Chissà se chi è solito usare con disprezzo l’aggettivo «buonista» condivide e, senza il minimo imbarazzo, diffonde il detto che ripetiamo in prossimità di ogni 25 dicembre: «A Natale si è tutti più buoni». Invece non è affatto vero che siamo tutti più buoni, a Natale. Come accade per il ladrocinio — altro proverbio, stavolta più realistico — sono le occasioni a farci di volta in volta «buoni» o «cattivi»; molto dipende dall’incerto punto di vista con il quale giudichiamo le persone, le situazioni, gli avvenimenti.
L’unico punto di vista per giudicare rettamente le cose — cantava Fabrizio De André in un memorabile testo dedicato alle popolazioni nomadi — sarebbe però quello «di Dio». Un privilegio che evidentemente non ci possiamo permettere. In mancanza di una prospettiva così elevata, forse è allora possibile immaginarsi questo punto di vista superiore all’incrocio di prospettive contrastanti, scartando per un momento dalla consuetudine che ci spinge a rifugiarci nelle nostre consolidate certezze. Occorre una pausa, una sospensione, un’epoché, il termine della ricerca fenomenologica sull’essenza della nostra relazione con il mondo che presuppone la distruzione delle categorie mediante le quali siamo soliti interpretarlo. Propriamente, si tratterebbe di una nuova nascita o di una rinascita, sia personale sia estesa a tutto quanto ci circonda.
Il senso della pausa natalizia, tempo minimo in cui tutto si distrugge e attende di potersi ricreare, è espresso non a caso da una poesia di un poeta coinvolto in una folle impresa di distruzione, la Grande Guerra del 1914-1918 di cui ricordiamo il centenario. Durante un periodo di licenza dal fronte, a Napoli, Giuseppe Ungaretti scrisse alcuni versi per celebrare il Natale e riflettere sulla sua condizione di uomo spossato dai mesi passati a combattere: «Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade. Ho tanta stanchezza sulle spalle. Lasciatemi come cosa posata in un angolo e dimenticata. Qui non si sente altro che il caldo buono. Sto con le quattro capriole di fumo del focolare». Ma dov’è, oggi, il caldo buono strappato alle guerre vicine e lontane che stiamo combattendo? Chi può concedersi una tregua, almeno la notte di Natale?
Dovesse davvero tornare sulla terra, è sicuro che il nostro Dio, al quale tributiamo onori talvolta ipocriti e inconsapevolmente blasfemi, scenderebbe da uno di quei vagoni perquisiti alla frontiera: straniero, inerme e solo come un profugo alla deriva.
Corriere del Trentino e Corriere dell’Alto Adige, 24 dicembre 2014