Ricevo e condivido,
una riflessione di Sabrina Garofalo
<< “Si vede che ti hanno cresciuta loro”: più di una volta mi è stato detto, da chi ha ascoltato qualche mio contributo o mi ha conosciuta in occasioni di confronto sulle tematiche di genere o immigrazione. Ricordo bene quando accadde la prima volta; ero anche un po’ infastidita da dover essere ricondotta ad un gruppo di riferimento, a idee, a modi di fare. Chi come me prova a fare della libertà il suo canto di battaglia non lo prende come un complimento.
A poco a poco però, ho capito che la libertà mi veniva proprio dall’essere cresciuta con quel “loro”.
Sono una ricercatrice precaria o una precaria della ricerca non so come definirmi e forse non voglio nemmeno farlo.
Sono una dottora di ricerca, che ha scelto di continuare ad andare avanti studiando ed approfondendo tutto ciò che è sotto la grande targa degli “studi di genere”.
Sono cresciuta nell’Università della Calabria, tra i corsi di sociologia generale, di teoria sociale, di studi di genere, di sociologia delle relazioni etniche, di mafia ed antimafia.
Sono cresciuta all’interno di uno spazio e di un tempo, quello del Women’s studies “Milly Villa”, con donne che mi hanno “preso per mano, facendomi camminare da sola”. Grazie a loro, ai loro insegnamenti, alla loro amicizia sono diventata la donna che a 30 anni ha una unica grande certezza: quella di crederci ancora.
Io credo che studiare e fare ricerca siano le chiavi per il cambiamento, anche per una terra come la Calabria. Io credo che tutte le dimensioni degli studi di genere siano da attraversare per comprendere la realtà, per interpretarla e per cambiarla. Io credo nel forte bisogno di rafforzare, valorizzare ciò che c’è. Credo nel valore della denuncia, ma soprattutto nel potere della proposta.
Viviamo in un paese che ha scelto di non considerare prioritaria l’università, la didattica e la ricerca; facciamo i conti con l’assurdità dei tagli che per rispondere alle esigenze di calcolo contabile annullano le nostre opportunità. I percorsi universitari sono ridotti alla somma di crediti e alla sottrazione di conoscenza, di riflessione critica, di capacità di discernimento. Tutto ciò è realtà con cui ci scontriamo tutti i giorni da anni.
Ma da anni cerchiamo alternative possibili, da anni resistiamo a tutto ciò, inventandoci spazi e tempi alternativi. Da anni passiamo le giornate a scrivere i progetti, che creano opportunità di studio, ricerca, didattica e ci permettono anche di poter lavorare. Da anni ci spostiamo da un ambito all’altro per poter avere un lavoro che ci possa permettere di continuare a studiare. Andiamo via calcolando i giorni del rientro per programmare incontri, formazione, ricerca. Studiamo di notte, e proviamo anche a fare i conti con il mondo dell’editoria che in generale, non valorizza le giovani. Cerchiamo di contribuire ai dibattiti scientifici, ma siamo costrette a pesare cosa e come pubblichiamo, quando ce lo fanno fare.
E facciamo tutto ciò radicate in un territorio, senza chiuderci nei convegni o nelle nostre stanze piene di libri, una terra che urla richiesta di cambiamento.
Io questo l’ho voluto perché sono cresciuta con chi e grazie a chi, ha creduto in me e nelle giovani appassionate di studio e ricerca. L’ho vissuta questa alternativa e l’ho resa possibile nel Centro di Women’s Studies “Milly Villa”.
E non lo dico perché c’è bisogno di difendere uno spazio, ma perché ho bisogno di continuare a crederci. Per questo, quello che sta accadendo a partire dalla pubblicazione della notizia su uno dei corsi di genere nell’Università in cui sono cresciuta, mi ferisce, mi delude, mi fa arrabbiare.
Sono delusa da chi ha preferito l’eco giornalistica alla costruzione di una rete che ha a cuore davvero lo sviluppo, la trasversalità, la presenza degli studi di genere nei corsi universitari. Sono amareggiata nel leggere campagne mediatiche basate sulla superficialità e non sull’approfondimento. Mi fa arrabbiare la poca coscienza critica di donne che sposano una causa senza voler nemmeno capire cosa sia successo davvero. Mi ferisce, chi usa una battaglia così importante per tutte noi, per altri fini personali o di potere.
Forse, come spesso accade quando si lotta, si apprende e si usano le stesse armi e gli stessi modi di coloro contro i quali si è sempre lottato. La personalizzazione, l’individualismo, la strumentalizzazione, la delegittimazione di chi potrebbe rappresentare la coscienza critica di tutto e l’alternativa rispetto a chi, altro interesse non ha, se non quello di mantenere l’ordine costituito o comunque cambiarlo, ancora una volta, per non cambiare niente.
Io a tutto ciò preferisco chi si è messo in gioco per costruire, insieme, un’alternativa.
Preferisco chi si sporca le mani e chi ha creduto e scommesso nella ricerca fidandosi di chi come me, altro non ha se non la passione e la caparbietà.
Preferisco le docenti che stabiliscono relazioni autentiche con le studentesse, consapevoli di crescere insieme, senza poi usarle per legittimare discorsi e pratiche.
Preferisco chi parla chiaro, chi si guarda in faccia dicendosi quello che si pensa, nella semplicità di un incontro.
Per questo, continuo a credere che quello che sta succedendo debba e possa essere un’occasione per ribadire che dobbiamo credere e creare un’alternativa, perché è una resistenza che va condivisa nella pratica quotidiana. Non facciamoci usare. Tradiremmo il senso di ciò per cui stiamo lottando.
Stiamo lottando da tempo affinché la prospettiva di genere sia trasversale a tutti gli ambiti; stiamo lottando da tempo perché vogliamo una formazione universitaria che abbia cura delle dimensioni di genere in tutti i livelli; stiamo lottando da tempo affinché chi ama profondamente leggere la realtà attraverso il prisma di genere possa continuare a farlo. Stiamo lottando perché la memoria sia un bene che si concretizza nella continuità di una trasmissione tra generazioni che crescono insieme.
È una lotta che diventa politica se si costruisce un noi. Un noi libero, vero, autentico. A partire da qui.
Sabrina Garofalo
Centro di Women’s studies “Milly Villa” >>
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