Cari amici, sempre più spesso ho l’impressione che uno dei maggiori problemi del nostro tempo sia la scuola e la formazione in generale dei nostri allievi più giovani. Perché? Senza troppe spiegazioni, soggettive e arbitrarie, vi chiederei semplicemente di cercare su Google Immagini la parola “education”.
Fatto? Bene. Non vi sarà sfuggito lo scenario: una lunga fila di “tocchi”, i cappellini dei laureati. Credo non ci sia simbolo migliore per descrivere la situazione attuale: l’educazione – ad oggi – è considerata dalla maggior parte delle persone come un percorso che possiede al suo apice il titolo accademico.
La faccenda non lascia indifferenti, soprattutto perché condivisa da una cultura intera. Un percorso con una tale finalità presuppone diversi fattori, uno più inquietante dell’altro. Il primo è che chi non ce la fa (si ferma prima, fa una scuola professionale, va a lavorare, tarda a dare l’ultimo esame, tenta la carriera del ballerino…) è considerato certamente un po’ meno di chi può indossare il “tocco”. Poveretto. Poveretta.
Il secondo è che la scuola – sempre ad oggi – è concepita come mezzo per infarcire le menti degli allievi di informazioni, dati, tecniche. Più cose ci metto, meglio è, partendo dal presupposto che la conoscenza sia fornibile da qualcuno che la possiede, senza spazio alcuno per la scoperta, la creatività e l’errore.
Il terzo è che, in una società di laureati, possiamo constatare dei tassi di disoccupazione alle stelle e la carenza di variegate figure professionali che la società necessita e che fatica a trovare.
In ultimo, alzi la mano chi può dire con certezza che grazie alla sua laurea è diventato una persona migliore.
Questo naturalmente non è affatto un tentativo di screditare un percorso accademico, ci mancherebbe altro. Tuttavia credo che sarebbe opportuno considerarlo proprio in quanto tale: un percorso, uno tra tanti, una forma di educazione tra tante, un’opportunità tra tante, senza giudizi di valore.
Cosa’ha a che fare tutto questo con i nostri ragazzini? Bè, non so se ricordate un mio precedente articolo sui generis scritto (neanche a farlo apposta) dopo un consiglio di classe (1). In quel post raccontavo di aver sentito una conferenza su TED di Ken Robinson, personaggio brillante e pieno di risorse (2). Non paga di quella sferzata di energia, ho acquistato e letto un suo libro, “Out of Our Minds” (3), un saggio in cui Robinson mette in parole i dubbi e le domande spesso confuse che da insegnante mi pongo quasi tutto l’anno. Anche lui crede che la scuola vada rovesciata, e che quella dell’accademico sia solo una delle tante forme di vita possibile (4). Per chi sta leggendo e non è insegnante, occorre dire che sempre più spesso nelle classi si ha a che fare con problemi enormi: dispersione scolastica, demotivazione, aggressività. Baccano, confusione, rifiuto delle regole, disinteresse, sonno. Sofferenze, silenzi, senso di fallimento e frustrazione. E mille altri particolari affatto incentivanti.
Ora, avendo la fortuna di lavorare come consulente in percorsi professionalizzanti, mi sono resa conto che la conoscenza può essere trasmessa in mille modi diversi, uno dei quali è quello pratico. Vero, reale, immediatamente sperimentabile. E che è anche molto apprezzato.
Ho capito anche che i ragazzi con i quali abbiamo a che fare sono una riserva di energia inespressa o iper-espressa in modo non funzionale. Allora ho fatto un po’ i conti con le cose che mi sono servite durante questo tempo e ho pensato – anche grazie al lavoro di Robinson – di condividere con voi una serie di punti di osservazione non convenzionali, che forse potrebbero servire a creare una scuola alla rovescia. Questa lista è da considerarsi aperta e discutibile: aspetto un vostro contributo in proposito, una riflessione e (apprezzatissime!) delle proposte operative.
1 – Sui neuroni mirror e l’utilizzo inopportuno della voce
Le neuroscienze servono, specie da quando abbiamo perso il buon senso che ci permette di capire le cose come effettivamente sono. I neuroni mirror o specchio sono quella classe di neuroni che si attiva sia mentre facciamo qualcosa che quando osserviamo qualcun altro compiere la medesima azione. Il che giustificherebbe l’inutilità di insegnare che il fumo fa male mentre teniamo una sigaretta in mano.
Cosa significa? Che un insegnante – sia che insegni da 6 mesi che da 35 anni – non può esimersi di mettersi in gioco e di vedere nel comportamento dei suoi allievi anche una parte di se stesso. Non dobbiamo avere paura di ciò che riflette la nostra classe: ci parla anche di noi, del nostro modo di porci nei loro confronti e – cosa ancora più sottile e insidiosa – di cosa noi realmente pensiamo di loro. Se mi sforzo di fare del mio meglio ma in cuor mio credo che i miei alunni siano dei poveracci, ignoranti e senza speranze, cosa conterà maggiormente? L’ultimo corso di aggiornamento o ciò che penso?
In pratica, quando i nostri allievi gridano, chiediamoci come utilizziamo la nostra stessa voce per comunicare con loro. Anche i neuroni mirror insegnano…
2 – Non solo secchioni
Spesso in classe – nei momenti di maggiore intensità – gioisco del fatto che non tutti siano come ero io da ragazzina. Secchiona e scontenta. Il talento può esprimersi in vari modi, e deve farlo. Questo fatto è importantissimo: se si assume che non nasciamo come una tabula rasa ma che in noi si annidi un talento (anche se a volte difficile da stanare), la scuola dovrebbe essere concepita non solo come un imbuto attraverso il quale riempire i contenitori altrui di conoscenza, ma anche come un rastrello che persegua la finalità di aiutare i ragazzi a scoprire quale sia il loro canale di espressione principale della loro creatività. Scopriremo che non tutti esprimono maggiormente se stessi studiando Dante, ma che qualcuno riesce a farlo – godendo poi di tutta l’energia e l’entusiasmo che ne trae – ballando. Cantando, dipingendo, suonando. Scolpendo, progettando, scrivendo. Impastando una pizza facendola roteare in aria. La scuola deve incentivare la creatività, non sopprimerla, ora più che mai. Potremmo davvero stupirci.
