È l’autore stesso a dirci che un piano strategico tedesco volto a conquistarsi il favore dei curdi è frutto della sua fantasia, sullo spunto delle operazioni che l’Inghilterra e la Germania hanno elaborato nei confronti dei popoli arabi. Ma dentro questo disegno narrativo inventato, l’autore è bravo ad inserire e descrivere bene pensieri, pose, interpretazioni che le potenze occidentali hanno sviluppato verso l’Oriente, al fine di creare dei sostegni “morali” all’impresa del colonialismo. Strutture ideologiche perfettamente smascherate dalla ricerca di Edward Said. Idee che lo stesso Langendorf, nell’intervista che leggiamo a chiusura dell’edizione Adelphi, definisce come «le idee che poteva avere all’epoca un orientalista fascistoide». Secondo le quali: l’Oriente è «un mondo immobile…Da secoli niente era più cambiato, il vento e la sabbia si succedevano al vento e alla sabbia. Il tempo aveva imposto le sue frane alle grandi moschee, ai minareti, ai palazzi screpolati, corrosi, coperti di fenditure…Quella decrepitezza attaccò gli uomini come una lebbra. Essi chiusero gli occhi, dimenticarono i gesti della vita e dell’ambizione, s’addormentarono cullati da un mondo che affidava agli altri i propri interessi». Quale luogo migliore dunque per un rampante agente segeto del Reich, un uomo impegnato nel “mestiere della giovinezza”, attratto dalla ricerca dell’“evidenza”, dalla senzazione di potere che manovrare grandi masse regala, facendo sentire l’uomo un dio? Quale luogo migliore per mettere in pratica gli insegnamenti dei suoi tre grandi modelli: Saint-Just, Nečaev e soprattutto Lawrence? Lontano dagli intrighi complessi della politica interna, nella missione lontana da casa, “il desiderio e la volontà di potere” guadagnano il massimo di autonomia e libertà d’esecuzione. «Il “vuoto arabo” si è confermato come la cornice entro la quale mi è consentito di agire con il massimo di efficacia», dice. Il giovane agente tiene a precisare che lui non lo fa per la Germania, né per il Führer: “La cosa che mi apparve chiara allorché mi iscrissi al partito fu che la Germania, dopo il trionfo di Hitler, era sicuramente in procinto di lanciarsi in una politica di Grande Avventura grazie alla quale, senza esprimere la minima opinione sui valori che essa incarnava, io speravo di trovare sfogo all’agitazione che saliva in me come una linfa imperiosa”.
Non si tratta allora semplicemente di una spy-story snodata fra intrighi, trattative, sabotaggi e assassinii a sangue freddo dell’avversario. La riflessione dell’autore (come sembrano confermare anche gli altri suoi titoli) ruota attorno al nodo filosofico-politico che i termini “volontà”, “violenza”, “affermazione” e “manipolazione” sono in grado di creare. Da Machiavelli in qua. Con in più la questione coloniale. La “giovinezza” e lo spirito avventuriero che porta l’Occidente ad imprimere la sua volontà sul magma inerte del mondo “orientale”, l’inebriante delirio di dominio provato da chi con una decisione può cambiare le sorti di migliaia di persone facendo leva sui loro sentimenti d’appartenenza etnica oppure su semplici compravendite di fedeltà. La sfida – fallita – in Kurdistan che, l’anarchico individualista d’ispirazione stirneriana, Langendorf ci propone non è allora tanto quella del Reich che muove le sue pedine da Risiko, quanto quella dell’individuo che fa i conti con la sua vocazione al dominio del caos, a dettare e programmare il corso degli eventi, a realizzare un disegno “intelligente”. Per scoprire al fine che «il caso è ovunque presente, troppo presente».
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE: Jean-Jacques Langendorf, Una sfida nel Kurdistan, Adelphi, Milano 1999. Traduzione di Maurizio Andolfato. Pagine 129, 12.000 lire. Con un intervista all’autore.
Jean-Jacques Langendorf (1938) è uno storico e scrittore svizzero. In Italia sono stati pubblicati anche Elogio funebre del generale August-Wilhelm von Lignitz (Adelphi), Neutrale contro tutti. La Svizzera nelle guerre del ’900 (Settecolori Edizioni), La contessa Graziani (Guida).
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