di Massimiliano Sardina
Com’è cambiato nel tempo il nostro rapporto con la vecchiaia? Ha subito profonde modificazioni o è rimasto sostanzialmente identico?
Questa disamina della senectus nel mondo antico non ha (e non può avere) pretese di esaustività. Le fonti in nostro possesso sono lacunose e frammentarie, e le poche pervenuteci non offrono certezze univoche. Lo schema cronologico, unitamente all’analisi comparata di testi e immagini, ci consente però di cogliere aspetti significativi tutt’altro che generici o ipotetici.
In epoca greca arcaica la prima figura di vecchio in cui ci imbattiamo è quella, seppur mitica, di Omero. Il celebre ritratto marmoreo di Omero conservato a Monaco (una copia di periodo imperiale di un originale del 460 a.C.) stigmatizza il kalòs géron: un uomo anziano, in là con gli anni, segnato e scavato nei lineamenti, barbuto, ma visibilmente saggio e dignitoso. Nella società omerica con il termine gérontes non si designavano solo i vecchi propriamente detti, ma anche gli uomini eroici nel fiore degli anni. Nei poemi omerici non è possibile isolare un’idea univoca della vecchiaia: all’emblema dell’anziano saggio incarnato da Nestore nell’Iliade corrisponde il vecchio sventurato Laerte nell’Odissea. Nell’Iliade la “buona vecchiaia” è una concessione divina (non elargita a tutti) che comporta anche notevoli vantaggi sociali: al vecchio saggio sono infatti garantiti il rispetto e la riverenza. Nel kalòs géron la debilitazione fisica è compensata e controbilanciata dalle virtù acquisite: esperienza, saggezza, eloquenza. Anche nella poesia di Esiodo l’età senile assume più connotazioni, dalle più positive (come nel caso del buon vecchio Nereo) fino alle personificazioni dell’infausta vecchiaia. Tanto in Omero quanto in Esiodo l’avenzare dell’età non è concepito negativamente quale mero processo di disfacimento, ma come fase naturale del ciclo vitale. Di Esiodo ci è pervenuto un busto bronzeo (una copia d’età augustea da un originale del 200 a.C.), un raro e straordinario esemplare di realismo tardoellenico; in questo presunto ritratto di Esiodo le fattezze decrepite stilano una cruda icona della senectus: la pelle raggrinzita, gli zigomi incavati, l’espressione sofferta e segnata. Figlio della grecità è quel Gerone, personificazione negativa della géras oulòmenon, le cui più antiche raffigurazioni vascolari risalgono all’inizio del V secolo a.C.; è di radice greca quel geronto da cui successivamente prenderanno il nome le discipline specifiche della gerontologia e della geriatria. Una visione in certo modo nostalgica della vecchiaia è quella offerta dai poeti lirici della Grecia arcaica, più inclini a riflettere sull’impietoso trascorrere del tempo. A questo riguardo l’aforisma di Teognide (prima metà del VI secolo a.C.): <<Mi rammarico della leggiadra giovinezza che mi abbandona, piango la gravosa vecchiaia che si avvicina>> è fin troppo esaustivo. Lamentazioni sulla vecchiaia, frequenti nella poesia conviviale dei simposi, compaiono in Alcmane, Tirteo, Mimnermo, Saffo, Anacreonte e Solone, ma con sfumature e accenti diversi. Se Alcmane descrive la vecchiaia immedesimandosi nel senex nostalgico, Tirteo pone l’accento sul tema della tutela degli anziani da parte dei più giovani; Mimnermo, estremo e categorico, auspica di morire entro i sessant’anni: <<A sessant’anni, lontano da morbi e penosi affanni, mi colga il destino di morte>> mentre Saffo, più misurata, sembra accogliere la vecchiaia con pacificata rassegnazione: <<Teme profondamente la mia pelle la vecchiaia / bianco divenne il capello, un tempo in trecce nere / le ginocchia non mi reggono più / e danzano così leggere come cerbiatto / ma cosa posso fare?>> Anacreonte (570-485 a.C.) e Solone (640-560 a.C.) guardano alla senilità quale kakòn géras, che è sì un male inevitabile, ma naturale. Solone è autore della famosa Elegia della vecchiaia, dove suddivide la vita umana in dieci fasi di sette anni ciascuna; come legislatore promulgò la “legge di mantenimento”, ossia l’obbligo per i figli di prendersi cura dei genitori anziani.
