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Una riflessione sull’allevamento intensivo animale, sull’uso dell’omeopatia per la loro cura e qualche dubbio sulla loro ecocompatibilità.
Pochi giorni fa Marco Zatterini ha pubblicato su Lastampa.it un articolo sul progetto di stanziamento di 2 milioni di € della commissione Agricoltura di Bruxelles per l’impiego delle medicine non convenzionali nella tutela della salute degli animali da allevamento.
Questo articolo, al di là del plauso che suscita la notizia e della riconoscenza verso i due autori della proposta, la tedesca Ulrike Rodust e il portoghese Luis Capoulas, solleva un tema di vitale importanza nella nostra società: la sostenibilità e la genuinità degli alimenti.
Fin dal 2002 la World Health Organization in più occasioni ha caldeggiato l’introduzione delle MNC per l’uomo e per gli animali nei sistemi sanitari nazionali (sia dei Paesi progrediti, sia in quelli in via di sviluppo) perché in grado di permettere un ampliamento degli approcci diagnostici e terapeutici (potenziamento dell’atto medico) e perché in grado di apportare una sensibile riduzione dei costi nei piani e nella spesa sanitari dei Paesi. Ma queste proposte hanno avuto poco seguito.
Da tempo le autorità di tutto il mondo hanno lanciato l’allarme per il continuo aumento della resistenza agli antibiotici nella popolazione umana e animale. Una recente inchiesta ha rivelato che i mangimi industriali contengono spesso grandi quantità di antibiotici, ormoni e altri farmaci.
Molti allevatori hanno dichiarato di mescolare antibiotici e farmaci nei mangimi senza rispettare dosi o combinazioni. Questi additivi artificiali non sono degradabili e sono stati immagazzinati nelle carcasse come residui antibiotici.
Il corretto uso degli antibiotici negli animali, sostengono queste fonti, può accelerarne la crescita e proteggerli dalle infezioni, ma dosi eccessive o l’uso di farmaci inappropriati può causare la resistenza e mettere in pericolo la salute dei consumatori dei prodotti di origine animale.
In Europa, in occasione della Giornata Europea degli Antibiotici, lo scorso 18 novembre 2010, gli studiosi hanno avvertito che la resistenza ai farmaci rappresenta una grave minaccia per la salute pubblica. L’Europa si trova ora a dover affrontare un possibile futuro senza antibiotici efficaci -dicono gli esperti- e questo non è accettabile.
Il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) sostiene che circa 400.000 pazienti all’anno potrebbero soffrire di infezioni resistenti ad antibiotici multipli, con 25.000 possibili decessi. Il problema potrebbe costare al settore sanitario quasi 1.5 miliardi di euro all’anno.
Un approccio omeopatico al trattamento di fondo degli allevamenti bovini potrebbe ridurre dell’80% le patologie. A questo risultato sono giunti recentemente gli esperti della Azienda Regionale Veneta, dell’Universita’ di Padova e un gruppo di veterinari dopo aver condotto un’indagine parassitaria sugli allevamenti bovini biologici del Veneto.
Come vengono curati attualmente in Italia gli animali adibiti alla produzione biologica nel caso siano colpiti da malattie, per esempio: diarree, bronchiti, mastiti, febbri?
In teoria il regolamento CEE 834/2007, che delinea le linee guida delle produzioni biologiche, stabilisce che, come prima scelta, deve essere usata l’OMEOPATIA o la fitoterapia, ma che in caso di pericolo di vita per l’animale, si possono usare farmaci di sintesi (antibiotici ed antiparassitari). Per questo motivo, appellandosi a questa deroga, buona parte degli allevamenti biologici che producono carne, latte, uova, miele utilizzano senza problemi farmaci tradizionali, senza che il consumatore ne venga informato.
La Dott.ssa Marina Nuovo, veterinario omeopatico dell’ UMNCV (Unione di Medicina Non Convenzionale
Si parla di circa 24 miliardi e 300 milioni sulla terra che devono per forza venir allevati intensivamente, altrimenti non ci sarebbe abbastanza spazio per tutti. Mi viene citato poi un interessante libro bianco redatto dalla LAV, “cambiamento climatico e allevamenti intensivi”, in cui si legge inoltre che dagli ultimi 50 anni la temperatura terrestre ha iniziato ad aumentare fino a 1°C e proprio l’allevamento intensivo è tra le maggiori cause di aumento di temperatura terrestre.
Nel 2006 la FAO pubblicò un dossier intitolato “ livestock’s long shadow” (la lunga ombra degli allevamenti intensivi) in cui è stato calcolato che il 51% di anidride carbonica, metano e protossido d’azoto è emessa dagli allevamenti contro il 14% della attività di trasporto via terra, acqua e mare. Per la FAO le emissioni di gas serra devo essere dimezzate al più presto e dunque bisogna ridurre drasticamente il numero degli allevamenti intensivi e il consumo di prodotti di origine animale, sostituendo la porzione di carne con un piatto di legumi. Sostituire cioè un piatto di proteine animali con proteine vegetali. In parole povere un piatto ricco di proteine vegetali riduce dalle 10 alle 30 volte l’emissione di gas serra rispetto a quelle animali.
In un articolo del Prof. Giuseppe Altieri, Agroecologo, Docente Ordinario di Fitopatologia, Entomologia, Agricoltura Biologica ho letto che i prezzi pagati agli agricoltori hanno raggiunto oggi il minimo storico infatti la paglia (12 €/q.le) vale più del grano (11,5 €/q.le)…. mai successo nella storia umana !!! Ho letto anche che oggi alleviamo 10 miliardi di bovini che mangiano almeno come 30 miliardi di persone in fabbriche di animali piene di medicinali ed ormoni. Vengono nutriti con mais, soia e altri prodotti e sottoprodotti agricoli e industriali che consumano più petrolio dell’energia solare fissata attraverso la fotosintesi dalle coltivazioni. In tal modo accumuliamo nelle carni moltissimi residui chimici, soprattutto pesticidi. …mentre 1 miliardo di esseri umani soffrono la fame. Il prof Altieri sostiene che basterebbe puntare alla sovranità alimentare autosufficiente dei singoli popoli attraverso l’Agroecologia e le Produzioni Biologiche Tradizionali locali,organizzate con filiere corte o dirette, dai produttori ai consumatori ed inoltre dovremmo ridurre di almeno il 70% gli animali allevati al mondo.
In Italia, invece di allevare 10 milioni di Unita Bovine Adulte equivalenti (UBA), ne basterebbero 3 milioni. Rimarrebbero a disposizione degli italiani ancora ben 500 grammi di carne procapite alla settimana (o qualcosa in più in equivalenza nutrizionale, sotto forma di latte o formaggi)
Più un po’ di pesce fresco pescato dai mari che ci circondano per migliaia di km (con un po’ di bioaccumulo di residui chimici di tutti i tipi, che purtroppo attraverso i fiumi finiscono a mare). Se proprio, conclude Altieri, non vogliamo diventare vegetariani!
Questo quadro è davvero inquietante e non può che indurci ad una utile riflessione e a qualche sano conseguente cambiamento di dieta: sicuramente meno bistecche e più cereali ma le poche che rimangono …rigorosamente “coccolate” da Hahnemann!!