Che infinita tenerezza ieri all'uscita della scuola materna, vedere l'ometto grande per la prima volta, anziché fuggire da quel luogo infestato di rumore e confusione, soffermarsi nell'atrio della scuola e cercare l'attenzione del suo compagno di classe, quello più forte, più avanti, più in gamba.
E vederlo, mentre l'altro finalmente si accorge di lui, mostrargli lo zainetto dei gormiti, con un sorriso orgoglioso e tremolante. Bello, dice lui distrattamente.
E allora l'ometto lo segue fuori, fino al cancello e al prato, perché sente ancora quella timida, euforica voglia di scambiarci una parola, di cavargli un po' d'attenzione, condividere una cosa ancora. E allora viene fuori una di quelle domande che ci si fanno fra adulti, tanto per dire qualcosa, tanto per incrinare quel ghiaccio: bello il tuo cane, come si chiama?
Ecco, vedere quel guscio di bambino che per la prima volta si apre e tira fuori una domanda che è un niente, ma che ha superato montagne di insicurezze e timidezze per uscir fuori, vederlo girare intorno al suo amico più in gamba, a quello che probabilmente nei suoi piccoli sogni ammira di più. E io a distanza di sicurezza per non disturbare, solo come si osserva una piccola pianta al vento.