Nella polis classica il ruolo degli anziani presenta sostanziali differenze tra Atene e Sparta; ad Atene gli anziani non godevano di una posizione politicamente rilevante, contrariamente a Sparta che vantava invece una gerusia (consiglio degli anziani). Sul versante giuridico però gli ateniesi si affidavano spesso all’esperienza e alla saggezza degli anziani. I geronti spartiati, rispettati e omaggiati, erano un continuo punto di riferimento per i più giovani, ai quali di volta in volta dispensavano il buon esempio, il giusto consiglio o, all’occorrenza, la giusta punizione. Non che ad Atene la vecchiaia fosse disprezzata o tenuta in nessun conto, ma il confronto con Sparta non regge. La testimonianza di Lisandro lascia pochi dubbi: <<Sparta è per gli uomini anziani la più autorevole delle dimore. Poiché in nessun altro luogo la vecchiaia è più considerata.>> Non disponiamo di informazioni dettagliate sull’anziano medio della Grecia classica, né possiamo stimare con esattezza fin dove potesse spingersi a quel tempo l’aspettativa di vita; recenti indagini incrociate stabiliscono un tetto di 45 anni per gli uomini e 35 per le donne, una stima assai prudente che tiene conto dell’altissimo tasso di mortalità. Alle statistiche sfuuggono i casi isolati, in questo caso documentati, dei geronti ultracentenari ateniesi Littiade e Eufranore da Ramno (IV secolo a.C.). Nella Grecia classica la condizione senile è stata fatta oggetto di un ampio ventaglio di riflessioni: politiche, filosofiche, artistiche (in seno alla poesia, alla tragedia, alla commedia, all’iconografia vascolare e scultorea). Democrito (460-370 a.C.) accetta ed esalta la vecchiaia, e pone la saggezza senile su un piano più nobile del vigore giovanile. Platone (427-347 a.C.) non ravvisa nella senilità un valore in sé poiché invecchiare non è sempre garanzia di saggezza; agli anziani però riconosce uno spessore intellettuale non eguagliabile dai giovani. Per Platone la vecchiaia è anche un’opportunità: quella di poter accrescere le virtù interiori a dispetto dell’incalzante declino fisico. Per Aristotele (384-322 a.C.) la senilità è negativamente condizionata dalla phthìsis (la debolezza), che influisce anche sull’intelletto e sul carattere. Una riflessione più articolata e problematica sulla vecchiaia e sul conflitto generazionale è offerta dai poeti tragici, Sofocle in particolare, e nello specifico nell’opera Edipo a Colono, tragedia senile per definizione. Sofocle (497-405 a.C.) canta i malesseri e gli acciacchi del senex, dolori che solo la morte può estinguere. Nell’Edipo a Colono convergono tutte le riflessioni sul tema della vecchiaia dall’età arcaica a quella classica: la phthìsis, la saggezza, il rapporto conflittuale con le nuove generazioni, il ruolo sociale, la nostalgia, il rimpianto, la contemplazione della giovinezza, il rapporto col mistero della morte. In Euripide (485-406 a.C.) la deplorazione del senex eguaglia, e in taluni casi persino supera, le lamentazioni di un Teognide o di un Mimnermo; tra tutti i versi euripidei sul tema in oggetto questi qui di seguito sono forse i più incisivi: <<Io la bieca, la trista età l’odio: spersa nel pelago vada. Non visitasse mai case d’uomini né città. Ali arcane nell’etere se la portino per sempre.>> Nelle commedie aristofanee (scritte tra il 427 e il 388 a.C.) la vecchiaia viene spesso ridicolizzata, desacralizzata, colta negli aspetti caricaturali ma mai denigrata; nelle commedie attiche, inoltre, il conflitto generazionale tra padri e figli offriva spesso spunti per innumerevoli storie.
