José, giovane missionario argentino, viene destinato dai suoi superiori (è al suo primo incarico) alla missione di Ilamba, in Tanzania.
La partenza, com’è d’uso, è tra l’emozionato e il commosso.
Ci sono i saluti agli amici, le telefonate ai parenti all’altro capo del mondo.
E, finalmente, dopo molte ore di volo, e pure qualche sosta forzosa, l’arrivo a destinazione.
Non mancano nei primi giorni difficoltà di adattamento.
Sono quelle dovute a un contesto con poche risorse materiali disponibili.
A cominciare, per esempio, dalla penuria d’acqua improvvisa per una doccia mattutina, se si rompe la pompa del pozzo e non c’è come ripararla.
E specie poi per chi ha lasciato una città europea e tutti i suoi servizi comunque abbastanza confortevoli.
Tuttavia, superato il rodaggio iniziale, e cioè l’impatto col luogo nuovo, si inizia, e di buona lena, il lavoro.
Col Toyota cominciano le visite quasi giornaliere alle cappelle per celebrare e quelle ai villaggi rurali per incontrare la gente.
E questo nonostante si sia nel periodo delle grandi piogge e il fuoristrada spesso rischi d’impantanarsi e di lasciare , con parecchie probabilità, l’autista sotto le stelle.
In uno di quei giorni José, in visita in un villaggio, alcuni chilometri poco distante da Ilamba, incontra una donna malata di aids, che sta ormai per concludere la propria esistenza, sola e abbandonata, all’interno di una misera capanna.
Il marito le è morto dello stesso male qualche anno prima – lei fa capire al missionario - e i suoi figli sono lontani e in cerca di lavoro.
La donna accoglie il giovane sacerdote con un sorriso residuo, quello che traspare dagli occhi ancora espressivi di un corpo terribilmente sofferente.
E i due, come fratello e sorella, pregano il Padre silenziosamente , ciascuno nella propria lingua.
Ma arriva il momento di andare per il missionario.
La donna, allora, con un gesto istintivo prova a trattenerlo debolmente con la mano.
Non vorrebbe rimanere da sola.
E l’uomo, che teme invece la pericolosità del ritorno per l’inclemenza del tempo, le lascia una carezza sulla guancia, accenna a una benedizione e s’allontana in fretta.
Sono entrambi comportamenti umani.
Tanto quello di lei che cerca conforto che quello di lui che fa un calcolo pratico.
Il missionario, infatti, pur guidato dallo Spirito, non è affatto un “superman” .
Ma è uomo come tutti.
Qualche giorno dopo José, ritornato in quello stesso villaggio, apprende inevitabilmente da alcuni abitanti che la donna, quella con cui aveva pregato insieme, era spirata pochi minuti dopo la sua partenza di quella stessa sera.
E non c’è certo rimprovero nelle parole della gente.
E’ un apprendistato il mio - l’uomo non può non dirsi tra sé e sé – che ha bisogno ancora di parecchie limature per essere come deve essere.
Perché, come Gesù insegna, non bisogna mai trascurare il bisognoso che domanda.
Occorre proteggere chi ha paura e sopratutto consolare colui o colei che soffre.
Ma per farlo è necessaria la capacità di mettere, senza troppi indugi, tra parentesi la propria vita.
Essere cioè cristiani di “cuore”.
E’ un percorso non semplice ma neanche impossibile.
di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)