Una perfetta stanza di ospedale
Autore: Yoko Ogawa
Adelphi- pp.gg. 128- euro 10- 2009
Uno spazio vuoto in noi, lontano dai luoghi dei ragionamenti, dalle riflessioni. Il dolore può essere il rarefatto sospiro della presa di coscienza della propria vita che diventa una mano che preme e schiaccia per soffocare il ritmo dei pensieri e fonderli con immagini che non abbandoneranno mai la culla delle retine.
Yoko Ogawa, in questi due racconti, placida riesce a portare una nebbia fatta di tempo e vuoto, che dal passato si propaga per resuscitare attimi di estasi emozionale nelle due protagoniste e nel loro presente.
Tutto il resto del mondo che si muove lontano e attorno alle due storie è fatto di pane. Morbido o secco che sia, comunque facile da tagliare grazie a parole che lacerano senza lasciare briciole di eccessi.
Un pianto che cresce, di cui si ignora la natura, assale le pagine che tagliano invisibilmente le dita per intossicarle con l’inchiostro degli eventi, con frasi che scivolano dalle bocche delle voci che abitano questo libro.
Ne Una perfetta stanza d’ospedale, una giovane assiste al lento disfacimento del fratello nel letto dell’ospedale dove lavora. La dimensione pulita della camera, del cibo (l’uva, unico sostentamento accettato dal corpo del ragazzo) e il l’amorevole distacco che si sta accorciando tra la morte e i due, non lascia scampo, lei figlia della medicina è figlia anche della madre di quel corpo sotto le lenzuola pulite.
Non c’è tempo per poter pensare a cosa si possa provare in quella situazione. Non c’è tempo, perché il tempo si piega sotto il peso dei monologhi della donna che ricorda la madre folle, il suo allontanarsi dalla realtà dei gesti sensati, della sorella che vive il marito la notte ad orari improbabili. Una protagonista di una fragilità fastidiosa, di una delicatezza terribile che scuote ad ogni riverbero pronunciato dalle piccole labbra. La scostante pelle dei silenzi abbraccia il racconto e non c’è niente che possa salvare dalla fagocitazione emozionale che divora gli occhi.
Il secondo racconto, Quando la farfalla si sbriciolò copre la bocca del lettore, fa tornare indietro dolcemente lo stato di commozione e con un sorriso dice “Aspetta. Ascolta” e lo schermo si illumina di nuovo. Anche qui c’è l’allontanamento, la disgrazia del disfacimento, ma questa volta mentale.
Sae ha perso tutto della sua ragione, vive di frammenti di volti e significati, immobile nella sua anormalità che serve alla nipote a ricordarsi della propria normalità. E la giovane nipote, protagonista, viene messa alla prova: dal suo status, dal suo amore, dall’abbandono dell’anziana in un centro di cura, dall’io del suo amato Mikoto (che nella città cerca per i suoi scritti, rumori che non possono essere ignorati) e dal seme che cresce nel suo ventre dopo che la lingua del compagno ha leccato il mormorio sommesso dei corpi.
C’è il parto della coscienza. Della proprietà di una coscienza che sente il bisogno di credere che non si può allontanare un evento, una vita, anche quando sembra giusto farlo. E il battito d’ali di una farfalla può essere interrotto solo dal bacio della consapevolezza che ricerca la protagonista. Forse.
Yoko Ogawa, scuote dal torpore con una scrittura che è stata definita “coltello” perché nel leggere le sue opere si prova un piacere doloroso, ma non è soltanto questo a far salire delle lacrime che non bagnano. Questo libro ha un altro merito ed è quello di affermare che per quanto deboli si possa diventare, ogni essere umano ha qualcosa che non può dimenticare … dentro il ventre caldo dei propri silenzi, ha una vita che porta il proprio nome, pronta al suo primo vagito. Sempre.
Buona scelta
IBD