La rappresentazione iconica della vecchiaia nell’arte classica – nella pittura vascolare, nella ritrattistica, nelle tecniche plastiche e nei rilievi funerari – presenta la stessa biunivocità che fin qui abbiamo ampiamente rintracciato nella poesia, nella filosofia e nel teatro tragicomico. L’iconografia dell’aulico saggio attempato convive con quella del senex incanutito, senza prevaricazioni. La Grecia dell’età classica (come quella dell’età arcaica) non ha partorito e promulgato un modello inviolabile e unilaterale di senex, al contrario, ne ha stigmatizzati molti, dai più irriverenti ai più venerabili, in un’unica soluzione di continuità, tra realismo e idealizzazione.
In età ellenistica (dal tardo IV sec. a.C. alla fine del I sec. a.C.) le poleis vennero inglobate in ordinamenti sovrani monarchici, e il potere della gerusia andò man mano scemando. La mutata situazione politica produsse significativi cambiamenti anche nel tessuto sociale. Il dibattito sulla vecchiaia, sempre aperto e sempre problematico, generò una sterminata trattatistica (in larga parte perduta) specie intorno alla cerchia di Aristotele. Negli scritti di Aristone di Ceo (III sec. a.C.) torna il confronto tra giovani e anziani su vantaggi e svantaggi legati all’età; Aristone, al quale in seguito si riallaccerà Cicerone, si discosta sensibilmente da certe posizioni negative sulla condizione senile appartenenti al pensiero aristotelico. Se Ippocrate (460-370 a.C.) non produsse alcun trattato specifico sulla vecchiaia, Aristotele formulò la sua teoria sui “quattro stati originari”: caldo, freddo, secco, umido; secondo la teoria aristotelica l’invecchiamento sarebbe causato dal progressivo inaridimento e raffreddamento del corpo (che genera rughe sulla pelle secca e disidratata). Dopo Aristotele la medicina ellenistica adottò un atteggiamento più scientifico e meno speculativo. Più in generale nell’età ellenistica si incominciò a indagare l’uomo con maggior realismo e oggettività, e ne troviamo testimonianza sia nei testi scritti che in quelli visivi. Teofrasto (372-286 a.C.) nei Caratteri restituisce anche un modello grottesco-caricaturale, quello del vecchio che si atteggia a giovane; un’immagine ridicola e sgradevole della vecchiaia venne inoltre veicolata dalle arti plastiche cosiddette minori (piccole statuette raffiguranti vecchi storpi, vecchie nutrici, pescatori e pastori fiacchi e ingobbiti). Tutti i temi già presenti nella poesia lirica d’età arcaica e classica convergono, debitamente riaggiornati alla luce di nuovi umori e intendimenti, nella poesia ellenistica; sempre cruciale la riflessione sulla transitorietà della bellezza: la bellezza senile è lodata da Filodemo ma ridicolizzata da Meleagro (in composizioni del I sec. a.C.). Va da sé che quanto riferiamo sulla vecchiaia nel mondo antico si basa su quel che ci è pervenuto: tanta trattatistica specifica è andata perduta e così pure tante testimonianze segnico-plastiche. Nella commedia ellenistica (specie in Menandro, 342-290 a.C.) i gérontes appaiono a seconda bonari, goffi, testardi, flemmatici; alle vecchie viene attribuita un’immagine comica sgradevole, con pochi denti e rughe profonde. I vecchi menandrei – di cui troviamo trasposizioni in mosaici e statuette – ricalcano stereotipi diffusi ma non in una chiave esclusivamente negativa. Davvero arduo individuare un modello ricorrente o un motivo conduttore nelle arti elleniche, caratterizzate per lo più da una commistione di elementi eterogenei, dalla pacifica convivenza tra realismo e idealizzazione. La senescenza, eletta a vera e propria categoria estetica