratica solo al proprio popolo. Chi è Mosè?

A questo punto viene la storia edificante delle piaghe d’Egitto. Ed è la seconda volta in relativamente poco tempo che gli ebrei provocano delle piaghe in quel Paese. Le piaghe che sono il ricatto alò faraone per liberare gli ebrei consistono in: acqua del Nilo che diventa sangue, invasione di rane, invasione di mosconi, mortalità del bestiame, ulcere pustolose, grandine, cavallette e tre giorni di tenebre. A parte l’intervento delle pratiche magiche di cui Geova fu maestro con Mosè, vi sono una serie di cose ritenute piaghe da un popolo, l’ebreo, che non sopportava il clima egizio. Ma vi è la piaga delle piaghe che rende le prime addirittura ridicole: la morte dei primogeniti maschi egiziani (anticipazione della strage degli innocenti e ricordo del supposto annegamento dei primogeniti del popolo ebraico). Insomma non poteva accadere altro: gli egizi riempiono d’oro gli ebrei perché se ne vadano. Ed il profeta anche qui è distratto perché non ci fa capire cosa accade realmente: gli ebrei trovarono favore presso il popolo egiziano o lo spogliarono; vollero partire o furono scacciati; partirono in gran fretta o organizzati ed armati. Nell’insieme si ha un quadro di una plebe oppressa che viene sottratta dai lavori forzati, inseguita da un esercito che, durante un’alta marea, viene ad impelagarsi nel mar Rosso. La narrazione di questa fuga con relativo inseguimento è una bella favola con le caratteristiche del racconto egizio.

Geova si alterna (o confonde) con un angelo nel guidare il popolo ebraico. Di giorno loo guida con una nube nera, di notte con una colonna di fuoco per fargli luce. Il faraone che insegue ha con sé tutto il suo esercito. Gli ebrei hanno paura ed arrivano al mare. Qui Mosè, aiutato da un forte vento d’Oriente, respinse il mare e fece attraversare gli ebrei all’asciutto. Quando gli ebrei furono passati, le acque, prima apertesi, si richiusero sopra l’esercito egiziano, distruggendolo.

Mosè ha vinto, ed ha portato in salvo “una grande massa di gente promiscua … e raccogliticcia” (12,38). Così il popolo di Israele è fatto di gente raccogliticcia? La cosa è normale se si segue una idea di liberazione (egiziani schiavi, schiavi di altri Paesi, mezzi sangue, di tutto cerca di sottrarsi alla schiavitù). La cosa diventa imbarazzante se la si guarda dal punto di vista della tradizione religiosa che vorrebbe un popolo, il popolo di Abramo puro ed incorrotto ed inoltre, caspita!, circonciso (con tutti i problemi che nascono nella ammissione o meno della circoncisione degli egizi). Questa storia della circoncisione è un poco ossessiva e riguarda anche Mosè, come abbiamo già visto. Vi è un brano dell’Esodo che suona straordinario. Come quella lotta notturna della Genesi con non si sa chi. “Mentre si trovava in viaggio, nel luogo dove pernottava, Geova gli venne incontro e cercò di farlo morire. Allora Zippora [la moglie, n.d.r] prese una selce tagliente, recise il prepuzio del figlio e con quello gli toccò i piedi [cioè il sesso, n.d.r] e disse: ‘Tu sei per me uno sposo di sangue a causa della circoncisione’ ” (4,24-26). L’interpretazione di questo passo oscuro ed apparentemente fuori posto è che Geova, adirato per la non circoncisione di Mosè [è straordinario questo dio che si accorge ora del fatto che chi deve guidare il suo popolo non ha i requisiti per farlo!, n.d.r], voglia ucciderlo; e che allora la moglie, circoncidendo il figlio ma fingendo di staccare il prepuzio dal pene del marito, simuli la circoncisione. A questo punto si resta allibiti: l’apparenza, il rituale liturgico, soppianta la realtà?!?! E Geova che se la beve. Verrebbe da ridere se la cosa non fosse estremamente seria.

Cosa si ricava? Mosè non era circonciso e non lo fu. Quindi non era ebreo nel senso della tradizione ebraica. In tal senso il brano precedente diventa comprensibile se solo si sostituisce al soggetto “Geova”, l’altro soggetto “il popolo di Geova”. La circoncisione falsa era un modo per far digerire Mosè agli ebrei e non certo per ingannare dio. E questo Mosè, sia qual sia il suo status è il fondatore dello Stato ebraico, di quella “masnada di gente raccogliticcia”, ribellatasi ai lavori forzati del faraone. E’ il capo dei ribelli, lo spartaco della situazione che, dopo una fuga avventurosa, si sottrae ad un dominio odioso per andarlo ad imporre ad altri popoli che hanno il solo torto di trovarsi in mezzo (nella zona di nessuno) dei due grandi imperi, quello dell’Eufrate e quello del Nilo. Mosè si guadagnerà i galloni di capo di quel popolo nella lunga traversata del deserto tra mille difficoltà. Il non circonciso sarà a capo del popolo dei circoncisi e quelli che non lo erano lo saranno ad opera di Giosuè, al momento dell’ingresso nella terra promessa.

Mosè sta quindi fondando il nuovo Stato di Israele. Oltre a quella egiziana, altre culture interverranno. A cominciare da quella della moglie di Mosè, Zippora, che era di cultura madianita. Il padre di Zippora, Jetro (che prima si chiamava Reuel, n.d.r.) gli fornirà il primo modello di organizzazione dello Stato. Poiché Mosè da solo tentava di mettere ordine tra la sua gente raccogliticcia, Jetro gli dice: “Perché siedi tu solo, mentre il popolo sta presso di te dalla mattina alla sera? … Ti voglio dare un consiglio, e Dio sia con te! Tu stà davanti a Dio in nome del popolo, e presenta le questioni a Dio. A loro spiegherai i decreti e le leggi … Invece sceglierai tra tutto il popolo uomini integri che temono Dio, uomini retti …, e li costituirai sopra di loro come capi di migliaia, capi di centinaia, capi di cinquantine e capi di decine: Essi dovranno giudicare il popolo in ogni circostanza; quando vi sarà una questione importante, la sottoporranno a te …” (18,14 e 19,22). Vi è qui un passaggio fondamentale. Una cultura diversa, sedentaria, definisce uno Stato per un popolo nomade. Nasce una burocrazia piramidale di giudici con un capo che la amministra in nome del popolo. E’ una operazione analoga a quella di Solone in Grecia e di Servio Tullio a Roma: spariscono le tribù a favore di divisioni della popolazione in base al numero. Ma qui nasce un problema che a questo punto tutti si sono posti. Se ne rende conto anche Geova. Non vi sono leggi da amministrare! Ed allora Geova costruisce una sceneggiatura alla Cecil B. De Mille e fornisce le Leggi che mancavano.

Gli israeliti si erano accampati accanto al monte Sinai quando Mosè venne convocato da Geova in mezzo a una bufera o una eruzione vulcanica (visione laica, n.d.r.). Egli disse a Mosè di riferire queste parole al suo (di Geova, n.d.r.) popolo: “Se custodirete la mia alleanza, sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa!” (19,5). E qui uno potrebbe anche preoccuparsi. Da una terra promessa si passa a tutta la terra! Dalla promessa di una conquista si passa ad una nazione santa! Qui abbiamo effettuato una svolta storica rispetto ad Abramo. Dette le cose ora scritte al popolo, questo in coro disse: “Quanto Geova ha detto, noi lo faremo!” (19,8). Ecco uno dei primi pronunciamenti popolari in favore di Geova. Da qui nasce il geovismo come religione esclusiva del popolo ebraico, di quella masnada raccogliticcia. Geova annuncia successivamente a Mosè: “Ecco io sto per venire verso di te in una densa nube, perché il popolo senta quando io parlerò con te, e credano sempre anche a te” (19, 9). Ed a questo seguono minacce di morte ripetute più volte per chi toccherà il monte. Mosè aggiunge per buon peso, tre giorni di astinenza sessuale per il popolo. Ed ecco l’evento così preparato.

“Appunto al terzo giorno, sul far del mattino, ci furono tuoni, lampi, una nube densa sul monte ed un suono fortissimo di tromba … Tutto il popolo fu scosso dal terrore. Il monte Sinai era tutto fumante” (19,16 e 17). Geova aveva Mosè di fronte. Gli ordina, incomprensibilmente (a meno che non gli servisse un interprete, n.d.r.), di scendere dal monte e di tornare su con Aronne. A questo punto Geova “pronunciò queste parole…” (20,1) e qui vi è il decalogo che viene ripetuto in due versioni. In una è lo stesso Geova che scrive con il suo dito le tavole. Nell’altra Geova detta a Mosè le leggi, raccomandandogli di scrivere con calligrafia chiara. Il fatto straordinario è che in tale decalogo non vi è traccia della circoncisione, dell’unico comandamento di Geova ad Abramo. In fondo non interessava troppo questo aspetto a Mosè, proprio perché non era un ebreo. Comunque Mosè comunicò le leggi al popolo ed il popolo le accettò. Ricomincia qui il racconto appena terminato dell’apparizione di Geova a Mosè (succede spesso, n.d.r.) e si aggiunge la minuziosa descrizione del tempio e delle vestimenta dei sacerdoti (cosa saranno forse lo sapeva solo il compilatore del VII secolo a.C. oppure il riferimento era ad altre religioni, n.d.r.). Arriviamo alla fine di questa seconda narrazione, al ritorno di Mosè dalla montagna per leggere al popolo di Geova le sue (di Geova?) volontà. Ma qui vi è la sorpresa. Il popolo di Geova si diverte con un vitello d’oro (il Bue Api?) con tutte le perfide conseguenze per il popolo di Israele (e non solo). Qui Geova sapeva di antemano cosa avrebbe trovato Mosè appena disceso dal monte. E Geova vuole distruggere quel popolo. Ma Mosè intercede e Geova perdona. C’era da sperare che il perdono chiesto da Mosè a Geova fosse anche di Mosè. Invece questi imbufalisce al vedere vitello e danze e se la prese con le tavole della legge sbattendole per terra e spezzandole! Un vero sacrilegio, soprattutto nel caso che queste tavole fossero state scritte dalla stesa mano di Geova (prima versione della trasmissione delle leggi).