3 – L’apprendimento è un processo individuale
Non possiamo più pensare ad una classe in cui tutti stanno zitti e imparano. Specie se chi partecipa ha meno di 25 anni. L’apprendimento dovrebbe essere differenziabile… come? Un buon aiuto possono darcelo le nuove tecnologie. Consideriamo di dover insegnare l’era del Giurassico: perché farlo ancora in modo preistorico? Qualcuno naturalmente potrà apprezzare la nostra lezione frontale, ma qualcun altro potrebbe trarre maggior giovamento da un video, altri da immagini, altri ancora dalla progettazione di un plastico, o giocando ad un videogame studiato ad hoc. “Si, e come si fa? Non sai che c’è poco tempo per tutto?” potreste chiedermi. Lo so, ecco perché potremmo parlarne, e magari iniziare dal possibile.
4 – Il successo genera successo, la gioia conduce alla gioia.
“Non ci sono vie per la felicità. La felicità è la via” recita un detto buddhista. In effetti, non può che essere così. Avete mai osservato cosa succede quando degli studenti compiono qualcosa di buono, quando riescono ad esprimere la loro creatività in modo costruttivo o eccellere in un compito, o richiesta, come mai prima di allora? È qualcosa di impagabile. Il lavoro con questi studenti ne risulterà completamente trasformato quando si riesce a farne tesoro: l’autostima generata, la comprensione del bisogno di sforzo e disciplina per riuscire in un’impresa può cambiare radicalmente la percezione di sè, dell’apprendimento in generale e degli insegnanti. A volte, anche della propria vita.
5 – Il cambiamento non è solo una questione di psicologia. E nemmeno di psicologi.
Ci sono generalmente due atteggiamenti di fronte al problema dell’educazione e alle proposte psicologiche. Uno vuole che tutto sia risolto dagli psicologi, i quali di fronte ad uno scenario complesso e variegato dovrebbero proporre strategie e metodi validi per una sua rapida risoluzione. Un altro invece si fa quasi beffe della materia, quasi a dire: “si si, provaci pure. Intanto noi professori dobbiamo occuparci di cose serie, come i programmi e i voti”. Credo fortemente che entrambi i punti di vista siano limitati. Che gli psicologi si occupino di bagattelle non è vero, anzi, non è sempre vero. Talvolta il punto di vista offerto da chi si barcamena, in primo luogo, con la propria psicologia potrebbe essere molto utile. Che a questi ultimi però sia affidato l’onere di portare la luce, è decisamente ingenuo. Sarebbe utile a questo proposito rinfrescarci la memoria con lo studio di Strupp e Hadley che, nel 1979, hanno dimostrato come dei finti psicoterapeuti, rappresentati in realtà da alcuni professori di varie materie con una forte predisposizione all’ascolto degli altri, abbiano ottenuto gli stessi risultati di un gruppo di veri psicoterapeuti nell’aiuto di studenti problematici.
6 – Disponibili si, fessi no.
Altra questione è quella della disciplina. Sono convinta che un buon punto fermo sia quello del rispetto delle regole, almeno di quelle di base che garantiscono un incontro rispettoso tra persone che hanno ruoli diversi. Ne sono convinta perché i miei allievi, dopo un anno di urla e strepiti per concessioni non soddisfatte (richieste reali: mp3 durante le verifiche, girarsi una sigaretta in classe prima di uscire, rispondere all’sms della mamma durante la lezione, andare in bagno dopo l’intervallo, uscire per picchiare il compagno della classe accanto e così via) mi hanno riferito di essere stati contenti. Di essere stati contenti di ricevere dei no, per quanto categorici e vissuti, in quel momento, come crudeli prese di posizione. Certo, ci va energia, anche perché spesso il “no” scatena tempeste furiose che potrebbero essere facilmente mitigate dalla più piccola eccezione. Resistere alla tentazione può essere difficile, ma a parere mio, strettamente necessario.
7 – L’unione tra gli allievi fa la forza. Ma quella tra gli insegnanti non è certo da meno!
Tutti sappiamo cosa succede ai bambini quando mamma e papà litigano tra loro. E sappiamo anche l’effetto che ha la mancanza di stima, fiducia e collaborazione tra le figure di riferimento per una persona in crescita. Devastante e caotico.
Per molti questa sarà una banalità, ma il fatto è che nelle scuole si crea una sorta di famiglia, istituzionale d’accordo, ma pur sempre una famiglia. I ragazzi si immergono in questo fino al collo, acuiscono dinamiche e giocano sui malintesi. È incredibile quanto può fare l’accordo tra i professori, la condivisione chiara di un obiettivo comune, la predisposizione all’aiuto reciproco e la creazione, insieme, un ambiente dinamico e gioioso. Il contrario genera disordine, disorientamento e malumore.
Bene, a questo punto vi starete chiedendo se io sia così brava da svolgere nella piena consapevolezza e serenità questo lavoro. Non lo sono affatto, sto solo tentando approcci differenti, rinforzata dai piccoli e grandi successi che conseguono ad un arduo e appassionato lavoro prima su me stessa, e poi con gli allievi. Ancor meno ritengo di potercela fare da sola, per questo ogni vostro contributo sarà il benvenuto. A presto!
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