in tutte le sue declinazioni, coesiste in parallelo alle stilizzazioni idealizzate. Esemplari a riguardo sono le statue raffiguranti Crisippo e Diogene, sulle quali varrà bene la pena soffermarsi. Nel Crisippo (un rifacimento in gesso di una statua acefala del Louvre e di un busto del British Museum) la vetustà delle membra fiacche lascia intravedere un principio di ginecomastia; nel Diogene (sempre in gesso, copia imperiale da un originale ellenistico del III inizi II sec. a.C.) l’ingobbimento e le carni flaccide prostrano la figura come in un atto d’inchino; in entrambe le statue la senectus è stemperata dall’aura dignitosa implicitata nei volti, nelle espressioni contenute e fiere. In queste rappresentazioni realistiche non c’è alcun intento denigratorio o derisorio, la vecchiaia compare per quello che è, e su essa trionfa la sopravvivenza del buon intelletto. L’iconografia della senescenza trova vasta rappresentazione anche nelle arti plastiche minori, perlopiù terrecotte e bronzetti, e in taluni casi anche sculture in marmo. Particolarmente nutrito è infatti il repertorio di statuette di contadini, pastori, pescatori…, in molti casi raffigurati in là con gli anni, altrettanto spesso persino decrepiti, quasi che vecchiaia e bruttezza fossero appannaggio dei soli bassi ceti. Particolarmente fertile in età ellenistica fu anche la rappresentazione di vecchiette, donne non più desiderabili, spesso addirittura ripugnanti. Megere, ubriache, corrotte, quasi che la vecchiaia estetica non fosse che lo specchio di una condotta amorale e depravata, contraltare di una produzione coeva di nutrici bonarie (non più vizze e negative come in età arcaica e classica). Queste rappresentazioni comiche e crude di anziani, certo desunte dai canoni della commedia, si annoverano in una produzione di genere di ancora dubbia committenza e destinazione. Sappiamo tanto sì, ma ancora tanto ci sfugge dei nostri antenati elleni.
Se la gerusia spartana era costituita da soli anziani (sopra i 60 anni), il senato romano – a dispetto del termine che deriva da senex (senato sta per “assemblea di anziani”) – prevedeva al suo interno anche membri più giovani; nel primo periodo della Repubblica romana vigeva comunque un predominio di illustri e saggi anziani. La gerontocrazia ha caratterizzato molteplici aspetti della prima società romana; nei pater familias e nei capi delle gentes, saggi e autorevoli per definizione, è possibile rintracciare i primi membri del senato romano. Nel senato, si legge in Livio, gli anziani (maiores natu) esercitavano una forte influenza (auctoritas seniorum); di questi seniores e veteres Livio non specifica l’età ma elenca le cariche e il curriculum politico, e non è da escludere che tra gli anziani potessero rientrare anche uomini al di sotto dei 60 anni. Nelle opere di Livio (59 a.C. – 17 d.C.) il vecchio romano incarna le buone virtù. Una trasposizione iconografica della concezione di Livio la si potrebbe individuare nel Vecchio di Dresda (un busto in marmo, ritratto di un repubblicano, copia del primo periodo augusteo di un originale creato forse intorno al 60 a.C.). Nella società tardo repubblicana i conflitti generazionali, stando alle fonti letterarie (specie Sallustio e Cicerone), subiscono un’impennata, e con toni tutt’altro che moderati. Gli anziani accusano i giovani (stulti adulescentuli, come li appellava il poeta Nevio) per la cattiva politica romana; anche Cicerone, nel suo Trattato sulla vecchiaia, non spende giudizi favorevoli sulle nuove generazioni, specie per quel che concerne la gestione della politica. La centralità