Mosè spezzò anche il vitello d’oro e lo bruciò, fatto che mostra quindi l’essere il vitello di legno dorato. Ma l’ira prosegue contro “questo popolo che non aveva più freno perché non aveva più freno” (32,25) (caspita, una logica stringente!, n.d.r.). Mosè disse che chi era con Geova doveva mettersi dalla sua parte, facendo quindi un vero appello alla guerra civile. Tutti i leviti gli si raccolsero intorno e Mosè disse loro: “Dice Geova, dio d’Israele: ‘Ciascuno di voi tenga la spada al fianco. Passate e ripassate nell’accampamento da una porta all’altra: ognuno uccida il proprio fratello, ognuno il proprio amico, ognuno il proprio parente’ ” (35,25-27). Qui Mosè mente perché poco prima Geova gli aveva detto che perdonava il suo popolo. Oppure ha mentito il profeta. Sta di fatto che i leviti “agirono secondo il comando di Mosè, e in quel giorno perirono circa tremila (un’altra versione parla di ventimila) uomini del popolo” (32,28). Il tutto ha l’apparenza di un colpo di Stato da parte di Mosè e della sua tribù (i leviti genitori e balia) contro altre tribù.

Mosè si compiace con gli assassini e li promuove. Geova li benedice perché hanno ammazzato amici e parenti. Qui Geova, ripeto, era stato buono ma si intravede l’uso della religione come instrumentum regni. La cosa prosegue con Mosè che va a raccontare a Geova quello che Geova gli aveva raccontato ed era accaduto. Geova si adirò per quanto sente (qui non resta che stupire) e “percosse il popolo perché aveva fatto il vitello fatto da Aronne” (32,35). Ed a questo punto, sembrerà incredibile, ma ricomincia tutta la storia di Mosè che va sul Sinai,…eccetera, fino all’arrabbiatura e alla strage e….

Con quest’altra storia edificante si chiude l’Esodo.

Mosè è ora il capo del popolo di Israele. Seguiremo altre sue vicende su altri libri del Pentateuco. Intanto occorre dire che già dagli episodi del Sinai intravediamo i leviti come suoi sacerdoti-gendarmi. La Bibbia in molte parti ci dice che i leviti erano “mansueti” come il loro capostipite, Levi. Ma se andiamo a ricordare ci ritroviamo con il massacro che Levi, insieme a suo fratello Simeone, realizza a Sichem. Massacro per il quale sarà maledetto dal padre Giacobbe, per poi essere premiato con il sacerdozio e con il fatto che tutti gli altri fratelli dovevano dargli una decima. L’altro è il massacro di coloro che non facevano parte della tribù levita e che insieme ad Aronne avevano festeggiato con il vitello dorato.

Osserviamo intanto che, con Mosè, cambia la struttura del potere tra gli ebrei. Prima il capotribù era tutto, anche sacerdote. Ora il sacerdote inizia a costituire una casta separata dagli altri. Una casta cui dallo stesso Mosè viene assegnato il potere di controllo, anche militare, sul popolo. In punto di morte Mosè benedirà i leviti per lo stesso motivo per cui Giacobbe li aveva maledetti: la violenza assassina che non guardava in faccia a nessuno. Dice Mosè: “Dà a Levi i tuoi Tummin, ed i tuoi Urim all’uomo a te fedele [questa espressione sta per: dai agli uomini che ti dico gli strumenti per conoscere la volontà di Dio], a lui che dice del padre e della madre: io non li ho visti ; che non riconosce i suoi fratelli ed ignora i suoi figli. Essi insegnano i tuoi decreti a Giacobbe e la tua legge ad Israele” (Dt., 33,8-10).

La vocazione omicida dei leviti si ripropone anche in altri episodi (vivo ancora Mosè, ma morto Aronne). Alcuni di questi episodi rappresentano la ribellione di altre tribù. In qualche modo si ripeteva a Mosè ciò che in Egitto gli aveva detto quello schiavo ebreo: insomma, chi credi di essere per poterci comandare? Altri episodi avevano origini diverse. Il più orrendo è quello di Peor, raccontato in Numeri . Il protagonista è Pineas, figlio di Eleazaro, figlio di Aronne, quindi per diritto ereditario, gran sacerdote. Siccome gli israeliti avevano iniziato ad avere rapporti con le donne dei madianiti, Geova ordinò a Mosè (che aveva sposato una madianita!) di “appendere al palo i colpevoli, davanti a Geova, il sole [reminiscenza del dio sole di Akenaton?,n.d.r]” (Nm.,25,4) al fine si immagina di educarli.. Ma Pineas utilizzò una variante: vedendo un israelita andare con una madianita, “prese in mano una lancia, seguì quell’uomo di Israele nella tenda e li trafisse tutti e due, l’uomo di Israele e la donna, nel basso ventre” (Nm.,25,8), cioè nel sesso. Si torna alle origini, al delitto d’onore o comunque a sfondo sessuale, inaugurato da Levi con i sichemiti. Questo duplice assassinio viene premiato per bocca di Geova in persona: “Io stabilisco con lui un’alleanza di pace, che sarà per lui e la sua stirpe dopo di lui, un’alleanza di un sacerdozio perenne, perché egli ha avuto zelo per il suo Dio e ha fatto il rito espiatorio per gli israeliti” (Nm.,25,12-13). Ma vi è di più, proprio nell’ultima frase della penultima citazione, quella di Mosè: si attribuisce a questi sacerdoti-gendarmi-assassini un compito di grande responsabilità: quello dell’insegnamento della religione.

Tra vari episodi, ci viene raccontata anche la congiura ordita contro Mosè da parte della sorella Maria (profetessa) e dal fratello Aronne. “Maria e Aronne parlarono contro Mosè a causa della donna etiope [madianita,n.d.r] che aveva sposato … Dissero: ‘Geova ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro?’ ” (Nm.,12,1-2). Rispetto a tutto quello che si è detto prima, il discorso dei congiurati non fa una piega, particolarmente la proibizione di sposare donne straniere. Ma Geova si schiera ancora con Mosè in modo coreografico: “Scese in una colonna di nube, si fermò all’ingresso della tenda” rimproverando i due fratelli ed esaltando Mosè. E, quando se ne andò, “la nuvola si ritirò di sopra la tenda, ed ecco, Maria era lebbrosa, bianca come neve” (Nm.,12,5 e 9), salvo farla guarire dopo 7 giorni.

Chiudo con il seguire le vicende “cronologiche” della Bibbia. Continuerò invece con quattro degli episodi più significativi presi in altri Libri e con delle considerazioni generali.

Giosuè ed il dio eletto (1° di 4 episodi rilevanti della Bibbia)

Sul fatto che quella “masnada di raccogliticci” al seguito di Mosè avesse un dio certo vi è da discutere. Intanto fu Mosè il primo a dare una direttiva certa, con il massacro sotto il Sinai di tutti coloro che non erano con Geova. I leviti inaugurarono la casta dei sacerdoti-gendarmi ed il tutto resta così in termini di potere, fino a Giosuè, quando vi è un altro cambiamento strutturale. Passiamo quindi ai libri storici. per seguire un poco le vicende di Giosuè, braccio destro, erede di Mosè e conquistatore di gran parte della terra promessa, nella quale, nonostante le tante e ripetute promesse, Geova impedì a Mosè di entrare.

Geova è un dio che ha un’alternanza di adesione. E Giosuè è un’altra tappa che porta all’adesione ma in modo diverso, come vedremo. Al termine delle sue conquiste, prima di morire (a 110 anni!), Giosuè raduna tutte le tribù di Israele a Sichem per parlare loro e cercare risposte plebiscitarie. Egli ricorda che: “I vostri padri, come Terach padre di Abramo e padre di Nacor, abitarono dai tempi antichi oltre il fiume [alta mesopotamia], e servirono altri dei” (Gs. 24,2) e ricorda la storia della conquista attribuendone merito a Geova concludendo: “Temete dunque Geova, e servitelo con integrità e fedeltà; eliminate gli dei che i vostri padri servirono oltre il fiume [a Carran] e in Egitto, servite Geova. Se vi dispiace di servire Geova, scegliete oggi chi volete servire: se gli dei che i vostri padri servirono oltre il fiume, oppure gli dei degli Amorrei, nel paese dei quali abitate” (24,14 e 15).

In questo brano si dicono varie cose. A Carran, Abramo aveva altri dei e non conosceva Geova. In Egitto gli ebrei che seguirono Mosè avevano altri dei, come il Bue Api che tentarono di ricostruire (il vitello dorato).

Nell’esodo gli ebrei sembrano proprio non avere ancora un loro dio. A questo punto Giosuè offre una scelta, addirittura tra tra tre gruppi di divinità, quelle mesopotamiche, quelle egizie e quelle palestinesi (amorree) ma con l’avvertenza (da non trascurare, per le possibili conseguenze!) che egli e la sua casa hanno scelto di “servire Geova”. Di fronte a questa cosa gli ebrei avevano già una risposta, o no? “Lungi da noi l’abbandonare Geova per servire altri dei … Anche noi vogliamo servire Geova, perché egli è il nostro dio” (Gs., 24,16-18). Ma Giosuè insiste con un discorso in cui sembra negare ciò che vuole: “Voi non potrete servire Geova, perché è un Dio santo, un Dio geloso … Se abbandonerete Geova e servirete dei stranieri, egli vi si volterà contro …” (24,19-20) ed il popolo, naturalmente: “No! Noi serviremo Geova!” (24,21).

Abbiamo qui un ottimo quadro di una società politeista con un venditore di un dio rispetto ad un altro. Per di più un tal dio è anche geloso e vendicativo. Definizione di un principio di intolleranza verso altre religioni che vuol dire, verso altre culture ed altri popoli. E Giosuè può concludere: “Voi siete testimoni contro voi stessi che vi siete scelto Geova per servirlo … Eliminate gli dei dello straniero, che sono in mezzo a voi, e rivolgete il cuore verso Geova, dio di Israele” (24,22 e 23). Ecco che il popolo eletto ha in realtà eletto il suo dio: la vera storia del popolo eletto da dio ci si è rivelata come la storia del dio eletto dal popolo! Anche se, naturalmente vi sono altrove affermazioni opposte (ma la Bibbia dice e dirà sempre tutto ed il contrario di tutto).

La scelta solenne fatta in presenza di Giosuè, naturalmente non fu definitiva. I tradimenti seguirono. Infatti, “Dopo quella generazione ne sorse un’altra, che non conosceva Geova … e servirono i Baal … e seguirono altri dei di quei popoli che aveva intorno” (Gdc., 2,10,12). C’è a questo punto da osservare che vi è una sorta di lunga marcia dal politeismo al monoteismo con la triste constatazione del fatto che questo non fu certo un avanzamento, ma una chiusura verso gli altri, una sorta di razzismo.

