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…una poesia senza parole. La vigilia della partenza…

Creato il 13 marzo 2012 da Cultura Salentina

di Lele Mastroleo

pescatore

Ottavio Steffenini, "Pescatore con bambino", 1924 circa.

Ndeddha entrava in punta di piedi in cucina e da lì si spostava nella camera da letto della cugina. Mimmo dormiva come al solito con le gambe rannicchiate al petto. La ragazza cercava di fare piano, in quella domenica di mezzo autunno che sorrideva ad un sole ancora estivo, per non svegliare il ragazzo, ma l’attenzione si rilevava del tutto inutile:

-”Zia Ndeddha, potete fare tutto il subbuglio che volete, sono sveglio!”, disse da sotto le lenzuola ‘u caruseddhu.

-”Zia, vi debbo raccontare il sogno che ho fatto stanotte! Era un sogno strano, un sogno lunghissimo. Volete che ve lo inizi a contare?”, aggiunse Mimmo.

-”Fammi un piacere, brutto lavativo, cerca di sbrigarti per lavarti e vestirti che tua madre ha già preparato la merenda e se non ti sbrighi perderai l’orazione di Frate Alfonso e poi chi lo sente a tuo padre.”

Si levava in piedi sul letto e scappava, come tutte le mattine, al pettinale della madre e mentre si lavava il viso e le braccia amava specchiarsi e rispecchiarsi e fare facce strane. La Ndeddha da dietro lo guardava severa incitandolo a fare presto nel pettinarsi per poi vestirsi, finalmente.

-”Mimmo muoviti che sennò Tata si innervosisce. Lo sai che non gli piace fare tardi per la novena d’ognessanti“, si faceva sentire dalla corte dinanzi a casa la voce della madre.

Idro era parata a festa, i balconi e le finestre ripieni di piantine e foglie d’ulivo e pergolati rampicanti ricolmi d’uva sprina e pizzilonga, e quelle mattine di fine ottobre erano ancora calde ed il sole scaldava i sassi e le chianche del samporto e rilasciava calore ai calcagni del ragazzo che ormai vestito ballava attorno allo stiano azzurro e bianco della madre.

-” Piglia una frisa dalla capaseddha e vai in cucina a mangiare subito che dobbiamo andare, mena me’ “, diceva la donna mentre spazzava le foglie della preula che la tramontana divertiva a fare a mucchi sopra gli scalini della lamia che portavano al mignano della corte.

- “Mamma ti devo raccontare il sogno che ho fatto stanotte, è un sogno molto strano, non sai! Era un sogno bellissimo, ma pure molto triste, mamma dove sei? “, urlava il ragazzo dalla porta della cantina alla madre che però si era già allontanata con la Ndeddha per cambiarsi il vestito per poter raggiungere il marito in cattedrale.

-”Mimmo se hai finito, corri subito al porto a dire a tuo padre che siamo pronti!”, si preoccupava la donna mentre pettinava i lunghi capelli neri e mentre li raccoglieva in un crocchietto dietro la nuca ed abbelliva il tutto con un fermacapelli d’argento.

-”Vado subito madre, ma prima vi vorrei contare il sogno che ho fatto…”, non faceva in tempo a finire la frase il fanciullo che uno sguardo stizzito della Ndeddha non lo fulminava e gli lasciava in bocca il resto delle parole.

Scalzo era sempre scalzo Mimmo come tutti gli adolescenti di Idro e nessuna specie di sasso e nessuna specie di coccio tagliente l’avrebbe mai fermato. Nessuna stradina e nessun vicolo di quel bianco paese era sconosciuto a quella peste, per questo da casa per arrivare al porto ci metteva meno di un battito di ciglia. Il gatto della Puddhascia era l’unico ostacolo che gli si parava contro in quella discesa a rotta di collo che lo portava al molo dove l’attendeva il padre. Il gatto tutte le volte che il ragazzo passava di lì, muoveva in maniera forsennata la zampa sinistra, oramai più in forma di saluto che per aggredire e riceveva sempre la stessa pernacchia in cambio dal fanciullo ed era contento così.