del senex nella Res Publica è ben visibile anche nel culto degli antenati. L’antenato è l’iper-senex, ricordato nei cortei funebri sia oralmente sia attraverso le imagines maiorum (maschere che riproducevano le fattezze del compianto). Le imagines maiorum possono considerarsi a tutti gli effetti dei proto-ritratti. Il culto dell’antenato trova una sua icona nel celebre Togatus Barberini di Roma (statua in marmo del primo periodo imperiale) che, si presume, raffigura un uomo tra i busti del padre e del nonno. Nella Roma tardo repubblicana l’elogio dei maiores da parte dei più iuvenes ribadiva la tradizione gerontocratica. Nel 44 a.C., come abbiamo già accennato, Cicerone (all’età di 62 anni) compose una sorta di trattato sulla senescenza: il Cato maior de senectute, con protagonista l’anziano Catone; Cicerone dedica lo scritto al suo amico sessantaseienne Tito Pomponio Attico, come a volersi consolare a vicenda per la comune sorte nell’onus senectutis (il fardello della senescenza). Cicerone parla per interposta persona, servendosi per l’appunto del vecchio Catone, che a sua volta dialoga con il più giovane Scipione Emiliano e con il giovanissimo Lelio. Catone difende le virtù della vecchiaia, cita gli esempi di illustri maiores (Platone compreso) e cerca di confutare i luoghi comuni negativi sulla vecchiaia, principalmente l’errata convinzione che una certa età sia incompatibile con una vita attiva. Cicerone tratteggia in Catone un modello di dignitoso vecchio, ma non manca di riflettere su certe caratteristiche negative ricorrenti nella vecchiaia, come la scontrosità, l’irascibilità, l’avarizia…, ascrivendole però più al carattere che alla condizione senile in sé. Nella commedia romana di Terenzio e Plauto i vari esempi di senex contraddicono il modello idealizzato del Catone ciceroniano e si caratterizzano nella ridicolaggine del senex amator (patetico farfallone) e in altri stereotipi negativi amplificati in chiave comico-grottesca.
I segni e i solchi sul volto sofferto ma dignitoso del senescente fanno bella mostra di sé nell’iconografia verista del ritratto. Negli anni d’oro della Res Publica i ritratti degli anziani maiores dovevano essere numerosissimi, ma pochissimi ci sono pervenuti. Tra i rari esemplari il celebre bronzo del Bruto (si presume del III sec. a.C.) del Palazzo dei Conservatori, provato dal tempo ma ancora attivo. Il repertorio ritrattistico più nutrito di cui disponiamo parte dal I secolo a.C. e coincide con la stagione aurea della grande ritrattistica repubblicana romana. Le facce marmoree sono più che mai indicative dei vari gruppi sociali, dal ceto aristocratico – più incline a prediligere modelli di rappresentazione greco-ellenistici – a quello medio e medio-alto. Comun denominatore il valore romano dell’auctoritas dignitosa della vecchiaia, implicitato, sotteso nella restituzione veristica; si veda la Testa del vecchio di Otricoli (Roma, Museo Torlonia) e più ancora la Testa di vecchio da Scoppito (Chieti, Museo Nazionale) entrambe del tardo I sec. a.C.. Dalla ritrattistica repubblicana, nelle teste e nei bassorilievi funerari, si possono desumere abbastanza chiaramente le differenze tra i ceti nella struttura sociale. Tutte queste rappresentazioni offrono della vecchiaia un’effige assolutamente positiva quale fructus senectutis (un traguardo, una conquista). Nell’età repubblicana compiuti i 60 anni si varcava la soglia della senectus. I pater familias debilitati dall’età avanzata potevano contare sulla pietas erga parentes dei figli; ciò che era comunemente valido per i ceti alti e medi non lo era, ovvio, per