Su Giosuè vi ancora altro da dire. Con il racconto delle sue imprese troviamo nei libri storici l’inizio di quella categoria storica che è l’idea dello sterminio di chi non è con lui, dalla propria parte. Israele mostra dalla Bibbia di non conoscere altri rapporti con altri popoli che non siano di sterminio. E lo sterminio va oltre la strage in campo di battaglia (opera indegna di ogni esercito); esso investe tutta la popolazione, talvolta risparmiandone bambini e donne per farne schiavi e concubine (ma talvolta sacrificando anche loro , come contro i madianiti). Questo sterminio è presenza ossessiva in tutto il libro di Giosuè: “Così Giosuè batté tutto il paese … Non lasciò alcun superstite e votò allo sterminio ogni essere chje respira, come aveva comandato Geova, dio d’Israele” (Gs., 10,40). Ebbene questo è un ritornello che si ripete SEMPRE nel libro di Giosuè. E la Bibbia si compiace talmente dello sterminio da inventare perfino il noto episodio del sole e della luna fermati da Giosuè per prolungare il giorno, in modo da completare il massacro; e da spiegarci come gli ebrei si trattenessero sei mesi nel paese dei madianiti, per non lasciarvi superstiti. E non mancano frasi lapidarie del tipo: “Poi il paese non ebbe più guerra”; “Nessuno mosse più lingua contro gli israeliti”.

Viene subito in mente l’Iliade che tra ogni crudeltà prevede l’infinita tenerezza tra Ettore ed Andromaca ed il loro figlioletto Astianatte; c’è il tragico pianto di Achille per la morte dell’amato Patroclo; c’è la pietà dello stesso Achille di fronte al padre del nemico ucciso … E così per ogni altra tragedia guerresca dell’antichità. A lato di vergogne vi è sempre la speranza che nasce dalla pietà, dal tentare di avvicinarsi alle ragioni del “nemico”. Qui no! Qui non vi è mai ombra di pietà. Lo sterminio deve sempre essere compiuto fino in fondo. E neanche a prendersela con il popolo ebraico. E’ Geova che vuole così! Questo, cioè quello descritto dalla Bibbia, è il suo mondo di promesse.

Gli altri episodi.

Gli episodi successivi, di interesse per la nostra ricostruzione del filo storico della Bibbia, riguardano Salomone, Giosia ed Esdra.

Dopo Giosuè, il periodo dei giudici, quello dell’effettiva conquista, vede l’alternarsi del geovismo con culti assorbiti da popolazioni locali. Con l’avvento della monarchia, le cose non andranno diversamente. Saul, il fondatore della monarchia, per iniziativa del giudice-sacerdote Samuele, cade in disgrazia per “non aver fatto ciò che è giusto agli occhi di Geova”, cioè per non aver sterminato tutti i filistei. Con gli eredi di Saul, Davide e suo figlio Salomone, si ha il periodo d’oro della monarchia nel nome di Geova ma con molti cedimenti ad altri culti: “Giuda e Israele erano numerosi come la sabbia del mare e mangiavano e bevevano allegramente” (1 Re, 4,20). Davide fu il fondatore della monarchia teocratica e colui che trasportò l’arca dell’alleanza a Gerusalemme. Inoltre egli fabbricò un altare, su una delle alture della prima sconosciuta Gerusalemme, sul quale sacrificare a Geova. Qui, nella Bibbia seguono racconti, come sempre non concordanti nel vari Libri. La loro caratteristica comune è che sono costruiti, come nel costume di molte tradizioni antiche, in una epoca in cui i fatti sono già accaduti ma con la pretesa sensazione che i fatti siano profetizzati da un’epoca precedente. Quindi il famoso tempio di Salomone sembra essere profetizzato già sotto Davide ed in modo da tentare paralleli con Mosè e la sua costruzione dell’Arca dell’alleanza, dati i progetti che vengono forniti dallo stesso Geova.

Ma prima di andare oltre su questo tempio che segnerà, nella Bibbia, una svolta politica e culturale è, come già detto, fondamentale riferirsi allo studio ponderoso di due archeologi ebrei contemporanei, Israel Finkelstein (Nadler Institute of Archeology all’Università di Tel Aviv) e Neil Asher Silberman (Centre for Public Archeology and Heritage Presentation, Belgio), recentemente pubblicato in Italia e dal titolo: Le Tracce di Mosè, Carocci, 2002. Dicono i nostri autori: “Una lettura ravvicinata della descrizione biblica dell’epoca di Salomone suggerisce in modo evidente che si tratta della raffigurazione di un passato idealizzato, una gloriosa età dell’oro. … Oltretutto non esiste neanche un singolo testo egiziano fra quelli noti che nomini David o Salomone per la loro ricchezza e la loro potenza. E le testimonianze archeologiche dei famosi progetti architettonici di Salomone a Gerusalemme sono inesistenti. Gli scavi effettuati nel diciannovesimo ed all’inizio del ventesimo secolo intorno alla collina del Tempio a Gerusalemme non sono riusciti ad identificare nemmeno una traccia del leggendario edificio o del complesso palazzo di Salomone” (pag. 143). Questa testimonianza scientifica da parte di studiosi ebrei dovrebbe sgombrare il campo da mitologie e superstizioni. Si tenga presente quanto detto nella interpretazione di ciò che segue.

La costruzione del tempio, da parte di Salomone, rappresenta, come accennato, un momento di accentramento del potere politico e religioso nella terra di Giuda, la più meridionale di tutte le tribù e la più lontana dai contatti esterni, soprattutto con le popolazioni del nord. Questa commistione di potere politico e religioso viene fuori clamorosamente (ed in modo blasfemo) in una frase della Bibbia: “Salomone decise di costruire un tempio al nome di Geova ed una reggia per sé” (2 Gr., 1,18) nella quale frase vi è la perfetta parità dei poteri e non una discendenza di uno dall’altro. Questa è l’eredità che noi abbiamo nella Chiesa di Roma: per secoli sulle chiese hanno figurato nomi di Papi e/o di santi, dimenticando l’origine dei luoghi di culto.

Il tempio in quanto tale mostra che si abbandona la tradizione cananea e fenicia e quella israelitica dei tabernacoli e le tende. Ora intervengono ingegneri, artigiani, artisti,…. si passa ad una religione con caratteri piuttosto sincretisti (ogni popolo ha il suo dio e rispetta quello degli altri) per l’apporto delle culture fenicie e libanesi, culture di coloro che dovranno costruire. Il re fenicio Chiram aiuta Salomone nell’opera dedicata a Geova, mentre Salomone continuerà ad adorare i Baal ed Astarti fenici (il profeta ci dice che questa cosa era dovuta all’influenza delle 700 mogli e 300 concubine di Salomone – sic! -). Inoltre il tempio è una flagrante violazione di tutte le leggi mosaiche. E’ violata la prescrizione di non scolpire immagini di alcun essere vivente, infatti, come solo esempio, il bacino dell’acqua lustrale poggia su ben dodici buoi di bronzo inoltre “c’erano leoni, buoi e cherubini; le stesse figure erano sulle traverse … sulle pareti scolpì cherubini, leoni, ecc…” (1 Re., 7,25-27). Insomma Salomone gareggia con i popoli vicini, inizialmente indicati da sterminare. E nel discorso di inaugurazione del tempio Salomone afferma varie cose che mostrano che quanto dice è quanto già sapeva il cronista, al momento della redazione. Infatti Salomone afferma che il tempio è inadatto per un dio dei cieli (il fatto è straordinario per chi ha terminato una impresa come quella) e, nel fare ciò mostra che dovevano esservi delle opposizioni al suo operato. Egli parla poi di suo popolo che sarà sconfitto perché ha peccato contro Geova, di deportazione del suo popolo verso altre terre, di preghiere che da lontano rivolgeranno a Geova “rivolti verso il paese che tu hai dato ai loro padri, verso la città che ti sei scelta e verso il tempio che io ho costruito al tuo nome” (1 Re., 8,47-48) mostrando che dalla Bibbia deriva il modo di pregare dei musulmani. In questo discorso vi è anche un elemento di tolleranza fondamentale (a parte il solito ridiscutere dell’appropriatezza di tal dimora per Geova), purtroppo smentito rapidissimamente nel futuro. Dice Salomone: “Anche lo straniero, che non appartiene ad Israele tuo popolo, se viene da un paese lontano, a causa del tuo nome …, se egli viene a pregare in questo tempio, tu ascoltalo dal cielo, luogo della tua dimora” (1 Re., 8,41-43).

La visione salomonica del mondo diviso a metà tra geovismo e sincretismo non durò. A Salomone successe lo scisma religioso e la secessione politica. Il regno unitario era durato un centinaio d’anni (1030-931 a.C.). Nacque, ad opera del generale di Salomone, Geroboamo, un regno di Israele del Nord (10 tribù!) dove prevalse il sincretismo e dove i leviti erano appartati dal potere e dove erano tollerati culti idolatrici, tra cui quello del vitello. Dall’altra parte rimase solo la piccola tribù di Giuda sotto il comando di Roboamo. I leviti, sacerdoti prima sparsi per tutto il territorio, si concentrarono in Giuda, appena privati del sacerdozio. Questa fuga dal nord al sud di sacerdoti geovisti si ripeterà due secoli dopo, al momento della caduta del regno d’Israele sotto i colpi dell’impero assiro di Sargon II (721 a.C.). Questa grande migrazione di leviti in giudea, dove già erano in maggioranza, fa nascere il sentimento dell’unità nazionale che doveva compiersi alla luce di una nuova alleanza con Geova (seconda legge che Geova aveva consegnato a Mosè). Dei re che si susseguono, la Bibbia ne salva solo due (il regno di Israele aveva peccato per aver fatto ciò che non è giusto agli occhi di Geova): Ezechia (716-687) che regnò dopo la caduta di Israele e Giosia (640-609). Ezechia sembra restaurare la prescrizione di rappresentare essere viventi e, seguace di Mosè e Geova, fa distruggere il serpente di bronzo che usava Mosè sopra al suo bastone (ma non si occupa delle altre immagini nel tempio). Ezechia comunque iniziò un restauro del tempio, restauro che proseguì per molto tempo. Giosia continuò tale restauro e, durante tali operazioni, il gran sacerdote Chelkia ritrovò il libro della legge, quel codice, attribuito a Mosè e poi inserito nel Deuteronomio. Con tale libro si fece opera di indottrinamento, alla quale Giosia fece seguire atti concreti. Riferendosi agli oggetti di altri culti (ed anche al culto di Geova professato fuori dal tempio), Giosia userà questi verbi: “bruciare, demolire, profanare, far scomparire, frantumare, fare a pezzi, tagliare, immolare, riempire con ossa umane o bruciarvele sopra” (23,4-14). Inoltre “immolò sugli altari tutti i sacerdoti delle alture locali e vi bruciò sopra ossa umane” (23,20), indi “fece scomparire anche i negromanti, gli indovini, i penati, gli idoli e tutti gli abomini che erano nel paese di Giuda e in Gerusalemme, per mettere in pratica le parole della legge, scritte nel libro trovato dal sacerdote Chelkia nel tempio” (23,24).