Gli scogli della punta grande ricevevano madri attente le onde carezzevoli di un mare padre consapevole, e il ritmo millenario raccontava miliardi di storie e miliardi di fiabe e Mimmo si fermava un attimo tutte le volte a guardarlo quel suo mare, quel padre spiritoso e capriccioso e tendeva tutte le volte l’orecchio all’orizzonte per poter sentire ancora quella voce, per sentire quella nuova favola. Mentre arrivava al porto vedeva il padre intento a rassettare e ingrassare alcune sartie e spingeva sacchi di spago e corda sulla prora della nave. Era la vigilia della partenza e tutto il paese era sceso al mare per aiutare, per salutare, per incitare quegli uomini scelti dal duca-re per quella missione che sembrava ai più una cosa sbagliate. Ma nessuno aveva il coraggio di contraddire il signore, quel saggio e buono comandante del feudo che mille e mille volte con il suo coraggio aveva difeso Idro e mille e mille volte aveva sconfitto uno e più nemici.

-”Tata, buonagiornata a voi “, esordiva il ragazzo ai cospetti del padre.

-”Buonagiornata a tie, peste e tesoro “, amava chiamarlo così quel buon padre onesto e giusto.

-”Padre, vi devo raccontare il sogno che ho fatto stanotte. Ossia, tutto principiò con una nave che voi e il Comandante dovevate portare in mare per cercare la statua di Santu Nicla, che i Venetiani s’erano perduta, e poi c’era dopo la storia di voi e la mia mamma che vi conosceste ad una festa in piazza e voi la invitaste a ballare e le leggeste una poesiola che voi componeste, e successivamente c’era il Comandante che si innamorò della figlia dell’ambasciatore, Munira che poi è vero che è la sua amata? E sempre la mamma che rimase incinta di me prima che voi partivate e mi sognai tutta la storia del padre di Munira che morì sopra casa di donna Ernestina e della fuitina che fecero quella ragazza e il Comandante poiché non si potevano sposare perché erano diversi di preghiera. Dopo mi sognai che partivate dalla Punta con due o tre barche non mi ricordo e in sogno sempre ho visto tutta la scena della tempesta che vi pigliò in mare e ancora dopo la barca andava a sbattere sullo scoglio dalla punta avvelenata e finiste tutti a picco a fronte alla città di Bari. Era un sogno lungo lungo, tata. Era bello ma era triste, poi mentre mi svegliavo ho avuto paura che fosse tutto vero. Poi trasiu zia Ndeddha nella camera e ho capito che era solo un brutto sogno.

U Mecu prendeva il viso del figlio con entrambe le mani, lo sollevò dolcemente da dove era seduto e voltandogli la faccia verso il mare gli baciò una guancia.

-” Era solo un sogno, peste e tesoro, il mare non tradisce. Il mare è il padre dei nostri padri. Il mare non ha mai fame di gente innocente. Il mare si porta via solo chi lo sfida per capriccio, non chi lo sfida per sfamarsi”, diceva questo mentre cercava all’orizzonte una nuvola nemica, mentre sentiva l’odore del vento per capire se fosse odore di sangue o profumo d’autunno.

Il cane di Ferruecchio cercava tra le nasse qualcosa da mangiare. U Mecu che teneva in mano un pezzo di pagnotta lo lanciò sul muso del cane.

-” Ferruecchio, ma mi sapete dire finalmente come si chiama questo vostro cane?”, scherzava con l’uomo il ragazzo seduto su una vecchia palla di catapulta turca.

-” Non ha mai avuto un nome il mio cane. Gli animali sono diversi dagli uomini. Gli animali non hanno bisogno di nomi, né di decorazioni, né di onorificenze per essere fedeli e per essere grati”.


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