gli schiavi (che se diventavano anziani dovevano continuare a lavorare senza l’ausilio di un patrono). Gli schiavi più anziani, inabili al lavoro, erano destinati a morire senza alcun conforto. Nella società repubblicana – come forse in ogni altra società – ai poveri era destinata la vecchiaia più trista. Un’analisi della vecchiaia in età imperiale (ossia nei primi due secoli d.C.) deve necessariamente allargarsi da Roma alla vastità dell’Impero Romano. Negli anni della pax et salus Augusta ritroviamo pressoché immutati i topoi dei conflitti generazionali, solo riaggiornati alla luce dei cambiamenti politici; sotto Augusto il senato perse prestigio, ma la tradizionale cultura gerontocratica si manteneva ben salda. Dalle fonti letterarie e artistiche, dalle iscrizioni e dai dati dei censimenti desumiamo un gran numero di informazioni. In epoca imperiale la tutela della vecchiaia non è lasciata solo al buon senso del singolo nucleo familiare, ma viene regolamentata da leggi apposite. La tutela giuridica della vecchiaia regolamentava questioni connesse (diritti ereditari, di adozione, di mantenimento…). Se la deserta senectus (vecchiaia trista e solitaria) colpiva chi non aveva figli o chi li perdeva prematuramente, diversa era la condizione delle vedove che potevano contare sulla solidarietà della prole. Leggi specifiche stabilivano anche tetti di pena a seconda dell’anzianità. Nell’Imperium Romanum i prestigiosi membri della classe dirigente occupavano cariche senza limiti d’età, si riunivano in una nuova tipologia di gerusia (si occupavano dell’organizzazione delle feste pubbliche e sostenevano economicamente fondazioni). Gli anziani del ceto alto e medio-alto conducevano quel che si dice una buona vecchiaia, lontani dai disagi e dalle preoccupazioni. All’età si poneva rimedio con l’otium agreste, con le sane abitudini, la morigeratezza, l’esercizio, la buona condotta. La senectus ideale è quella che Plinio, nel 100 d.C., ascrive all’amico Spurinna, nella cui giornata tipo riconosce la ricetta di una vecchiaia sana e attiva. Tra i membri illustri delle gerusie d’età imperiale c’erano i “cosmedi”, anziani ed esperti educatori dei giovani maschi. Un bell’esemplare di cosmeta attico è quello conservato nel Museo Nazionale di Atene (datato 140 d.C.): qui gli attributi nobili e positivi dell’età attempata si palesano nella barba importante, nella fronte spaziosa, nell’espressione densa di esperienza e dignità. I romani del periodo imperiale fecero proprio il modello passato dei greci e lo riproposero in un vero e proprio culto, associando l’archetipo del senex a quello dell’intellettuale filosofo e saggio. Nelle elegie di Catullo (87 a.C.-55 a.C.) ritroviamo motivi già propri della lirica e della commedia greca, specie in tema di vecchiaia (positivamente o negativamente intesa), e così anche in Properzio (47 a.C.-2 a.C.). In Tibullo (50 a.C.-19 a.C.) si spazia dal senex libidinosus (che vuole riammogliarsi) al nonno appagato dall’affetto dei nipoti; un’analoga bipartizione interessa anche la donna anziana, rappresentata ora come ruffiana megera ora come buona nutrice o vedova inconsolabile. Ovidio (43 a.C.-17 d.C.) dapprima sposa la tradizione degli elegiaci, e come Tibullo ridicolizza il vecchio libidinoso (<<…brutto è un soldato vecchio, brutto è anche l’amore senile>> scrive in Amores); successivamente nelle Metamorfosi presenterà Nestore come anziano ideale, saggio e degno. Una visione pessimistica e negativa della vecchiaia Ovidio la esprimerà negli anni dell’esilio sul Mar Nero. In Virgilio (70 a.C.