Il cronista è entusiasta: “Prima di lui non era esistito un re che come lui si fosse convertito a Geova con tutto il cuore e tutta l’anima e con tutta la forza, secondo tutta la legge di Geova; dopo di lui non ne sorse un altro simile” (23,25). Geova non ricambiò tante attenzioni e Giosia fu ucciso al primo incontro con il faraone Nekao che passava di lì per andare in Assiria. Questo entusiasmo del cronista e la liquidazione dei posteri, nasce dal fatto che, sotto Giosia vi fu la compilazione del corpo centrale della Bibbia. Si trattava di esaltare in qualche modo, colui che pagava per questa operazione (in tal senso i “giornalisti”, non hanno cambiato molto il loro comportamento).

La deportazione del popolo di Israele del 721 a.C. era stata e rimase senza ritorno: nel paese, accanto a pochi ebrei poveri (agricoltori ed artigiani in gran parte) lasciativi dai deporatatori assiri, furono introdotti coloni dai paesi vicini, con il risultato di una popolazione mista, quella dei samaritani aperta a varie religioni. Tra queste anche il geovismo perché, secondo la Bibbia, gli assiri avevano commesso l’errore dal quale Geova aveva messo in guardia gli ebrei al momento della conquista, cioè di spopolare troppo il paese, ridando spazio pericolosamente a belve feroci. Furono quindi proprio i nuovi abitanti a invocare l’invio di preti leviti, esperti del luogo.

La deportazione di Giuda ebbe invece un suo piccolo ritorno dopo mezzo secolo, anche se il grosso degli israeliti e giudei restò in Babilonia. Principali promotori del ritorno furono il profeta Ezechiele, Esdra, “sacerdote e scriba della legge del Dio del cielo” (Esd.,7,12) e Neemia, “coppiere del re” (Neh.,1,11). Nei libri dedicati a questi personaggi si descrive la ricostruzione del tempio e delle mura di Gerusalemme (mentre la reggia di Salomone non sarà ricostruita). Il vero artefice del ritorno fu il nuovo signore di Babilonia, Ciro (585-530 a.C.) già re di Persia, della dinastia degli Achemenidi, che si rifaceva alla religione del dio Ahura-Mazda, disposta ad identificare il suo dio con il dio unico degli ebrei e a tollerare tutti i culti. A seguito di un editto di Ciro, 42.370 persone e 6.337 tra schiavi e schiave tornano a Gerusalemme con la naturale opposizione di chi ormai da anni abitava quelle terre (samaritani ed arabi). La ricostruzione procede ma diventa necessaria la vigilanza armata. I samaritani chiedono di partecipare a tale impresa ma non vengono accettati. Allora si rivolgono al successore di Ciro, Artaserse, per avvertirlo di questa popolazione, da sempre ribelle, che presto o tardi provocherà sedizioni. Dopo una breve sospensione dei lavori, il re Dario, reintegrerà le disposizioni di Ciro con un suo editto. A questo punto si aggiunge uno strano documento che dovrebbe essere del successore di Dario, Artaserse II (404-358), indirizzato ad Esdra per invitarlo “a fare inchiesta in Giudea ed a Gerusalemme intorno alla osservanza della legge del tuo dio” (7,14), ed in più gli viene ingiunto: “Quanto a te, Esdra, con la sapienza del tuo dio, che ti è stata data, istruisci quelli che non la conoscono” (7,25).

Si tratta di una novità rispetto all’editto tollerante di Ciro. Ora si tratta di intervenire sulle coscienze, a cui si fa seguire una precisa sanzione: “A riguardo di chiunque non osserverà la legge del tuo dio e la legge del re, sia fatta prontamente giustizia o con la morte o con il bando o con ammenda in denaro o con il carcere” (7,26).

Così, alla ricostruzione materiale del tempio segue quella ideale del geovismo. Quella provincia dell’impero persiano può di nuovo instaurare l’intolleranza, questa volta con un ordine di un re straniero. Ma vi è un qualcosa di più triste della pena di morte invocata da Artaserse, la più spietata ferocia degli ebrei contro se stessi. Con Esdra nasce il giudaismo che sarà implacabile con ogni deviazione dalla legge che non voleva inquinamenti di razza (a questo punto, la cosa pare straordinaria). Ai capi che vengono a segnalargli che né il popolo, né gli stessi leviti e sacerdoti si sono separati dalle popolazioni locali, anzi, “hanno preso in moglie le loro figlie per sé e per i loro figli; e così hanno profanato la stirpe santa” (9,1-2). Esdra risponde prima lacerandosi le vesti e strappandosi la barba ed i capelli per la disperazione, e poi tenendo un discorso al popolo per ammonire che “il paese di cui voi andate a prendere possesso è un paese immondo per l’immondezza dei popoli indigeni” e “per questo non dovete dare le vostre figlie ai loro figli, né prendere le loro figlie per i vostri figli” (9,11 e 12).

E’ l’antico precetto mille volte violato, ma che da questo momento sarà messo definitivamente ed intransigentemente in pratica. L’assemblea del popolo di Geova, rimanderà alle loro terre le mogli ed i figli nati da essi (come definire ciò?). Viene sancito la distruzione dei beni e l’espulsione dalla comunità per chi non esegue entro tre giorni la decisione. Inizia così la violenta separazione che dà il via al giudaismo. Resta da mettere d’accordo ciò con quanto aveva sostenuto Salomone, a proposito dell’accettazione dello straniero ma, tant’è, queste continue contraddizioni ora giungono al termine. Il giudaismo presenta, rispetto a persecuzioni e violenze comuni a tutte le altre comunità religiose, la triste novità del ripudio delle mogli e dei figli considerati stranieri. Si tratta di una pia violenza esercitata in nome di dio.

Questa ricostruzione termina qui.

Offro ora una periodizzazione ed una sintesi molto breve delle vicende storiche di Israele, dopo le migrazioni dei patriarchi tra Mesopotamia ed Egitto durante alcuni secoli del II millennio a.C., narrate nella Genesi, dopo le vicende dell’esodo dall’Egitto sotto Mosè, e la promulgazione a opera sua della prima legge, narrate appunto in Esodo, relative al sec. XIII.

1) 1225-1030 a.C.: Conquista della terra promessa, contemporanea allo stabilirsi dell’egemonia assira in Mesopotamia. Fu opera non di Mosè né di Giosuè e della sua generazione (1225-1200 a.C.), come narra il suo libro, ma dei capi, politici e religiosi, detti giudici, in generale geovisti, che gli succedettero nel corso di circa due secoli. Né fu azione rapida e comune di tutte le dodici tribù fraternamente unite, bensì una serie di iniziative sparse e contrastate delle singole tribù. Alla conquista si accompagna un’epoca di imbarbarimento, un vero e proprio “medioevo”, confermato dalle scoperte archeologiche. Avvenimento chiave del geovismo: l’assemblea di Sichem convocata da Giosuè, che vede l’adesione delle tribù del nord, che forse non erano discese in Egitto, e l’assenza di Giuda dislocato invece al sud.

2) 1030-931 a.C.: Passaggio alla monarchia unitaria per tutti i territori conquistati dalle dodici tribù (ne abbiamo una versione monarchica e una antimonarchica). L’iniziativa è del sacerdote e giudice Samuele, che incorona re Saul; coi suoi successori Davide e Salomone, la conquista viene consolidata e ampliata e si instaura una monarchia teocratica. Al geovismo apertamente proclamato e accentrato in Gerusalemme si accompagna tuttavia un certo sincretismo, con l’apertura ai culti di divinità dei popoli vicini. Avvenimento chiave: la costruzione del tempio in Gerusalemme, che tuttavia non esclude ancora le sedi locali di culto sulle “alture”, e l’assemblea nazionale convocata da Salomone per l’occasione.

3) Dal 931 a.C.: Secessione e scisma religioso tra i due regni, sulla base delle divisioni culturali e amministrative emerse già sotto Salomone. Al nord, dieci delle dodici tribù costituiscono il regno di Israele (Samaria), destinato a durare due secoli. Vi prevalgono culti stranieri (Baal) con repressioni sanguinose del geovismo, come “quando Gezabele [moglie fenicia del re Achaz] uccideva i profeti di Geova (2 Re, 18, 4). A sud, resta il regno di Giuda, più spesso geovista ma nemmeno esso sottratto alle tentazioni di sincretismo religioso. Tra i due regni, alternative di alleanze e di guerre.

4) 931-721 a.C.: Regno di Israele, e sua fine a opera degli assiri: deportazione degli israeliti in Babilonia e insediamento di altre popolazioni, accanto ai superstiti, sui loro territori. Ne nasce la popolazione mista dei samaritani, non ignari di Geova, cugini-rivali per secoli dei giudei del sud. Forse proprio dai profughi di Israele in Giuda, convinti che la disfatta fosse dovuta all’abbandono del culto di Geova, vengono riportati in Giuda i testi sacri.

5) 721-587 a.C.: Sopravvivenza del regno di Giuda, per quasi un secolo e mezzo, continuamente minacciato da assiri ed egizi. Accoglienza dei profughi di Israele e del loro geovismo a opera di Ezechia. Avvenimento chiave: restaurazione del geovismo a opera di Giosia (622 a.C.), subito contrastata, “riscoperta” della legge (Deuteronomio = seconda legge), accentramento del culto nel tempio di Gerusalemme e abolizione sanguinosa del culto sulle alture. Ma nemmeno il geovismo salva dalla distruzione il regno di Giuda e dalla deportazione la sua popolazione.

6) 587-537 a.C.: Cattività babilonese anche per i giudei, ad opera dei caldei, succeduti agli assiri. È questo il periodo in cui la privazione di una patria reale rinsalda il bisogno di preservare la patria ideale. La lettura e anzi la riscrittura del libro della legge (Torah), sollecitata dal profeta Ezechiele, preserva gli ebrei dal totale assorbimento tra le altre popolazioni dell’impero babilonese (caldeo).

7) 537-332 a.C.: Ritorno del “resto” degli ebrei in Giuda. Ciro il grande, re dei medo-persiani, abbatte l’impero caldeo e in nome del “dio del cielo” ridà libertà di culto alle popolazioni soggette. Gli ebrei, tornati a Gerusalemme, ricostruiscono il tempio e le mura, sotto la guida di Esdra e Neemia. Avvenimenti chiave: lettura pubblica della Torah (è il momento della “terza legge”) e ripudio di mogli straniere coi loro figli: nascita del giudaismo.

