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Una nazione di blogger

Da Lucas
Al mio elenco blog personale, ai miei link, ai miei Google ReaderLa letteratura serve a fare politica?

Altroché. Io direi: soltanto la letteratura può avere una funzione politica. Lo scrittore porta squilibri, questo è vero. Ma non dimentichiamo che il più perfetto e stabile degli equilibri è la morte. Vede bene che lo squilibrio è un fattore di vita. Anche se sarà vita dura.

Secondo lei esiste la fuga nel privato di cui tanto si parla come l'ultima versione del qualunquismo?

Io dico di no. Questa scoperta del privato mi sembra un'immagine pubblicitaria. Direi addirittura un invito: si vuole, si cerca di spingere la gente nel privato. Il privato come altro polo rispetto alla criminalità. L'unanimismo ci vorrebbe tutti concordi nel rinunciare al diritto di opposizione. La criminalizzazione serve per liquidare il reato del dissenso. La fuga nel privato serve per non vedere, per non sapere, non rifiutare. Questo gioco va spezzato prima che sia troppo tardi.

Leonardo Sciascia, Intervista a La Repubblica, maggio 1979, tratto da La palma va a nord, Gammalibri, Milano 1982

Due domande, due risposte - per me illuminanti - sul senso dell'essere un blogger. La prima mi (ci) riguarda in quanto ogni pensiero scritto mira ad essere (senza nessuna presunzione) letteratura. Con un'unica avvertenza: la qualità della stessa non possiamo essere noi a dirla: ogni giudizio sul nostro fare letteratura è illegittimo. Ma, chi meglio, chi peggio, chi da professionista, chi da dilettante, ognuno di noi fa letteratura con la misera della sua bravura (per parafrasare Paolo Conte, Nessuno mi ama). Letteratura politica? Sì se si considera politica in senso lato. Il blog è politica di piazza, nuova agorà. Chi dice con sicumera “io scrivo per me stesso” a mio avviso mente. Ogni scrittura diaristica prevede un lettore (e il lettore non è mai la stessa persona dello scrivente). Sciascia poi parla dello scrittore che porta squilibrio nella società; infatti, ogni post è un sasso nell'acqua. Il tonfo e lo schizzo può essere più o meno esteso, dipende da peso specifico del post. Addirittura dei post, rimbalzando sul pelo dell'acqua, provocano altri post, altri schizzi, altri squilibri.

La seconda risposta dona magnifica pertinenza al senso di essere un blogger. Scrivere post pubblici, infatti, è cosa toto cœlo diversa dalla “fuga nel privato”; è cosa massimamente pubblica che tenta di “spezzare il gioco” del potere che ci vuole inerti utenti, semplici consumatori, ingranaggi ben oliati della catena del dominio. Ogni blogger, dalla periferia di se stesso, cerca di rompere l'unanimismo, il coro della messa cantata, e invita ogni lettore a farsi a sua volta pensiero che parla con la sua voce per raggiungere il centro, là dove si gioca la vera partita politica.

Io ho profonda ammirazione e rispetto per Alfonso Berardinelli. Ho letto con soddisfazione diversi suoi libri, e altresì molti suoi articoli (sia sul Foglio che sul Sole 24 Ore). Per esempio, mercoledì 26 maggio, sul Foglio, ho letto un suo, a mio avviso, luminoso articolo su cosa sia la vera critica militante e se essa esista ancora. Il titolo dell'articolo è un perfetto sunto del contenuto: «Non scrittore, con altre vocazioni e pochi amici: ecco il critico militante». Bene, come può egli, dopo tale eccellente catalogo di dieci punti, non estendere lo sguardo sul mondo dei blog per constatare che esso è l'ultimo vero rifugio della critica militante in via d'estinzione? Ovvero, come può egli, leggendo il libro di Cass R. Sunstein, Voci, gossip e false dicerie, Feltrinelli, generalizzare così giudicando negativamente in blocco tutti i blogger, come fossero degli untori post-moderni che spargono soltanto diffamazioni e dicerie? Ma ha mai perso un'ora del suo prezioso tempo a leggere alcuni blogger particolari per verificare personalmente che le cose non stanno affatto come egli s'immagina? Basta un solo post della colonna del mio elenco blog personale (ivi pubblicato a sinistra) per rendersi conto di aver detto una cazzata.

