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Una separazione: about Nader and Simin

Creato il 30 ottobre 2011 da Onesto_e_spietato @OnestoeSpietato

Una separazione: about Nader and Simin

Il vecchio padre malato d’Alzheimer stringe con forza il polso della nuora. E non lo molla. Interviene il figlio: “Papà lasciala, ti prego, lasciala…”. Un piano sequenza a macchina fissa dove non vediamo i volti dei personaggi, ma solo questo gesto, semplice, umano, intenso, colmo d’emozione. Il significato: questa famiglia non s’ha da sfasciare, se lascio la presa la famiglia salta. Con tutte le conseguenze del caso. Questa sequenza riassume il senso dello straordinario Una separazione di Asghar Farhadi, film che ha letteralmente saccheggiato il Festival di Berlino 2011.

Dopo About Elly, il regista iraniano torna ad indagare i rapporti familiari e sociali, analizzando con fare meticoloso quella terra di mezzo sita tra verità e menzogna. Lo fa attraverso personaggi reali, veri, nessuno è tutto buono o tutto cattivo. La vita non è una fiaba. E non lo è neppure Una separazione, capace di negarci non tanto l’happy ending (già in About Elly Farhadi non cede al “vissero tutti felici e contenti”), quanto un the end definitivo, netto. E tiene la suspense alta anche mentre scorrono i titoli di coda sullo sfondo di uno scarno corridoio giudiziario… Un finale aperto, di un sapore misto, indecifrabile, che si fa amare e odiare allo stesso tempo.

I punti in comune con About Elly sono molteplici. La regia, strabiliante, segue i personaggi come una suocera petulante tra le pareti di casa o un occhio pedinatore nelle strade e negli uffici. E denuncia la sua originalità sin dalla primissima scena: un prolungato piano sequenza a mdp ferma, come una (non) soggettiva del giudice, che osserva la bagarre tra marito e moglie. Una trovata tecnica di tono teatrale, che lascia il campo alla bravura dei suoi attori: Leila Hatami, ma soprattutto Peyman Moadi.

Farhadi inoltre dimostra ancora una volta di saper rilanciare continuamente la sua storia. Nonostante alcune trascurabili lentezze e una buona decina di minuti tranquillamente scontabili, il regista iraniano sa soffiare sul fuoco quando questo si affievolisce, buttando nella mischia punti di svolta al limite dell’ordinario e dell’illuminante, che lo spettatore proprio non s’aspetta. Il pubblico, totalmente immedesimato nei personaggi, soffre con loro e con loro scopre l’imprevisto continuo della vita.

Siamo quindi di fronte ad un sommo saggio di tecnica e contenuto, di chi conosce bene i concetti di macchina da presa e soggetto come binomio inscindibile per realizzare un film che funzioni in ogni sua parte. Ulteriore punto in comune con About Elly è l’assenza di colonna sonora. C’è la realtà con i suoi rumori, urla, parole. Nient’altro. Farhadi gioca per sottrazione, dicendo no al sollievo che genera la musica. Insomma, con Farhadi il cinema si fa cosa seria.

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