-19 a.C.), che recupera la figura omerica, la senescenza è descritta spesso in toni tutt’altro che sereni e positivi (talvolta con rimandi alla concezione di Aristotele), ma nella sostanza è accettata consapevolmente come parte fondante del ciclo naturale. Orazio (68 a.C.-5 a.C.) si spinge oltre e identifica la vecchiaia con il torpore degli stimoli vitali e amorosi: <<Giovinezza è fuggita ed è fuggito il bel color, lasciandomi sull’ossa questa pelle ingiallita.>> Nelle Satire Orazio definisce la vecchiaia: <<imbecilla, tarda e avara.>> Anche Giovenale (50/60 d.C.-127 d.C.) ci consegna un tristo resoconto sulla senectus: <<Guarda: il tuo volto brutto e deforme / mutato del tutto l’aspetto / la pelle sformata / le guance pendule segnate da rughe / come hanno le scimmie già madri intorno alla bocca decrepita / nelle ombrose foreste di Tabraca.>> Marziale (38/41d.C.-104 d.C.) ridicolizza nelle sue satire il vecchio che si atteggia a giovane. Questi giudizi negativi sulla vecchiaia che fin qui abbiamo riportato (Virgilio, Orazio, Marziale, Giovenale…) non necessariamente vanno ricondotti allo spirito diffuso del tempo, e possono “funzionare” come tipologie isolate e archetipe interne alle opere (siano esse elegie o satire). Il senex viene lodato quando sublima la sua condizione attraverso la levatura spirituale, e schernito quando si maschera da giovane o quando si lascia schiacciare dalla sua finitezza. Tra le più alte riflessioni sulla vecchiaia come non annoverare la filosofia di Seneca, che non ravvisa il problema nella vecchiaia in sé ma nel come la si vive e nel come la si raggiunge (De brevitate vitae). Nel concetto: <<Quanto è dolce l’aver stancato le passioni ed essersele lasciate alle spalle!>> è racchiusa la concezione della vecchiaia in Seneca.
Nei primi tre secoli d.C. l’iconografia scultorea dei busti-ritratto e dei rilievi funerari ci tramanda facce e facce della condizione senile. La gamma di varianti è ampia, proporzionale ai ceti sociali e alle singole storie individuali; le diverse acconciature denunciano la scansione delle generazioni. Prevale un piglio realistico e veristico. Dall’età tardo repubblicana alla fine dell’età tardo antica resiste e si consolida il modello della famiglia romana (piccolo nucleo familiare che, all’occorrenza, includeva al suo interno anche anziani, nonni o vedove). Quando ci riferiamo al periodo tardo antico intendiamo grossomodo gli anni tra il 284 e il 565 d.C. (ossia tra Diocleziano e Giustiniano). Sotto molti aspetti potremmo considerare questi tre secoli come una propaggine della precedente età imperiale, soprattutto per quel che concerne la condizione senile nella struttura familiare e sociale. Cambiamenti più significativi li si registreranno solo all’inizio del V sec. d.C., con il processo di cristianizzazione viepiù massiccio e con le guerre sui confini territoriali. In età tardo antica la popolazione anziana (sopra i 60 anni) si attestava intorno al 5%, contro un’aspettativa di vita che si aggirava intorno ai 30 anni: dati affini all’età imperiale. Nessun significativo cambiamento quindi, e la mutua assistenza tra padri e figli continua a garantire gli equilibri sociali. L’istituzione della nascente Chiesa cristiana lavorò fin da subito in relazione alla fascia senile: incamerando eredità (dal 321 d.C.), offrendo sostegno alla deserta senectus e, in generale, a vecchi ammalati e bisognosi. La Chiesa cristiana promuove il modello del senex bonus, esempio di vita sobria e devota. Le carriere all’interno dell’istituzione religiosa non prevedono limiti d’età, anzi l’età avanzata diviene valore aggiunto, garanzia di maggiore