8) 332-134 a.C.: Età ellenistica. La conquista dell’Oriente da parte dei greco-macedoni di Alessandro Magno segna un nuovo assoggettamento degli ebrei ai regni alessandrini: quello egizio dei Lagidi, fino al 240 a.C., quello antiocheno dei Seleucidi, dal 240 al 142 a.C.: Antioco IV Epifane profana il tempio (175-164 a.C.). All’interno del popolo ebreo si combattono una tendenza sincretista ellenizzante e una geovista nazionalistica.

9) 175-134 a.C.: Vittoriose rivolte giudaiche dei Maccabei contro gli antiocheni in nome di Geova. Si profila la presenza dei romani (già nel 189 a.C. Cornelio Scipione aveva sconfitto Antioco III, e nel 133 Attalo re di Pergamo aveva lasciato in eredità i suoi regni ai romani); i Maccabei cercano la loro alleanza e creano uno Stato indipendente. “I giudei erano considerati amici alleati, e fratelli da parte dei romani” (I Mac., 14, 40).

10) 134-64 a.C.: Monarchie miste, relativamente indipendenti: moltiplicarsi delle sette religiose all’interno del geovismo, con le dispute sulla interpretazione della Torah, che daranno poi luogo alla costituzione di quell’altra raccolta di testi che ha nome di Talmud. Nel 64 a.C. Pompeo riduce la Siria e la Palestina a provincia romana: si succedono “etnarchi” e “tetrarchi”, tra cui Erode, sotto il controllo dei romani.

11) 52 e 70 d.C.: Le due diaspore finali del giudaismo. La prima è quella, “attiva”, del giudaismo cristiano, che col concilio di Gerusalemme (52 d.C.) decide di aprirsi a tutte le genti (i “gentili”); la seconda è quella, “passiva”, del giudaismo geovista, avvenuta ad opera di Tito dopo la distruzione di Gerusalemme (70 d.C.). Nel primo caso si può ripetere con Seneca e sant’Agostino che “i vinti dettero le proprie leggi ai vincitori”; nel secondo che comunque i vinti non furono mai domati, e conservarono la propria identità nazionale e religiosa.

I dieci comandamenti.

Nei dieci comandamenti, che non ho discusso facendo la sintesi della Genesi e dell’Esodo per non spezzare la cronologia, si riassume tutta l’eticità e la religiosità ebraico-cristiana.

Come spesso nella Bibbia, il testo compare in due redazioni, in Esodo (20) e in Deuteronomio (5) e questo comporta già la necessità di badare agli sviluppi storici di questa legislazione e di questa moralità. Che in essa siano presenti molti elementi di legislazioni di altri paesi, è cosa ben nota: ci si può rifare, ad esempio, all’antico codice di Hammurabi, del 1750 circa a.C., o alle più recenti leggi assire del sec. XIII a.C. (basta poi recarsi in Egitto a visitare una qualunque tomba e si ritroveranno gli ultimi 7 comandamenti in positivo: io ho rispettato questo, io ho rispettato quello,…) In generale si attribuisce a merito degli ebrei l’aver saputo costringere in brevi sentenze quello che, nelle altre legislazioni è disperso in una casistica interminabile: e certo questo è vero, ma soltanto per la prima redazione. Forse ciò era anche dovuto, se il loro testo originario era davvero così antico, alla necessità di una memorizzazione orale presso un popolo di nomadi che non disponeva di biblioteche, ma portava tutti i suoi beni sul dorso di asini e cammelli e li riponeva in tende. E alle opportunità mnemoniche risale certo anche la formulazione prevalentemente in negativo dei comandamenti (non far questo, non far quello).

La cosa proibita risulta meglio, e tutto il resto è permesso.

D’altra parte, le lungaggini casistiche seguono subito anche nella Bibbia, col codice dell’alleanza (Es., 20-23), e poi col codice deuteronomico (Di., 12-26) e la legge di santità (Lv., 17-26), per non parlare del Levitico tutto intero. Sono prescrizioni successive, in gran parte risalenti all’epoca in cui ci sarà un sacerdozio consolidato, con un suo tempio e una sua complessa liturgia.

Ma, tornando ai dieci comandamenti, per iniziare, di tutto vi si parla, meno che di circoncisione: più che giusto, da parte dell’incirconciso Mosè, e contribuisce a una loro possibile universalizzazione. Il loro numero, e la loro diversa struttura fecero discorrere molto: se alcuni sono enunciati brevissimi, altri svolgono discorsi complessi. Flavio Giuseppe li sintetizzò perfettamente (Ant. lud., III, 91), ma la Chiesa cattolica, presa tra la necessità di conservare il numero perfetto di dieci (la potente tetrakis), e quella ancor più stringente di conformarli alla propria teologia e liturgia, dovette cambiare un pò le cose. Si attestò infine sulla proposta di sant’Agostino, togliendo il secondo comandamento che proibiva le immagini, e risolvendo in due l’ultimo: con scarsa intelligenza e mediocre risultato come vedremo.

Io qui mi soffermerò sulla redazione biblica originaria, ma tenendo presente anche quella cristiano-cattolica: e questo ci aiuterà a capire come nella storia degli uomini possa accadere che si assumano parole antiche per dire cose nuove.

Il primo comandamento: «Io sono Geova tuo Dio…: Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es., 20, 2 = Dt., 5, 6), è comunemente gabellato come la fondamentale affermazione della unicità di dio e come prova dell’originario monoteismo degli ebrei. Comunemente, dico; ma non per gli addetti alle segrete cose, dato che oggi perfino i teologi sanno ben distinguere tra monoteismo e politeismo, anche se non si curano troppo di dar pubblica voce alle loro distinzioni.

In realtà quel comandamento prova, al più, l’unicità non di dio, ma del dio di Israele: prova cioè che gli ebrei avevano come loro proprio un solo dio. Intanto questo non esclude che essi riconoscessero, e in molte occasioni venerassero, anche gli dèi di altri popoli: anzi, sia nelle affermazioni di principio sia nella pratica di vita, questo avvenne per secoli. Ma, quel che più conta, proprio quel testo in apparenza monoteista dimostra il sostanziale politeismo di Israele. Non solo vi si parla di Geova (e non del «Signore», come dicono i cristiani), ma questo dio chiamato per nome è un dio in mezzo ad altri dèi, che hanno altri nomi. Se no, che bisogno ci sarebbe di un nome? e che bisogno avrebbero avuto i cristiani di sostituirlo appunto con «Signore»? Il «non avere altri,dèi», non significa affatto negare la loro esistenza, ma soltanto escluderne il culto; e la parola «Elohim», del primo versetto della Bibbia e in altri suoi passi, indica inequivocabilmente altri dèi, e non Geova. Insomma, per gli ebrei, in questa fase del- la loro storia e in questa tipica manifestazione della loro religiosità, si può parlare semplicemente di politeismo corretto da una esclusiva monolatria o, più semplicemente, di politeismo monolatrico.

Solo molto lentamente passeranno dalla proibizione del culto di altri dèi alla affermazione della loro inesistenza: ma all’inizio il loro dio è inequivocabilmente un dio tra gli altri, con la sola differenza che è un dio «geloso». Quello stesso comandamento che per gli ebrei era il secondo e che i cristiani hanno cancellato, nel proibire il culto delle immagini (ma i cattolici dopo molte battaglie continueranno a venerarle), ammonisce: «Io, Geova, sono il tuo dio, un dio geloso» (ivi): e questa faccenda della gelosia (di cosa se non di altri dèi?) torna più volte, sia in Esodo, sia in Deuteronomio, in Giosuè, in Geremia, in Ezechiele ecc. ecc. E’ una dichiarazione di un esclusivismo intollerante e settario, che il popolo ebraico abbandonò a più riprese per lunghi periodi della sua storia, soprattutto durante il fiorire dei suoi due regni di Israele e di Giuda, più o meno profondamente influenzati dalle culture delle popolazioni dominate e confinanti. Non è necessariamente una loro superiore idea della divinità. Dovrà passare del tempo perché da un dio geloso si passi a un dio unico, perché il totem di una tribù di beduini (o qualunque cosa siano stati gli ebrei delle origini) divenga il creatore del cielo e della terra, perché il padre e il «signore» di quei pochi divenga il Padre e il Signore di tutti. Per arrivare a questa concezione, il popolo ebraico dovrà vivere la dura esperienza della sconfitta, che è sconfitta e scomparsa del suo «dio degli eserciti», e poi trovarsi proseguito e insieme smentito dalla sua filiazione cristiana, la quale sola ritrova, bene o male, e più male che bene, un dio universale. Anche i suoi profeti, Isaia nella seconda metà dell’VIII sec. a.C., Geremia alla fine dello stesso secolo, Ezechiele dopo un altro secolo, parlano sempre del «nostro» dio e degli «altri dèi». Sono più tardive le affermazioni effettivamente monoteiste.

La concezione diffusa resta quella di un dio (che dal momento della conquista è «dio degli eserciti», 1 Som., 1, 3) in mezzo agli altri. Così sulla bocca di Mosè nel canto della vittoria per il successo dell’esodo, sentiamo dire: «Chi è come te fra gli dèi, Geova?» (Es., 5, 11), così sulla bocca di Salomone, quando parla al popolo consacrando il tempio, sentiamo dire: «Geova, Dio di Israele non c’è un Dio come te, né lassù nei cieli, né quaggiù sulla terra!» (1 Re, 8, 23), non ce n’è «uno come lui» vuol dire che ce sono tanti, diversi e inferiori a lui.

Lo stesso cristianesimo, del resto, conservò a lungo, anche nelle riflessioni dei suoi massimi pensatori, una strana incertezza sull’esistenza o meno di altri dèi o demoni, e insistendo tanto su Satana (anche con gli ultimi papi) e aggiungendo agli angeli pagano-biblici i suoi santi, ha contribuito non poco a conservare nell’opinione diffusa una concezione politeistica.

Resta tuttavia che il primo comandamento, letto come è nel testo biblico originario e come viene adattato nelle traduzioni cristiane, ha due significati del tutto diversi: chiaro il primo, equivoco il secondo. A essi se ne sta aggiungendo oggi un terzo, che riconquista una sua chiarezza monoteistica. Leggiamoli tutti e tre.

«Io sono Geova, tuo Dio» è chiaramente la formula di un politeismo monolatrico, che ha bisogno del nome per distinguere questo dio dagli altri.

«Io sono il Signore, tuo Dio» è la formula che si impone nel cristianesimo trionfante e separato ormai del tutto dall’ebraismo nel IV sec. d.C., ma, presa com’è tra l’incudine della tradizione e il martello della nuova concezione, resta a metà, del tutto sgangherata e insignificante. Non spiega niente, è semplicemente una tautologia.

