Una questione di professionalità: è una formalità?

Creato il 10 aprile 2012 da Ilgrillotalpa @IlGrillotalpa

Il professionismo nel rugby entra il 26 agosto del 1995. Quel giorno l’International board mise fine a tutte le restrizioni in tal senso, riconoscendo una metamorfosi che era già ampiamente in atto.
Il professionismo, non solo nel rugby, ha per primo effetto maggiori introiti derivanti dagli sponsor e un innalzamento dei guadagni dei vari attori che si muovono sopra e attorno al palcoscenico ovale: giocatori, dirigenti, procuratori, eccetera eccetera…
Una cosa normale, niente di nuovo sotto il sole,  anche se questa trasformazione è avvenuta con metodologie e tempistiche diverse a seconda delle varie latitudini. Una professionalizzazione dei ruoli che è andata a braccetto con il professionismo. Un bisticcio di parole, ma il senso è quello.
Una rivoluzione partita dal campo e che poi ha permeato l’intero ambiente. Non sempre però. O comunque non in maniera sufficiente o uniforme. Questo è il caso dell’Italia, che tra le grandi “potenze” rugbistiche è quella che lamenta un minor tasso di professionalizzazione dei ruoli. E non parlo tanto dei giocatori, quanto di tutto il resto del movimento.
Dirigenti federali, dirigenti di club e società spesso ancora legati a una visione del rugby “pane e salame”. Una visione che non va persa nei livelli più bassi e nelle categorie giovanili, ma che va necessariamente messa un po’ da parte nel momento in cui si sale nella piramide del movimento. Cosa che invece non avviene, oppure accade in maniera troppo episodica e a macchia di leopardo. Posso capire che parlare di sponsor e finanziamenti sia poco poetico, ma il mondo gira da quella parte e non affrontarlo per il lato giusto rischia di portare a morte certa anche quelle aree di genuino dilettantismo che come ho appena detto vanno assolutamente preservate in alcuni ambiti.
Non che manchino esempi positivi, ma sono troppo pochi. E il risultato è quello di vedere troppi passi molto più lunghi delle proprie gambe, progetti e ambizioni importanti poggiate su fondamenta che nel migliore dei casi sono traballanti.
A lamentarsi della mancanza di progetti a lunga scadenza sono poi spesso dirigenti che a qualsiasi livello occupano poltrone decisive da diversi lustri. E le eventuali colpe o responsabilità, va da sé, sono sempre di qualcun altro.
Un movimento anche economicamente maturo senza una leadership “politica” professionale a tutti i livelli è destinato a un fallimento progettuale inevitabile. Detto in stampatello: non si va da nessuna parte.
Mi si dirà che qualcuno in questo clima ci ha marciato. Vero, ma questo non fa che sottolineare anche l’impreparazione di chi invece avrebbe voluto fare qualcosa di diverso.

Dirigenti, staff tecnici, ma anche giocatori, che si sono accontentati di una migliore situazione economica (i non molti che giocano nelle squadre più di vertice, ovviamente) senza però rendersi conto che professionismo vuol dire anche dare vita a una vera e moderna associazione di categoria. Esiste l’AIR, non me ne vogliano i resposabili, ma quanto quell’associazione è realmente rappresentativa del mondo degli atleti? Certo è l’unica, ma basta questo? Il caso-contratti esploso circa tre mesi fa prima di tornare “dormiente” è esemplare: la federazione che decide alcune modifiche, l’AIR che le appoggia e controfirma, e i giocatori che – novelli carbonari – si riuniscono “segretamente” per far pervenire al Consiglio Federale le loro lamentele. Non il massimo del professionismo, in effetti, da qualsiasi lato lo si pigli.

Mantenere un’anima “artigianale” va benissimo, può diventare addirittura una ricchezza, ma fuori bisogna attrezzarsi per un mondo che è cambiato e che richiede un alto livello di professionalizzazione, dalla federazione ai club, passando per comitati e franchigie fino alle categorie di rappresentanza. Se non lo si fa, più che guardare avanti il nostro movimento dovrà seriamente guardarsi da chi dietro sta crescendo molto velocemente e con basi più solide delle nostre.


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