credibilità. Le prime organizzazioni di vita conventuale, poi confluite negli ordini monastici, offrono agli anziani (con o senza vocazione) ricoveri sicuri e assistenza in caso di malattia. Quintessenza del senex bonus è l’asceta, incarnazione patologica della rinuncia alle passioni. Il modello ideale di vecchiaia promosso fin da subito dalla cristianità organizzata puntava molto sul contrasto esteriorità-interiorità: il fisico sbattuto, provato, segnato dagli anni poteva essere riscattato da propositi nobili, preghiera, sobrietà, umiltà, devozione. Si vedano a tal proposito le testimonianze di Giovanni Crisostomo e di Girolamo. Una dicotomia non nuova, che certo attingeva abbondantemente dalle culture dei secoli passati, dall’età imperiale e ancor più dietro fino alla Grecia arcaica. La nascente cultura cristiana vive di travasi, assimila, modifica laddove serve e cambia etichette. Tutte le tematiche inerenti la senectus già riscontrate nei secoli precedenti – vantaggi e svantaggi, contrapposizione tra debolezza fisica e saggezza spirituale, l’accettazione della condizione – riaffiorano nei testi cristiani della tarda antichità. Più emblematico e significativo è il rapporto del senex cristiano con la morte, vissuto attraverso la fede. La vecchiaia cristiana non termina con la morte terrena ma si rigenera nell’al di là promesso dal Dio delle Scritture. Non paura (sentimento vile proprio dei pagani), ma fiduciosa attesa. Il binomio senescenza-saggezza caratterizza fortemente l’iconografia cristiana tardo antica: santi, apostoli, pantocratori sfoggiano barbe copiose e fronti spaziose; la vecchiaia suggella le virtù dell’esperienza, della purezza d’animo e della fede. Se i volti, o meglio, se gli attributi dei volti sono mutuati da quelli dei filosofi e dei grandi vecchi greci, lo stesso non si può dire dei corpi. Tutti i corpi dell’iconografia cristiana tardo antica sono infatti coperti, drappeggiati, castigati (non ci sono corpi di vecchi ma solo volti di vecchi); a far capolino, oltre alle facce, troviamo mani e piedi. L’iconografia tardo antica cristiana ha attinto a piene mani dalle tradizioni greco-romane, ma di certo non ne ha eguagliato il verismo. Nella poesia elegiaca tardo antica (Boezio, 480 – 524 d.C. e Massimiano, VI sec. d.C.) le lamentazioni sulla vecchiaia riflettono una tristezza profonda. Scrive Massimiano: <<Nemica vecchiaia, perché ritardi ad affrettarmi la morte?>>
Dalla filosofia all’elegia, dalla tragedia alla commedia, dalla pittura vascolare alle arti plastiche e musive è possibile estrapolare informazioni preziose, talvolta anche molto dettagliate. Compito degli storici è riempire gli spazi vuoti, cucire le fratture senza toppe posticce, con prudenza, anteponendo in prima fila tanti punti interrogativi e, soprattutto, mantenendo aperto spalancato il campo d’indagine; criteri, questi, ben individuati da Hartwin Brandt (docente di Storia antica presso l’Università di Bamberg) nel suo interessantissimo saggio Storia della vecchiaia (edito in Italia da UniversaleRubbettino), un viaggio che parte simbolicamente da Omero (archetipo del senex) e si spinge fino al cuore dell’età tardo antica. Il percorso che qui abbiamo tentato di tracciare, lo ribadiamo, non ha inteso schematizzare concezioni unilaterali della senectus di epoca in epoca, al contrario, ne ha evidenziati i tratti comuni più ricorrenti e universali, validi allora come ora.
Massimiliano Sardina
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AMEDIT MAGAZINE, n. 18 – Marzo 2014. Cover “Senex” by Iano
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