Nel secondo racconto sulla vocazione di Mosè c’è un passo che dice

«Dio (Elohim) parlò a Mosè e gli disse: “Io sono Geova! Sono apparso ad Abramo, a Isacco e Giacobbe come Dio onnipotente [El Shaddai], ma col mio nome di Geova non mi sono mai manifestato a loro”» (Es., 6, 3). Stando alla lettera della Bibbia, questa è una palese menzogna, cosa disdicevole per il libro di dio. Chi ha letto la Bibbia sa che la rivelazione del nome era già avvenuta. Geova (questa volta lui, e non Elohim) si era già rivolto ad Abramo dicendogli: «Io sono Geova, che ti ha fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questo paese» (Gen., 15, 7); e Abramo gli aveva risposto: «Signore {Adonai) Geova…» (15, 8). E questa era stata, nel racconto biblico, la prima volta che Geova si era manifestato col suo nome. Poi di visioni di Isacco non ci si dice niente, ma quanto a Giacobbe, si dice che lo vide in sogno e che udì il nome: «Ecco, Geova gli stava davanti e disse: “Io sono Geova, il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco”» (28,13). Dunque, era già la seconda volta che Geova si presentava col suo nome, in sogni o visioni, tra i quali è difficile stabilire una sicura differenza. E, a parte questo, prima di quella «falsa» dichiarazione a Mosè, ho contato 190 volte nella Bibbia il nome di Geova, sia nella narrazione del compilatore, sia sulla bocca dei personaggi, che mostrano così di conoscerlo.

Lo nomina per prima Eva (Gen., 4, 1), per ringraziarlo di aver avuto Caino; poi ci si dice che dai tempi dell’altro suo figlio Set «si cominciò ad invocare il nome di Geova» (4,26), ed era già un errore dato che lo aveva già invocato Eva. Poi lo nomina Lamech, padre di Noè (5, 29); poi Noè lo benedice come dio di Sem, di cui «Cam divenga schiavo» (9, 26), davvero nobile occasione per nominare dio; poi l’invocano Sara, Lot, Làbano, Lia, il servo di Abramo, e anche quell’Esaù, figlio di Abramo, che sarà escluso dal popolo di Abramo. Altre volte si dice, usando il discorso indiretto, che costoro e altri «invocarono il nome di Geova», e altre volte il nome è nominato dal redattore tra gli altri personaggi della sua storia.

In tutti questi casi avvengono strani pasticci: si alternano vari nomi, oltre a Geova, di cui è difficile dire se siano nomi propri o nomi comuni: Elohim (gli dèi), El Shaddai (dio onnipotente o dio della steppa), Adonai (Signore), ai quali si può aggiungere El Elijón, il dio altissimo,il cui sacerdote Melchisedech benedice Abramo, ricevendone in cambio la «decima di tutto» (Gen., 14, 18-20). E’ evidente che si tratta di nomi che corrispondono a varie tradizioni religiose, mesopotamiche o fenicie o egizie, assimilate dagli ebrei. Quanto a Geova, che appare più nettamente come un nome proprio, si è discusso molto sulla sua forma e sul suo significato. Per la forma, si tratta delle quattro consonanti dell’alfabeto ebraico traslitterabili come YHWH, sostenute poi dalle vocali di Elohim o di Adonai. Per il significato, si è detto che corrisponde a «Io sono colui che sono» o «ciò che sono», cioè l’esistente, ciò che è.

Una cosa, tuttavia, è certa: che le varie tradizioni confluite nella Bibbia (elohista, geovista, sacerdotale, e poi deuteronomista) coi loro intrecci creano non poche ambiguità. Se davvero Geova si è rivelato per la prima volta col suo nome a Mosè, allora la Bibbia non avrebbe dovuto mai pronunciarlo prima; se Geova è il dio degli ebrei, allora non avrebbe dovuto farlo invocare da Eva, Set, Lamech, Noè, Nimrod, cioè da personaggi che precedono Abramo e la nascita del popolo ebraico. Ed è comunque strano sentir dire: «Geova disse: Io sono el Shaddai», e poi: «Elohim disse: Io sono Geova». Troppi nomi, e troppa confusione di soggetti e predicati! Lo svolgersi cronologico e il mutarsi di un culto e dell’idea stessa di dio viene qui a manifestarsi sotto forma di confusione grammaticale.

Nel mondo cristiano, c’è solo da sorridere per i nuovi pasticci che si è riusciti, un’altra volta, ad aggiungere.

Quando il suocero madianita di Mosè, Jetro (o Reuel), udito il miracoloso racconto dell’esodo, commenta (nelle traduzioni cristiane): «Ora io so che il Signore è più grande di tutti gli dèi» (Es., 18, 11); quando Mosè nel suo canto di vittoria per l’esodo dice: «II Signore è prode in guerra. Si chiama Signore» (15, 3); quando all’inizio del Salmo 110, attribuito a Davide, si legge: «Oracolo del Signore al mio Signore», è evidente che ci si sta prendendo in giro: si tratta di frasi totalmente insensate, che vanno invece lette: «Or io so che Geova…», «Si chiama Geova…»; «Oracolo di Geova…» (e qui il secondo «Signore» è Adonai).

Il fatto è che si vuole dare una lettura monoteista di testi chiaramente politeisti, dove Geova, dio degli ebrei, è contrapposto ad altri dèi. E quanto al fatto che Geova sia il dio degli ebrei, mi sta bene: ma di sicuro lo è soltanto a partire da Mosè, influenzato forse dal faraone Akenaton, perché, rileggendo i passi che riguardano Abramo e gli altri, appare, se non evidente, probabile che il redattore geovista può aver interpolato anche lì il suo nome, cosi come l’ha interpolato anche prima, mettendolo sulla bocca di Eva, che proprio non poteva conoscerlo.

Resta per ora solo da enunciare il secondo comandamento: «Non pronuncerai invano il nome di Geova tuo Dio…» (Es.,20, 7).

Il terzo comandamento ci porta in apparenza, nel nome di Geova, in ambiente terreno; ma in realtà restiamo nellapura teologia. Non a caso nella redazione deuteronomista è il più prolisso. La sostanza è questa: «Ricordati del giorno di sabato per santificarlo… Perché in sei giorni Geova ha fatto il cielo e la terra e il mare, e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo…» (Es., 20, 8-11)

Questa del sabato è la sola vera presenza diffusa del primo racconto della creazione nel resto della Bibbia e anche nella tradizione cristiana, al livello del senso comune.

Qui la teologia assume un grande valore umano: il diritto a essere periodicamente liberi dal lavoro, un diritto che può essere pienamente conquistato solo nelle civiltà che dispongano di un surplus di prodotti (o in cui alcuni pochi dispongano di molti schiavi), viene qui affermato come valore di principio. Certo anche i greci avevano la loro scholé, e i latini il loro otium, nonché le loro feste periodiche: e sebbene le feste periodiche fossero per tutti, padroni o servi, e talvolta, come i saturnali, comportassero un momentaneo rovesciamento dei rapporti tra loro, tuttavia la scholé o otium come tempo per gli «svaghi» intellettuali era cosa riservata agli uomini liberi, ignota agli schiavi. Per gli ebrei questo riposo assume un valore generale di edificazione, che i romani non riescono a comprendere. Seneca, citato da sant’Agostino nella Città di dio, diceva che «perdevano circa la settima parte della loro vita senza far niente» (VI, 11); e Tacito ripete: «Dicono che nel settimo giorno abbiano stabilito il riposo (otium} perché quel giorno avrebbe portato la fine delle loro pene [dell'esodo]. Altri invece che sia in onore di Saturno…» (Hist., V, 4), che qui Tacito identifica palesemente con Geova.

Comunque, l’osservanza di questo riposo del sabato divenne a poco a poco assurdamente ossessiva, e la Bibbia ci dà subito un tragico esempio di come venisse fatto rispettare: «Mentre gli israeliti erano nel deserto, trovarono un uomo che raccoglieva legna nel giorno di sabato… Geova disse a Mosè: “Quell’uomo deve essere messo a morte: tutta la comunità lo lapiderà fuori dall’accampamento”» (Nm., 15,32-36).

Se questo racconto ha tutta l’aria di un apologo moralistico, intercalato in prescrizioni liturgiche da qualche pio sacerdote redattore del testo che noi possediamo, l’osservanza del sabato si definì sempre più rigorosamente. A un certo momento si giunse a redigere un preciso canone di trentanove lavori proibiti nei vari campi: agricolo (seminare, arare, cuocere), pastorale (filare), di sartoria (cucire due punti, strappare il filo necessario per cucirli), cacciare, scrivere due lettere dell’alfabeto, cancellare dalla tavoletta quanto necessario per scriverle, costruire o demolire più di tanto, accendere o spegnere un fuoco, battere col martello e così via. La casistica era davvero infinita: «Può un sarto portare con sé l’ago di sabato? Può una donna raccogliere un granello di pepe cadutole di bocca il sabato?».

Certo è che il rispetto del sabato portò non poche sofferenze agli ebrei, che consideravano la sua violazione come un atto sacrilego, in quanto negava il culto del loro dio, e intendevano rispettarlo anche in guerra. Il libro dei Maccabei lamenta che, durante le persecuzioni di Antioco Epifane, «non era possibile osservare il sabato, né celebrare le feste tradizionali, né fare aperta professione di giudaismo» (2 Mac., 6, 6), e aggiunge particolari tremendi: «Altri che si erano raccolti nelle vicine caverne per celebrare il sabato…, vi furono bruciati dentro, perché essi avevano ripugnanza a difendersi per il rispetto a quel giorno santissimo» (6,11).

Più tardi, anche nelle guerre contro i romani il sabato fu occasione di disastri. Tito Livio, citato da Flavio Giuseppe, racconta dell’espugnazione di Gerusalemme da parte di Pompeo, nel 63 a.C.: «Presa la città nel giorno del digiuno, mentre i romani, entrati a forza, sgozzavano quelli che erano nel tempio, tuttavia costoro continuavano a celebrare il rito divino; né per timore di perdere la vita né per la moltitudine di quelli già uccisi furono volti in fuga, ritenendo meglio sopportare presso gli altari tutto ciò che era necessario soffrire, piuttosto che trascurare un comandamento delle leggi patrie» (Ant. Iud., XIV, 4,3).

