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Una prima riforma possibile

Creato il 19 marzo 2014 da Capiredavverolacrisi @Capiredavvero

Nella prima ipotesi di riforma di questo sito, “Tornare a Crescere”,  si descrivono quattro misure necessarie e fattibili nel breve termine, per diminuire le tasse di 35 miliardi all’anno. La riduzione delle tasse per 35 miliardi all’anno darebbe luogo a una maggiore disponibilità di danaro per le famiglie pari a 150 euro al mese (35 miliardi diviso 20 milioni di famiglie=1.750 euro all’anno); il che darebbe luogo ad un salutare aumento dei consumi. Studi autorevoli indicano che quanto sopra potrebbe dare luogo alla creazione di nuovi posti di lavoro, argomento che affronteremo in un prossimo articolo.

Le quattro misure possibili

Abolizione della tassazione su lavoro ed imprese, nella componente IRAP (Imposta Regionale Attività Produttive). Questo corrisponderebbe a minori entrate nette di 25 miliardi. L’eliminazione dell’IRAP aumenterebbe i margini delle imprese e ridurrebbe i costi del lavoro, stimolando investimenti ed occupazione, nel medio termine.

La seconda misura, serve a coprire le necessità finanziarie dello Stato create dalla prima. La prima componente di questa misura è la riduzione dei sussidi alle imprese di almeno 10 miliardi sui 30 attuali, come descritto dallo studio Giavazzi. I sussidi a molte imprese sono da tempo criticati nell’ambiente economico. La seconda componente riguarda il taglio del 25%  di ciascuna delle pensioni sopra i 2.000 euro mensili, ad esempio un pensionato d’oro che percepisce 20 mila euro al mese andrebbe a guadagnarne “solo” 15 mila, garantendo un risparmio di circa 10 miliardi. Su questa parte di riforma è necessario un accertamento di costituzionalità.

La terza misura se lo stato vendesse 80 miliardi d’immobili pubblici, diminuirebbe il debito di 80 miliardi, risparmiando 3 miliardi d’interessi.

La quarta misura, che è un vantaggio diretto per i cittadini è taglio del 10% del costo dell’energia, che lo Stato potrebbe attuare tramite il dimezzamento dei 12 miliardi dei sussidi alle energie rinnovabili.

Totale 29 miliardi netti, a cui si aggiungono 10 miliardi di Irap che lo Stato smette di pagare a se stesso, creando una riduzione del costo del lavoro e vantaggi delle famiglie. Il totale 39 è ridotto prudenzialmente a 35.

Per approfondire v’invitiamo a leggere la riforma  qui di seguito.

TORNARE A CRESCERE, UNA PRIMA RIFORMA

In Italia si dibatte spesso di misure di politica economica che avrebbero effetto al più per un paio di anni: gli “stimoli” macroeconomici, fiscali o monetari che siano, non hanno infatti conseguenze rilevanti nel lungo termine. Eppure l’Italia non cresce da almeno quindici anni: il problema non sono quindi gli stimoli.

L’Italia è purtroppo agli ultimi posti tra i paesi avanzati in una serie di classifiche rilevanti per la performance economica: le tasse sul lavoro e sulle imprese, il debito pubblico, la spesa pubblica per pensioni e interessi, la rapidità della giustizia civile, la trasparenza e l’efficienza della pubblica amministrazione, la semplicità della burocrazia, il costo dell’energia elettrica. Ognuno di questi record toglie qualcosa alla crescita fino ad annullarla, e aumenta la fragilità economica trasformando ogni raffreddore in una polmonite.

Un governo che volesse recuperare il terreno perduto dal paese in due decenni di stagnazione dovrebbe mettere in cantiere riforme su questi temi. D’altra parte, la crisi è ancora in corso e si deve cercare di uscirne il prima possibile, mentre gran parte delle riforme strutturali richiederebbe anni per avere effetto: se fare le riforme è difficile, farle e contemporaneamente trovare risorse per stimolare l’economia quel che basta per arrivare al lungo termine lo è ancora di più.

In ciò che segue si fanno proposte per recuperare terreno su tre dei problemi principali del paese: la tassazione su lavoro e imprese, la spesa pubblica per trasferimenti, e il costo dell’energia elettrica. Queste misure sono insufficienti da sole a recuperare l’intero differenziale di crescita economica rispetto agli altri paesi, ma stimolerebbero la crescita nel breve termine e nel lungo termine, e aumenterebbero la robustezza dell’economia agli shock macroeconomici.

Sul lato delle entrate, la proposta è abolire l’IRAP: ciò causerebbe una perdita di entrate per quasi 35 miliardi, poco più di due punti di PIL. Di questi 35 miliardi, però, circa 10 sono spesa pubblica, in quanto lo Stato paga l’IRAP a sé stesso: ne rimarrebbero quindi da finanziare poco meno di 25. Eventuali tagli di spesa successivi non sarebbero compatibili con la riduzione del deficit e sarebbero politicamente rischiosi: il deficit in aumento e il rischio che i tagli non vengano effettuati farebbero aumentare lo spread. L’eliminazione dell’IRAP aumenterebbe i margini delle imprese e ridurrebbe il costo del lavoro, stimolando investimenti e occupazione: ciò farebbe aumentare le altre entrate fiscali, ma anche questo effetto non sarebbe istantaneo. Occorre quindi trovare 25 miliardi subito.

