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Una replica a Maninchedda (e Lupinu) sul caso della lingua

Creato il 26 aprile 2011 da Zfrantziscu
di Adriano Bomboi
Non faccio il linguista, non ho elementi e competenza per dire “ha ragione solo Lupinu/ha ragione solo Bolognesi”. O la verità sta nel mezzo? Semplicemente prendo atto che esistono diverse scuole di pensiero e che una determinata quantità di soldi pubblici non ha ottenuto i risultati concreti per cui erano stati destinati: di conseguenza compito del cittadino consapevole è quello di porsi il perché. E non sono convinto che le responsabilità siano da imputarsi tutte ad una scuola di pensiero, lo si evince dalla scarsità di proposte in materia linguistica dei movimenti indipendentisti ed autonomisti vari (incluso il PSD’AZ). In cui anche al suo interno paiono esserci diverse letture (una cosa normale, ma che diventa anormale se consideriamo che nessuna linea chiara è finora emersa sul piano politico). Siamo sicuri che quel supposto motivo ideologico sia l’unica ragione per la quale non è decollato alcun risultato?Sul secondo punto: nella storia si sono viste delle patrie nascere per i più disparati motivi e con i più diversi strumenti di coesione sociale (religioni, lingue, interessi economici, miti, ecc). Se tu non misceli la filologia alla politica, altri miscelano la semiotica alla politica… Non ne farei un dramma se nel nostro mercato si presentano anche libri che debordano rispetto ad alcuni criteri scientifici o se fanno un minestrone di questi criteri: tutto fa brodo nel quadro dello sviluppo di un interesse popolare rispetto alla sua terra, anche in campo politico. In una democrazia lo ritengo normale (altrove c’è di peggio), purché a questo tipo di produzione venga associata anche un’altra letteratura scientifica rigorosa che contenga quell’elemento che nel mondo civile consente ad uno studioso di ritenersi un ricercatore (nella sostanza più che nella forma): parlo della necessità di riflettere e di andare oltre rispetto al seminato di alcuni luoghi comuni che, anche in campo archeologico, inutile negarlo, ci sono. In quest’ottica, nuove teorie (per quanto alcune di esse siano forzate), possono fornire nuovi stimoli al dibattito e spronare alcuni ambienti, magari portando anche a nuove conclusioni e più filoni di indagine.Oggi ad esempio in Gallura con amici mi è capitato di visitare alcuni siti archeologici che ancora non avevo visto, e per la prima volta mi è capitato di sentire una guida che nell’articolazione della spiegazione del sito ha offerto un ventaglio di ipotesi possibili circa la natura e l’evoluzione di quell’area, dando risalto alla parte in cui maggiormente vi sono stati degli studi. Anche quel comportamento è stato indirettamente prodotto grazie alla produzione letteraria che contesti. Nel bene e nel male insomma si è creata una competizione che ha pure dato luogo a polemiche, ma che se non si facessero… quanti e quali manufatti giacerebbero per anni negli oscuri magazzini di qualche sovrintendenza? Quante plausibili spiegazioni non verrebbero considerate? D’altra parte Thomas Kuhn ci ha insegnato che spesso le scoperte non sono il frutto di puntuali programmazioni. E forse chi si ritiene portatore di un dato metodo scientifico non è a sua volta inficiato da una lettura pregiudiziale dei comportamenti da assumere?Se per altri temi riconosci l’inutilità (in campo politico) di ragionare come fanno alcuni dogmatici (che vedono il mondo in bianco e nero, guelfi e ghibellini, destra e sinistra), a maggior ragione in materie tanto delicate come nel campo della ricerca storico/archeologica/ecc, penso che occorra ancora meno lo spirito della contrapposizione. Cioè l’interesse per certi temi non dev’essere stroncato come se fosse una fandonia, ma piuttosto integrato con proposte ed argomenti. Può anche darsi che le fandonie ci siano oppure no, non è quello il punto. Almeno io la vedo così.Perché se questo interesse attorno a certi temi viene (magari disordinatamente) portato avanti da quel tipo di letteratura, ciò significa che la politica territoriale ha fallito nel suo compito di tutela del territorio, poiché si è limitata all’ordinaria amministrazione senza approfondire il valore aggiunto di cui la Sardegna dispone. Quando insomma il mito si sostituisce alla politica (che dovrebbe finanziare e sostenere concretamente il rigore), è proprio allora che si cade nei mezzucci e si alimenta il volgo. Il mito diventa un surrogato popolare dell’assenza di una seria programmazione politica e scientifica. C’è insomma un embrionale nazionalismo dal basso che però non trova la pista giusta in cui incanalarsi. La responsabilità maggiore di chi è? Di chi dal popolo ha emotivamente seguito i propri convincimenti, oppure di chi ha chiesto la delega del voto a quei cittadini senza tuttavia per anni interessarsi a quel valore aggiunto e vigilando tardi e male sull’uso dei soldi pubblici? Penso che tutti i movimenti Sardi siano ancora indietro nello sviluppo di un progetto organico per il territorio. E di sicuro non c’è da aspettarsi di meglio dai ritardati che in altri partiti italiani sorridono con sufficienza a questi ragionamenti.Imponendo quindi si rischia l’abbandono delle lingue minoritarie? Può darsi, ma magari la cosa varia da caso a caso, da contesto a contesto, da epoca ad epoca. L’unico dato storico e sociale di cui dispongo io (e ripeto, noi ne siamo la prova vivente, unitariamente alle nostre conversazioni) è che oggi parliamo l’italiano perché da lingua minoritaria (che in passato era l’italiano) nel corso dei decenni è stata elevata al rango di lingua A (grazie a scuola, burocrazia, politica e mass-media). Se c’è quindi una realtà in Europa che fa incrinare la teoria secondo la quale l’imporre porta al risultato opposto, questa (purtroppo) è la Sardegna.Per il resto, gli esperti di linguistica siete voi, penso che serva dialogo, e soprattutto dalla politica, ma non contrapposizione tra le parti.

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