Infine, alcune riflessioni su queste parole di Steve Jobs:

«Non voglio che ci trasformiamo in una nazione di blogger. Credo nei media e nei contenuti delle notizie. Penso che la gente voglia pagare per avere contenuti».

In prima istanza va detto, per dargli subito smentita, che generalmente il/la blogger non crea notizie, si limita a commentarle, dacché il/la blogger non è un produttore di realtà, ma un lettore attivo (non passivo) della stessa. Certo, come tutti i commentatori ufficiali autorizzati, e pagati, si rifà a quanto accade nel mondo. Ma che, mi chiedo, gli/le si vuole negare il diritto di interpretazione del mondo, della vita, della realtà che lo/la circonda?

Certo, la missione di Steve Jobs non è altro che vendere i suoi geniali prodotti e continuare a guadagnare anche dopo la vendita offrendo software e accessori a pagamento. Non solo: ultimamente pare che egli sia diventato un convinto assertore del far soldi anche attraverso la pubblicità che passa nelle sue applicazioni. Nessun biasimo in questo: in fondo Jobs dimostra di essere un Berlusconi della miglior specie, che limita la sua azione imprenditoriale al suo specifico campo: perciò egli è da ammirare e rispettare, giacché basa il suo successo solo su questa specificità e non invade altri campi per perpretare il suo successo e il suo potere (come invece fa il Nostro, sceso in campo pubblico per difendere il suo campo privato). È chiaro dunque che Jobs paventi il fatto che l'America diventi una “nazione di blogger”: per il fatto stesso che i blogger non sono soggetti passivi, semplici consumatori: ai blogger basta un pc con una buona tastiera, una connessione adsl e abbastanza cervello per pensare e scrivere. L'enorme successo dell'iPad, e il conseguente pecorismo di tutti i media che hanno fatto a gara a chi per primo avesse il suo applicativo per farsi leggere con tal strumento (con l'illusione di recuperare il lettore perduto o conquistare il non-lettore), ha fatto presagire a Jobs che la sua tavolozza possa “monopolizzare” il mercato delle news e per questo possa considerarsi “rivoluzionaria”. Un autorevole blogger americano, Ryan Tate, gli ha fatto presente che le cose non stanno esattamente in questi termini: «Se Bob Dylan oggi avesse vent’anni definirebbe seriamente l’iPad una rivoluzione? La rivoluzione vera è la libertà. E un dispositivo del quale la società controlla ciò che si può fare e cosa non si può fare non può garantire in nessuno modo la libertà».

E qui Jobs, replicando privatamente al blogger con una mail (che poi lo stesso Tate ha reso pubblica scandalizzando i foglianti suscettibili alla privacy) è andato fuori dal seminato facendo dei blogger un insieme di cattivi pirati pornografi: «La libertà che offriamo [con iPad] è quella da programmi che rubano dati privati, che uccidono la batteria e dal porno. Forse ti fidi troppo di alcuni blog malinformati», ha risposto un piccatissimo Jobs non cogliendo il merito della critica.

E la vera critica liberale dei blogger è contenuta proprio nelle parole di Ryan Tate. Ripetiamole ad alta voce: La rivoluzione vera è la libertà e la libertà non scende dall'alto o sale dal basso, la vera libertà non si compra facendo la fila davanti ai MacStore o acquistando quaranta giornali online: la libertà vera, rivoluzionaria, passa attraverso il pensiero in azione. I blogger: piccoli grandi individui in grado di dare senso agli aggettivi ripetuti che accompagnano la nostra specie Homo.


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