Il termine “vintage” ha sempre un’accezione ludica, legata a mondi ricreativi e frivoli quali la moda, lo spettacolo, la musica pop, l’oggettistica decorativa.
Io, però, essendo vecchiotto nel nome e nell’anima, ho fatto del vintage una filosofia dell’assoluto e uno strumento di ricerca esistenziale, e sento il bisogno di spingermi oltre, lasciando che la fascinazione per ciò che ha concluso la sua naturale evoluzione ed è diventato passato a tutti gli effetti debordi anche in campi meno zuccherosi, esca dunque dalla sfera dell’intrattenimento leggero.
Ho un ricordo molto preciso della domenica del 13 Febbraio 1983 quando, in serata, i telegiornali RAI (allora esistevano solo quelli) cominciarono a diffondere la notizia dell’incendio che, distruggendo il Cinema Statuto di Torino, uccise in pochi minuti 64 persone entrate per sfuggire al freddo di quella giornata e per sorridere con il film “La Capra”, blockbuster del momento.
Ne ho una memoria così lucida e così fresca perché, a dispetto dei miei otto anni di allora, l’evento mi colpì esattamente come colpì l’opinione pubblica dell’Italia intera, rappresentando – insieme all’incidente di Vermicino avvenuto nel Giugno ’81 – il primo esempio di tragedy-show dell’informazione contemporanea, con le telecamere puntate sull’estrazione dei corpi anneriti dal fumo, il dolore sbattuto in copertina, lo scandalo e il chiacchiericcio generale eretti ad argomento di conversazione nazionale.
Ne ho una memoria talmente lucida che quando, lo scorso maggio, girovagando per i corridoi del Salone del Libro, allo stand di uno degli espositori ho notato un DVD intitolato “Sale per la Capra”, senza neanche aver bisogno di leggere il descrittivo sul retro della copertina, ho intuito subito quale fosse il tema del documentario. L’effetto memoria involontaria si era già attivato: quelle immagini di corpi soffocati e quel chiacchiericcio mi sono ritornati sulla pelle riscatenando in me, precise ed identiche ad allora, le stesse paure ma anche le stesse strane attrazioni morbose che un bambino prova, senza comprenderle, per un fatto di cronaca raccapricciante .
D’istinto ho acquistato il film, l’ho visto e rivisto più volte; poi, non pago, ho iniziato a cercare documenti sul web.
Con un senso di necessità che fino a quel momento mi era accaduto di provare grazie a stimoli vintage divertenti, ho sentito il cervello e l’emotività ripiombare in quei giorni e, attratto da una qualche forma di fascinazione famelica, non sono riuscito ad arginare il bisogno di rivivere e capire tutto col senno di poi (mio di adulto, ma anche di un mondo nel frattempo andato avanti).
Così ho scoperto l’esistenza “Statuto – La memoria perduta”, un libro scritto dai giornalisti torinesi Patrizia Durante e Gabriele Galvagno e interamente dedicato a una vicenda che, come suggerisce il titolo, ahimé non sembra essersi incastonata nel ricordo collettivo quanto l’ha fatto nel mio.
Durante e Galvagno, in duecentoventi pagine di certosine ricostruzioni, lavorano per abbattere la rimozione generale che ha finito col coprire questa tragedia che tutti sembrano aver voluto cancellare. Capitolo dopo capitolo, la vicenda riemerge dalla cenere in ogni suo momento, dalle testimonianze che ricostruiscono l’accaduto alle varie fasi del processo per cercare i responsabili dell’accaduto.
Ma forse la parte più interessante – tanto più per chi ama guardare al mondo attraverso la lente del vintage – è quella che racconta ed analizza gli effetti che il disastro ebbe sulla vita di tutti noi, vale a dire le rivoluzioni sulle norme di sicurezza per i locali pubblici – fino ad allora inadeguate e quasi mai applicate – che resero meno rischioso, per tutti noi, l’andare a vedere un film o a ballare in discoteca.
Come dice Claudio Bertero, uno degli spettatori che in quella domenica ebbero la fortuna di riuscire a scappare in tempo, “credo che i 64 morti dello Statuto abbiano salvato la vita a migliaia di persone, dobbiamo essere loro grati. Fino a quando morivano due o tre persone per intossicazione da monossido, nessuno ha mai mosso un dito. Il numero elevato di vittime ha costretto le autorità a muoversi, a prendere provvedimenti immediati, a far sì che la legislazione fosse applicata e che le norme diventassero molto più severe. Se ora esistono regole precise per la sicurezza nei locali pubblici e sono applicate, lo dobbiamo a quelle persone”.
Il rovescio della medaglia purtroppo c’è anche qui: quelle stesse norme rappresentarono un colpo di grazia per molte sale vecchio stile che, già martoriate dal boom dell’intrattenimento televisivo, non poterono affrontare le spese di ristrutturazione, e furono dunque costrette a chiudere i battenti per sempre.
Per questi contraddittori aspetti, e per mille altri meglio raccontati nel libro, l’incendio dello Statuto è una tragedia vintage. Una tragedia che, in quanto ormai fuori dal tempo, al pari pantaloni a zampa di elefante e i certi dischi degli anni sessanta, non può e non deve essere dimenticata.