Le stesse cose ci racconta lo stesso Flavio Giuseppe nella sua Guerra giudaica, riferite in particolare alla guerra condotta da Vespasiano e conclusa dal figlio Tito con la definitiva presa e distruzione di Gerusalemme; tra gli altri episodi che tralascio, parlando dell’assalto agli alloggi sacerdotali, ci informa che lì, dal tetto «ogni settimana, secondo il rito, uno dei sacerdoti saliva per preannunciare nel pomeriggio col suono della tromba l’inizio del sabato, e la sera del giorno dopo per annunciarne la fine, dando così al popolo il segnale per la sospensione e la ripresa del lavoro» (Bel. Iud., IV, 582). Dove si trova anche l’indicazione dell’origine del suono delle campane nelle chiese cristiane per chiamare al rito e, con anche maggiore evidenza, l’origine delle preghiere del muezzin islamico dall’alto dei minareti. Si può aggiungere a quella che veniva dal discorso di Salomone per l’inaugurazione del tempio, di pregare rivolti verso la città santa, che anticipa la preghiera musulmana verso la Mecca.

Queste cose fanno capire la santità del sabato. Ma perché non raccontare anche, a questo punto, di come gli ebrei seppero ripagare i cristiani per il fatto di averlo sfruttato per vincerli, e poi di averglielo sottratto e scambiato con la domenica, con imprevedibili conseguenze?

Avvenne nel 408 d.C. Reparti giudaici delle truppe romane attaccarono di sorpresa, di domenica, i visigoti, già accampati nell’Italia settentrionale in una posizione incerta se di ospiti o di invasori dell’impero. Fosse o no intenzionalmente una provocazione o una vendetta degli ebrei contro i cristiani (che tali erano i visigoti), l’attacco ottenne un effetto che certo non dovette dispiacere agli ebrei: né a quei pochi tra loro che erano soldati romani né alla loro maggioranza dispersa nell’impero. I visigoti percepirono l’attacco mosso, di domenica, contro di loro, cristiani, come un’azione di anticristiani (e certo tali erano gli ebrei), e li dovettero identificare semplicisticamente coi «pagani», come già allora si chiamavano gli eredi della cultura ellenistico-romana. Così pensarono di vendicarsi sulla aborrita Roma pagana, e corsero ad assediarla attraversando mezza Italia: e dopo due anni di assedio la presero, la saccheggiarono e massacrarono gran parte della popolazione, risparmiando però i cristiani. Si può dunque dire che coloro che, sia pure indirettamente provocarono la prima caduta di Roma, furono gli ebrei, che così vendicarono la caduta di Gerusalemme. Se si aggiunge questa materiale, concretissima vendetta a quella già compiuta, anch’essa indirettamente a dire il vero, attraverso la cristianizzazione di Roma, che è, volere o no, una giudaizzazione, si potrà misurare quali siano state le forze della religione ebraica, e quali possano essere le forze della religione in generale. Nel bene o nel male.

Storicità dei comandamenti terreni (4°- 10°)

Ai tre comandamenti concernenti la divinità, cioè la sua esclusività per gli ebrei, il suo nome e la santificazione del sabato (più il divieto di venerare immagini), fanno seguito comandamenti morali sui nostri comportamenti terreni.

Anche su questi e sulla loro storia ci sarebbero infinite cose da dire, ma mi limiterò al minimo indispensabile.

Il quarto comandamento, nello scendere dal cielo in terra, comincia opportunamente dal rapporto tra generazioni: «Onora il padre e la madre…» (Es., 20, 12 = Df., 5, 16). Certo, trattandosi di un rapporto bilaterale tra le due generazioni, avrebbe potuto comandare con altrettanta legittimità «Ama i tuoi figli»; ma è evidente che tra queste due possibilità c’è stata una scelta obbligata, condizionata cioè dal carattere patriarcale (in senso lato) della società ebraica di allora. Curiosamente, nella proposizione che completa il comandamento, il protagonista reale, anche se sottinteso, del discorso sono proprio i figli: «… perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà Geova tuo Dio» (ibidem).

Pare evidente che la vita di ciascuno possa prolungarsi non in quanto egli abbia onorato, da giovane i suoi genitori, ma in quanto sia egli stesso «onorato» da vecchio dai propri figli: che sono dunque il soggetto reale dell’azione comandata. Ma per l’autore del comandamento il soggetto ideale resta comunque il padre; e che si dimentichi di comandargli di amare il figlio non è senza significato. Le letterature antiche ci hanno tramandato varie vicende illustranti il rapporto padre-figlio (Edipo ecc.) Tuttavia, ciò che nella letteratura greca ha dato comunque origine a un problema, si svolge senza problemi nella Bibbia: il figlio ha doveri verso il padre, non il padre verso il figlio. In che cosa poi consistano questi doveri, è presto detto: «onorare» significa concretamente «mantenere», anche se in questo non si esaurisce tutto l’«onore» dovuto al padre.

Nell’insieme, infatti, la dipendenza dei figli dai padri era totale, né cessava con l’età: il padre combina i matrimoni dei figli, e al figlio «testardo e ribelle, che non obbedisce alla voce né di suo padre né di sua madre, e, benché l’abbiano castigato, non dà loro retta» (Dt., 21, 18), tocca la lapidazione a opera di tutti gli uomini della sua città; e la sanzione è fortemente sottolineata: «Così estirperai da te il male, e tutto Israele lo saprà e avrà timore» (21, 21). A maggior ragione, «colui che ucciderà suo padre o sua madre sarà messo a morte»(Es.,21,17).

Ed eccoci così arrivati al quinto comandamento, che dice semplicemente: «Non uccidere» (Es., 20, 13 = Dt., 5, 17). Ma anche qui le cose non sono così semplici. Questo è in sé il comandamento più umano, ma è anche il più bugiardo sulla bocca di Mosè, ed è quello meno rispettato dallo stesso Geova e, perciò, da tutti coloro che hanno spirito religioso. A parte tutti gli altri viventi, destinati da dio a morire uccisi da altri viventi o dall’uomo, è lo stesso Jahvè a punire morte con morte, quando promette che chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte. E Mosè? Ma come? Fresco dell’uccisione e della sepoltura sotto la sabbia dell’egiziano, e dell’esaltazione di Geova, prode in guerra, che con «la sua destra annienta il nemico» egiziano; pronto poi, in occasione del vitello d’oro, a dar ordine ai suoi leviti di uccidere ognuno il proprio fratello, il proprio amico, il proprio parente; a far lapidare un uomo per una bestemmia o per aver raccolto legna il sabato; a esultare, chiamandola «una cosa meravigliosa», per la morte di Gore e di Datan e Abiram con tutte le loro famiglie, e a organizzare l’espiazione, cioè il massacro, per le quattordicimilasettecento persone che avevano protestato per quella morte; e a eseguire poi scrupolosamente tutti gli stermini di altri popoli, comandati secondo lui dal dio Geova…: questo Mosè darebbe poi l’ordine di «non uccidere»?

L’ipotesi è totalmente assurda, anche se, evidentemente, significa soltanto «non uccidere ebrei innocenti, ma uccidi poi gli ebrei colpevoli di qualche trasgressione e gli impuri stranieri, a piacimento». No: questo comandamento non significa affatto quello che noi pensiamo che possa significare oggi; e non è nemmeno il comandamento cristiano, dal momento che anche i cristiani hanno commesso e benedetto per millenni tutti gli omicidi e i genocidi: ufficialmente a cominciare dall’imperatore Teodosio e dal santo Agostino, che santamente ammoniva di non uccidere alcun uomo «eccetto quelli che dio comanda di uccidere» (De Civ., VIII): dio, o chi immagina di essere il suo interprete.

Insomma, la pena di morte è sempre presente in questi pii codici, come negli empi codici di tutti gli altri popoli. Non c’è differenza: «Colui che colpisce un uomo causandone la morte, sarà messo a morte» (Es., 21, 12) il taglione lo vuole.

E passiamo al sesto comandamento, che dice: «Non commettere adulterio» (Es., 20, 14 = Dt., 5, 18), e che, malgrado l’apparenza, non è poi cosi chiaro. Naturalmente, nemmeno questo è un’invenzione di Mosè, trovandosi già nel codice di Hammurabi, vecchio ai suoi tempi di mezzo millennio; ed è soprattutto da interpretare per quello che vale in una società che praticava tranquillamente poligamia e concubinato. Sorvolo sul fatto che in italiano ci veniva comunemente tradotto, e insegnato quando eravamo bambini, con l’indecifrabile «non fornicare», senza che ci venissero date le opportune, o inopportune, spiegazioni, si che noi pensavamo irresistibilmente alle formiche, senza capire quali fossero le loro colpe. Ci si diceva anche, con formulazione più ampia: «Non commettere atti impuri», e questo risultava chiaro anche alla incipiente malizia infantile, riferendosi senza dubbio a pratiche sessuali come la masturbazione o onanismo, sul quale la Bibbia ci ha già erudito con molta confusione, e altre simili. Nella sostanza, questo comandamento allude essenzialmente ai rapporti extramatrimoniali, con donne a loro volta sposate o anche soltanto fidanzate, e con meretrici. A questi si riferisce il Codice deuteronomico: «Quando un uomo verrà colto in fallo con un donna maritata, tutti e due dovranno morire» (Dt., 22, 22); «Quando una fanciulla vergine è fidanzata, e un uomo… pecca con lei, condurrete tutti e due alle porte della città e li lapiderete così che muoiano» (22, 23). Dove l’unica cosa sicura è che Mosè, non avendo città, non poteva dare quest’ordine, che appartiene dunque a un’età successiva. E comunque, anche questo comandamento, nonostante la parità delle pene per i due sessi, ha tutta l’aria di rivolgersi solo all’uomo, primo responsabile, anche se si continuerà per secoli a parlare della «fragilità» della donna e della condiscendenza dell’uomo. È però interessante che nel Levitino (molto più recente)le proibizioni sessuali cominciano con un riferimento preciso: «Non farete come si fa nel paese d’Egitto dove avete abitato, né come si fa nel paese di Canaan dove io vi conduco, né imiterete i loro costumi…»(Lv., 18, 3); e si continua con una minuziosa casistica di pratiche incestuose tra consanguinei» ripresa anche nelle «Maledizioni» di Mosè in Deuteronomio (27), che né Mosè né gli antichi patriarchi né i successivi re, tutti intenti a praticare anche una rigorosa endogamia, si sono mai sognati di evitare. Ma basta con questo peccato, ossessivo nella Bibbia e più ancora in tutta la tradizione cristiana fino a oggi.

Il settimo comandamento è anch’esso breve e conciso: «Non rubare» (Es., 20, 15 = Dt, 5, 19).

Ma la sua apparente perentorietà vale quanto quella del «non uccidere». E’ evidente che per gli aspetti dello sterminio o consacrazione a Geova, che riguardano le cose, il saccheggio in guerra dei beni dello straniero non è un rubare, come non è un uccidere lo sterminio di nemici. E’ invece un rubare l’appropriarsi dei beni consacrati.