Sul lato delle uscite, è possibile ridurre la spesa per sussidi alle imprese, la spesa previdenziale, la spesa per interessi, e forse altre voci. Non è il caso di fissare a priori dove tagliare, anche perché i dati disponibili non sono sufficienti. I principi generali a cui ispirarsi dovrebbero però essere: tagliare la spesa insieme alle tasse per non aumentare il deficit, ridurre maggiormente la spesa che meno contribuisce alla crescita (quella per trasferimenti), evitare che il costo cada sulle fasce più deboli della popolazione, e tagliare i privilegi ingiusti.

Il piano Giavazzi per i sussidi alle imprese proponeva di ridurre gli oltre 30 miliardi di sussidi di circa un terzo, 10 miliardi: ciò coprirebbe quasi metà dei fondi necessari a finanziare l’eliminazione dell’IRAP.

Riguardo la spesa pensionistica, ridurre le pensioni ottenute con i sistemi misto e retributivo è necessario, anche se ci sarebbero delle difficoltà costituzionali da affrontare. Per questo occorre accertare subito la legalità della manovra, altrimenti la costituzionalità costituirebbe una spada di Damocle per i conti pubblici. Tagliare del 25% le pensioni sopra i 2.000€ lordi mensili, garantendo però che nessuna pensione scenda sotto questo livello, potrebbe far risparmiare circa 13 miliardi. Parte del risparmio però si perderebbe per riduzione delle entrate IRPEF, e il risparmio complessivo sarebbe probabilmente di circa 10 miliardi.

Per trovare i miliardi che mancano, meno di 5, si potrebbero vendere immobili pubblici per 80 miliardi, una frazione del totale, risparmiando interessi che, se stimati al 4%, equivarrebbero a oltre 3 miliardi. Il debito pubblico è uno dei maggiori problemi italiani, frutto di decenni di finanze allegre, e ad oggi costa ogni anno circa il 5% del PIL in interessi.

La terza proposta è il dimezzamento dei sussidi all’energia, soprattutto alle rinnovabili, che non sono parte della spesa pubblica perché sono pagati in bolletta dalle famiglie e dalle imprese. Solo i sussidi alle rinnovabili costano 12 miliardi l’anno: dimezzarli significherebbe tagliare di oltre il 10% il costo dell’energia.

Mettendo in atto questo piano si avrebbe una riduzione della spesa pubblica di 35 miliardi, un’analoga riduzione delle entrate fiscali, e una riduzione della bolletta elettrica di oltre 5 miliardi per le imprese e le famiglie. Il costo del lavoro scenderebbe e la tassazione su imprese e lavoro migliorerebbe, stimolando sia nel breve che nel lungo termine la crescita economica.

Per tornare a crescere servono riforme più profonde, e ridurre la spesa e le tasse ulteriormente. Queste andrebbero messe in cantiere subito, ma gli effetti si vedrebbero solo dopo alcuni anni. Per questo è necessaria una terapia shock.

IMPATTO MACROECONOMICO

Le valutazioni di impatto macroeconomico sono spesso poco affidabili, e la letteratura scientifica riporta di norma stime contrastanti. Ogni stima degli effetti delle misure proposte è quindi da prendersi con le molle.

Circa un anno fa un Working Paper di Lusinyan e Muir per il Fondo Monetario Internazionale – che in quanto Working Paper non è da considerarsi la posizione ufficiale del FMI – pubblicò una stima dell’effetto sulla crescita nel lungo termine di varie potenziali riforme. Per una riduzione di due punti di PIL della tassazione su lavoro e imprese, finanziate da un aumento della tassazione sui consumi, il paper stimava un aumento del PIL pari all’1,8% nel lungo termine. Per una riduzione della spesa previdenziale per finanziare una aumento degli investimenti pari all’1% del PIL, invece, l’effetto stimato sul PIL era del 7,7%.

Le nostre proposte riguardano una riduzione della spesa per investimenti senza aumenti degli investimenti pubblici di entità doppia rispetto a quella considerata nell’articolo, e una riduzione della tassazione su lavoro e imprese senza aumento di quelle sui consumi. È probabile quindi che l’effetto positivo complessivo sulla crescita delle misure proposte possa essere maggiore, se si stimolano gli investimenti rendendo le aziende più competitive.

Riguardo il costo dell’energia, secondo uno studio della società di consulenza IHS sui sussidi tedeschi, che ammontavano allo 0,5% del PIL, questi porteranno ad una riduzione cumulativa del PIL di oltre il 6%. In Italia i sussidi hanno superato i 12 miliardi, pari quindi allo 0,7% del PIL. L’Italia, come la Germania, paga questi sussidi in bolletta, tanto che l’energia industriale in Italia, secondo Eurostat, costa il 20% della media europea senza considerare le tasse, mentre la Germania è poco sotto la media. Dato che il prezzo dell’energia industriale in Italia è maggiore, e che l’export ad alto valore aggiunto, meno sensibile alla competitività, ha meno peso in Italia che in Germania, per l’Italia la perdita di PIL dovuta ai sussidi potrebbe essere maggiore.

Non è quindi impensabile che con queste misure si potrebbe gradualmente recuperare una buona parte del terreno che l’Italia ha perduto rispetto agli altri paesi europei in due decenni di stagnazione: la posta in gioco è alta: il futuro dell’Italia e soprattutto delle nuove generazioni.


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