Per il resto non mancano sia nel Codice dell’alleanza in Esodo sia nel Codice deuteronomico alcune specificazioni di questo divieto: «Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse» (Es., 22, 24); «Alla fine di ogni sette anni celebrerete l’anno di remissione:… ogni creditore… lascerà cadere il suo diritto…» (Dt., 15, 1-2). Si tratta dunque di limiti posti all’usura, che il cristianesimo medievale riprenderà universalizzandoli, ma che qui sono significativamente considerati solo come riguardanti i rapporti interni al popolo di Israele.

L’ottavo comandamento dice: «Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo» (Es., 20, 16 = Dt., 5,20): dal che risulta un’altra volta evidente che la si poteva lecitamente pronunciare contro gli altri, e si spiega così l’iniziale imperturbabilità di Giacobbe allo spergiuro di Simone e Levi contro i sichemiti. Comunque, nell’ambito del prossimo, cioè del popolo d’Israele, anche questo comandamento aveva una sua primaria importanza, trattandosi di una società in cui nei giudizi dei tribunali la testimonianza giurata in nome di dio aveva valore determinante. In realtà, questo comandamento andrebbe associato al secondo, che ammonisce di non nominare il nome di dio invano: questo è infatti il senso del «giurare», impegnarsi solennemente di fronte a dio, invocando il suo nome. Gli antichi, anche i romani, ci credevano tanto che il giuramento valeva anche se estorto a forza.

Il nono e il decimo comandamento dicono: «Non desiderare la casa del tuo prossimo» (Es., 20, 17) ovvero «Non desiderare la moglie del tuo prossimo» (Dt., 5, 21). E qui debbo anzitutto ricordare che nella Bibbia ebraica questi comandamenti costituiscono insieme il decimo, dovendosi contare anche il secondo sul divieto delle immagini. Comunque, l’un testo e l’altro, opportunamente sostituendo la moglie alla casa e viceversa, più o meno concordi ammoniscono: «…Non desiderare la moglie (la casa) del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bene, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (ibidem). Queste due diverse redazioni, risolte dai cristiani cattolici accettando l’ordine del Deuteronomio, che mette prima la moglie, e separando le due prescrizioni per recuperare il numero complessivo di dieci, testimoniano una certa evoluzione ma non eliminano certo tutte le aporie. Innanzitutto, questo duplice comandamento, sulla moglie e le cose, è già anticipato nel sesto («Non commettere adulterio») e nel settimo («Non rubare»), e non se ne vede proprio la necessità. Poi conserva sempre la limitazione al «prossimo», dal quale restano evidentemente esclusi quelli che tali non sono, cioè gli stranieri. Inoltre ricompare il carattere maschilista di questi comandamenti che, con minore o maggiore evidenza, dichiarano sempre la donna come proprietà dell’uomo. Come il figlio rispetto al padre, così la donna rispetto all’uomo non è mai soggetto di diritti e responsabile delle proprie azioni: anche se in caso d’adulterio uomo e donna vengono ugualmente lapidati; la donna resta una proprietà dell’uomo, associata alla casa, per la quale pare fatta da natura.

Unica consolazione di questo non edificante precetto nella redazione cristiana è che la «cosa-donna» è nominata a sé non mescolata agli animali come nel racconto dei doni fatti dal faraone ad Abramo, dove, trattandosi però di schiavi, veniva allegramente elencata cosi: «greggi e armenti, schiavi e schiave, asine e cammelli».

Superfluo dal punto di vista della morale, disturbante dal punto di vista della disposizione e della simmetria dell’insieme, valido solo a ribadire il carattere patriarcale dell’intero testo e il suo riferirsi solo alle cose interne a un dato popolo, questo comandamento conclude anche il mio discorso.

Come da un insieme cosi limitato e contraddittorio sia potuta derivare una morale valida per millenni, è un problema aperto. Abbiamo in parte capito come il limitato e parziale possa diventare universalmente umano, quando la perdita della forza materiale costringa a riflettere sui valori ideali. Resta tuttavia, e resterà indefinita, la contraddizione persistente tra la predica che qui ascoltiamo, e la pratica che tutti pratichiamo. Tutti: e finora soprattutto i predicatori, che in privato e in pubblico, come individui e come Stati cristiani e anzi «cristianissimi», li hanno sistematicamente violati tutti. E tra i violatori si sono sempre distinti i potenti, i cui peccati sono stati perennemente giustificati e benedetti in nome di Dio.

La religione non ha mutato in niente i costumi dell’uomo: li ha resi, semmai, più contraddittori con le idealità proclamate, aggiungendovi così la sua ipocrisia: «accumulando duol con duolo», per dirla con Dante. In questo senso è stata davvero, ed è tuttora, il male del mondo.

AGGIUNGO CONSIDERAZIONI

Questa sarebbe una storia infinita ed in realtà lo è. Come fare con la logica e la ragione a convincere chi alla fede affida le sue speranze. Tutto sarebbe ancora comprensibile, al secondo ordine, se ci si affidasse ad un dio immateriale a cui rivolgersi con ogni preghiera. Il fatto è che qui si vuole creare un dio che dovrebbe discendere da fatti terreni, un personaggio poco raccomandabile che sarebbe stato meglio non aver mai conosciuto. Un vendicativo assassino. Un geloso ed invidioso. Il peggio dei peggiori degli uomini perché ha la forza di fare del male e la usa.

SAUL – I culti e le leggende antiche ci raccontano di indovini che diventavano capaci di prevedere quando cadevano in trance ballando vorticosamente sotto l’effetto di droghe. E’ il motivo per cui i sogni (e le profezie che ne conseguivano) nella Bibbia hanno grande rilevanza, le droghe in un popolo che viveva in deserti sterminati alleviavano molto la vita. Il racconto di un aneddoto relativo a Saul ci dà buona mostra di quanto ho appena detto. Saul si dirige verso la città di Gabaa appena uscito dalla sua tenda. Prima di arrivare gli si fanno incontro dei profeti che cantavano e suonavano mentre profetizzavano. Entrato nel gruppo Saul iniziò a profetizzare con loro (il profetizzare aveva il senso di improvvisare rime accompagnati da musica, il cantare insomma. A Roma la cosa si mantiene ancora: gli stornellatori accompagnati da una chitarra sono dei profeti eccellenti).

DAVIDE – Il grande Davide è ricordato solo nella Bibbia. Poveraccio nessuno che ricordi un tale mito ! In un certo periodo il Re si era comportato male avendo disubbidito a Dio. Dio naturalmente lo deve punire e, nella sua magnanimità, gli permette di scegliere la pena: “Vuoi tre anni di carestia nel tuo paese o tre mesi di fuga davanti al nemico che t’insegua oppure tre giorni di peste nel tuo paese ?“. Davide scelse la peste ed il popolo ebraico su ancora decimato “da Dan a Betsabea morirono settantamila persone del popolo. Ma il signore si pentì (che strazio! che incostanza! che volubilità!) di quel male che aveva fatto e disse all’angelo che distruggeva il popolo ‘Basta, ritira ora la tua mano!’ ” (II Sm. 24-13).

SALOMONE – La premessa è che sotto il regno di Salomone “Giuda ed Israele erano diventati numerosi come la sabbia del mare e mangiavano e bevevano allegramente” (I Re. 4). Naturalmente la grandezza di petulanti elemosine in Egitto si misura a suon di piramidi. E Salomone, con le stesse modalità con cui si costruivano le piramidi, si mise a far costruire il Tempio: “Il re Salomone reclutò il lavoro forzato [facendo smettere le gozzoviglie di cui prima, n.d.r.] ed il lavoro forzato era di trentamila uomini. Salomone aveva settantamila operai addetti al trasporto di materiale e ottantamila scalpellini a tagliar pietra sui monti, senza contare gli incaricati dei prefetti che erano tremila trecento preposti da Salomone al comando delle persone addette al lavoro. Il re dette ordine di estrarre grandi massi, tra i migliori perché venissero squadrati per le fondamenta del tempio” (I Re 4/14). Boooooooom!!! Ma vi rendete conto delle bestialità che sono scritte in questo pezzo ? E pensare che i due archeologi di cui ho già detto, proprio alla ricerca di queste fondamenta, non hanno trovato nulla! Ma poi la cosa prosegue con tagli di cedri che richiamano alla mente il legno utilizzato da Felipe II per costruire l’invincibile armata. Con pranzi pantagruelici giornalieri che avrebbero lasciato senza fiato Ramses II: “I viveri di Salomone ogni giorno erano di 140 quintali di fior di farina e 270 quintali di farina comune, dieci buoi grassi, venti da pascolo e cento pecore, senza contare i cervi, le gazzelle, le antilopi ed i volatili da stia.. Salomone possedeva 4000 greppie per i cavalli dei suoi carri e dodicimila cavalli da sella” (I Re 5/6). La Bibbia prosegue magnificando il personaggio che fa regali alla Regina di Saba da lasciarla senza fiato che ha trecento concubine e e settecento principesse come mogli ed una di queste era la figlia di un faraone. Quale ? Ma scherzate ? mai date precise su cose verificabili !

Senza vergogna e senza preoccupazioni per la verificabilità nel futuro che, da bravi profeti, non immaginavano avesse memoria.

IL DIO DELLA BIBBIA – Una specie di Dea Kalì, un mostro tremendo e terrorifico, un disastro in tutto. E’ millantatore e bugiardo (I Sm 9/15) (I Sm 7/16) (Es 32/10). E’ illogico e superficiale (Es 32) (Gn 4/3). E’ spietato e violento (Dt 13) (I Sm 15) (Dt 2/30) (Dt 3/6) (Dt 7/16) (I Sm 2/6). E’ totalmente insicuro ed ha sempre bisogno di prove. E’ vendicativo (Nm 31). Ignora il futuro. E’ ambizioso, vanitoso, amante delle adulazioni e del lusso (Gn 25, 26, 27, 28, 29, 30) (Lv 1/14). E’ un ricattatore. E’ uno schiavista (Lv 27). E’ collerico e criminale (Dt 28/15). E’ incoerente e contraddittorio (Lv 9 e segg.) (Gn 4/15) (Nm 11 e segg.). Consola le donne sterili (Gn 21) (Gn 25/25). E’ disilluso e frustrato 2 Sm 7/5) (Gn 16). Andate a leggere questi brani, vi accorgerete quanto i peggiori incubi di ogni letteratura del terrore sono favolette per bambini piccoli. Un dio così è proprio in svendita. Un dio che va bene per un popolo raccogliticcio, senza tradizioni culturali, perennemente errabondo per il deserto.

Featured image, Martin Lutero.

Tagged as: bibbia, Cultura, digital journalism, Giornalismo, opinioni online, roberto renzetti, Rosebud - Giornalismo online, saggi

Categorised in: 955, Roberto Renzetti, Saggi, Tutti gli articoli


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :